Rettili – 17 luglio 2021

Riflettevo se fosse il momento opportuno per rivelare pensieri che da minuscoli granelli di sabbia sono diventati — anno dopo anno — macigni. Riflettevo se dar loro ali di farfalla prima di gettarli tra la folla.
Ma non vi è un momento opportuno per far passare attraverso l’ugola parole con la stessa consistenza della roccia. Perciò occorre inventarselo, quel momento. Far finta che sia adesso, in questo istante. Non un secondo più tardi.
Vivo in un Paese retrivo, ostile a qualunque forma di crescita. Un Paese che mostra con orgoglio la sua coda rettiliana, affermando a gran voce, in mezzo all’agorà, che le origini sono più importanti dell’evoluzione.
Qual è il prezzo di codesto status quo? Amare lacrime (no, non di coccodrillo, benché non si possa certo negare d’esser figli di un rettile). Lacrime versate nel silenzio di una stanza. O di una coscienza — in entrambi i casi il perimetro è lo stesso.

Riflettevo se non fosse giunto il momento di dire che troppi di noi hanno accolto l’ostinata eredità squamosa del padre come un dono e se la sono fatta bastare. Non han preteso zampe di ghepardo per lanciarsi, in corsa, verso l’orizzonte, e non han preteso una bocca che al morso anteponesse la parola, poiché temevano che i tempi non fossero maturi.

E così, oggi, a qualcun altro vien ordinato di barattare la propria voce con un sibilo. Per continuare ad appartenere a una famiglia. Per non restare solo: una creatura senza carapace in mezzo a una platea di testuggini.

Allora, fingiamo che tutto vada bene, che nulla sarà perso. Invece abbiamo già perso la battaglia più importante della vita: quella per rivendicare l’uguaglianza di ognuno di noi di fronte alla legge. Perché se il mio bisogno di assistenza — che ha un costo impegnativo per il Paese in cui vivo — viene considerato una pretesa, è troppo tardi per riqualificarlo come un diritto.

17 luglio 2021.

Identità di genere – 8 luglio 2021

L’identità di genere è una realtà complessa. Zan o Darwin, la questione ruota attorno al sole tracciando un’orbita ellittica. I tempi sono maturi per comprendere. Maturi come le more dei gelsi in questa stagione.
Appartenere a un genere — tanto tra le strette vie di un piccolo borgo, quanto dentro il perimetro di una cellula — risuona come una castrazione: individuo, specie, genere, regno. Dalle alte mura di questo hortus conclusus non si esce.


Mi guardo — in verità, lo faccio con la mente anziché con gli occhi — e vedo materia organica e materiale sintetico fondersi perfettamente. Non vi è una separazione netta tra le due parti, l’una abbraccia l’altra in un graduale mutare d’identità. Il mio viso è una struttura coriacea di ossa rinchiusa entro un involucro di pelle e silicone: non è più una maschera ciò che spinge l’aria fino ai polmoni attraverso il naso. È diventata un tutt’uno con esso.
La mia schiena è un’impalcatura di vertebre sostenuta da lunghe barre di metallo che dal collo, in un declino verticale fino al bacino, si fondono alle ossa. Acciaio, fibre nervose, cartilagini.
La mia vescica accoglie un palloncino di lattice da cui diparte un tubicino che nel suo percorso esce dal corpo e va a congiungersi a un surrogato artificiale di vescica. Acqua, mucose, plastica.
Posso dire di appartenere solo al genere umano?
Sono una chimera, una creatura in parte animale e in parte minerale.
La mia natura è spuria. Contaminata. Eppure i vari pezzi formano un’unità solida, integra. La mia natura scivola impudente tra i regni dei viventi e della materia inorganica. Non può essere classificata.


Per convenzione diremo che sono una donna, ma nell’intimo di ognuno di noi sappiamo che non è del tutto vero.