
In questi giorni in cui non posso uscire i miei piedi sono pervasi da una irrequietezza serpeggiante e incontenibile. Scalpitano, cercano di sgusciare fuori dalle scarpe; le dita si arricciano e sfregano il pavimento come per scavare un tunnel da cui fuggire. La mente fa lo stesso. Si arrovella, poi si attorciglia su se stessa — sinapsi dopo sinapsi — ruota attorno al proprio asse (in un attimo il giorno diventa notte) poi percorre l’orbita sulla quale fluttua sospesa nell’universo (di colpo, l’estate si fa inverno, sui rami spogli luccica uno spesso strato di galaverna).
Sono chiusa in casa in attesa che la pressione sanguigna ritrovi il suo equilibrio e che il mio polmone destro si lasci nuovamente invadere dal respiro e ritorni in salute. Ho mille grilli per la testa e un ragno bianco dall’aria minacciosa intento ad aspettare le zanzare sul muro in alto, nell’angolo della cucina. Ho uno sciame di farfalle nello stomaco e una mandria di cavalli spazientiti sulle caviglie. Piango lacrime di coccodrillo — no, non mi dispiace essere uscita ogni giorno nelle scorse settimane — e asciugo il pianto di bambina che non vuole l’ago della flebo infilato nel braccio.
La mente segue i piedi. Li sprona a sperimentare pur restando fermi sopra una piastrella. Li invita a osare — un tacco 12, uno scatto fotografico improvvisato —e a convincersi che presto ritroveranno la libertà di uno stormo di uccelli che attraversa il cielo.