30 agosto 2021

Perché io al dolore non so rispondere che con la carnalità. Non sono capace, davvero. Non sono capace di affrontarlo in nessun altro modo.

29 agosto 2021.

Uno ad uno abbiamo accolto i suoi rintocchi, li abbiamo trasformati in tanti tumulti che affiorano dalla gola e sciolgono gli occhi. Senza più pupille, né palpebre, ci ritroviamo smarriti nella più cieca delle mappe: il suono delle campane e l’odore di cera frammisto a quello di stoppino bruciato sono segni, indicazioni fumose e disorientanti. La rotta non è mai stata così incerta.

Mentre la fiamma divora gli ultimi residui di cera, ormai prossimi al buio, proviamo — in modo maldestro e ingenuo — a prepararci al rimestio di carne e spirito. La notte arcaica è pronta a smembrarci. Tengo le braccia avvolte attorno al suo collo in un pervicace abbraccio, unico tramezzo che separa il tepore del letto dall’arsura dell’inferno. Rilasciare le braccia ci farebbe risucchiare entrambi, assieme agli umori rappresi sulle lenzuola, nel nero vortice da cui non vi è ritorno. Perciò lo tengo stretto tra le braccia, e le gambe incrociate dietro la sua schiena somigliano alle marre di un’àncora gettata su un fondale di alghe.

«Settembre è un mese galleggiante. Una zattera in balia della corrente» confesso «Mi rende instabile…»

Dalla torre campanaria l’eco dei colpi, metallo contro metallo, scende fino a lambire l’asfalto e l’onda si propaga oltre le rotaie della stazione ferroviaria; supera i condominii e le siepi del quartiere residenziale e s’insinua sordo tra il sonno e le ciglia sottili del timpano. Sentiamo giungere l’ora. Sul suo volto i lineamenti iniziano a spezzarsi per cadere a terra come scaglie d’intonaco. Abbiamo desiderato che la vicinanza si traducesse in complementarietà e ora che delle sue fattezze mascoline — dall’ispida e incolta barba che indurisce il mento fino all’asprezza del pube — restano pochi frammenti disciolti nei miei lineamenti femminei, sul letto al nostro posto giace un epicèno. A poco a poco scompaiono anche gli occhi: dapprima l’iride scura, poi le ciglia. Le orbite si fanno sottili fessure prima di dissolversi.

«Settembre mi fa paura.» incalzo e le parole annaspano nel buio.

In paese una solenne cerimonia di addio invade la città, battendo le strade e svuotando le case. La gente si accalca dietro al feretro, col passo riluttante della marcia verso l’ignoto. Vi è tra la folla un’empatia fatta di accenni, di mani che si sfiorano, di assensi disegnati nell’aria da brevi oscillazioni della testa o sussurrati appena tra le labbra. Ora che non possiamo più contare sulla vista è l’udito a darci la percezione del nostro essere vivi.

«Tu la senti?» domando con voce affogata nello smarrimento più cupo.

Dietro la porta della camera si ode una greve litania di vecchia che salmodia tra le lacrime. I singulti la fanno sembrare puerile. Piange senza ritegno, accanto all’uscio socchiuso. Mi sembra di vederla portarsi le mani ruvide sul viso per coprirsi gli occhi in segno di estrema afflizione. Abbandonarsi alla disperazione l’ha fatta regredire a bambina e poi a inconsolabile neonata. Potrei uscire dalla stanza e prenderla tra le braccia. Cullarla per placarne il pianto. Ma al cordoglio sono capace di rispondere solo con l’amore. Quello più viscerale e ferino. Al lutto non so accostarmi se non stringendo tra le cosce un turgido e vivido principio di vita.

Il corteo funebre si dissolve lentamente all’orizzonte, ma quel senso d’inevitabile epilogo rimane a sigillo della coscienza umana. Perciò ricominciamo, senza occhi e in mare aperto. Qui dove la bellezza necessità di toccare più che di ammirare, e il culto estetico si officia con le mani più che con le pupille.

«Voltami su un fianco, facciamolo come gli animali» imploro.

La vecchia china sul proprio dolore, chiusa in un corpo avvizzito e decadente è la misura del tempo che incessantemente scorre. Biascica che tutto avrà fine. Tuttavia, su questo letto noi interrompiamo la Storia. La distanza tra il vivere e il ricordo di averlo fatto, tra l’esistenza e il vuoto è una misura infinitesima, una dimensione troppo piccola per essere rilevata. Ora, in fondo, è già passato.

Tania e Paolo – Éloge de l’ombre, 2008.
Ph: Margherita Riccardi

27 agosto 2021

La mia amata Torino. Non voglio perdermi nemmeno un minuto del tempo che trascorro nel capoluogo, nella città tanto cara a Nietzsche, la città di Luigi Einaudi, Piero Gobetti, Pietro Micca…
Stasera — davanti a un calice di Cortese di Gavi e all’immancabile tazza di tè — mi è parso di comprendere la ragione di certi malumori che mi colgono all’improvviso facendomi sentire svuotata, mesta. Ora questa ragione ha un nome: assenza. È l’assenza — purtroppo endemica nel nostro Paese e ancor più pregnante nel piccolo borgo canavesano in cui ho scelto di vivere — di concrete possibilità di esprimere il proprio essere, le personali abilità, il variopinto modus vivendi dei vivaci coltivatori di parole come me. Tuttavia, qui queste opportunità le ho trovate ad attendermi.
L’opportunità di canticchiare Black to Black caracollando sul pavé di Piazza Castello, di concederci un momento di goliardia di fronte all’ingresso del Teatro Regio. L’opportunità di ordinare un tè Earl Grey insieme ai gamberi con salsa teriyaki, indispettendo i cultori della tradizione sabauda. L’opportunità di scambiare quattro chiacchiere in inglese con la donna seduta al tavolo accanto al nostro, solo per farle sapere che è stato un onore cenare accanto a una persona così innamorata della vita da sapersi gustare, in solitudine, ogni piatto e ogni calice di vino, sorridendo al maître in segno di apprezzamento ogniqualvolta lui le si avvicinava per porgerle una delle innumerevoli portate.
So, have a good night, my dear friends. Stanotte vado a letto sentendomi un po’ più libera.

19 agosto 2021

Non sono nata nel capoluogo. Ci sono andata ad abitare soltanto per essere più comoda ai servizi e poter usufruire, con più facilità, dei mezzi di trasporto pubblico.

Sono nata in un piccolo borgo dell’entroterra canavesano fondato sulla pianura alluvionale dell’Orco. Ho vissuto lì le stagioni della mia infanzia, in quel paese di anime ammonticchiate su uno slargo di terra battuta, punteggiato di noccioli e di ciliegi. Un fazzoletto di mondo consacrato al culto cristiano ma profumato di paganesimo, quel paganesimo in odore di eresia che la dottrina cristiana delle origini aveva a malapena dissimulato poiché incapace di sradicarlo.

Il ventre del paese era un susseguirsi di resti medioevali e di umili costruzioni perlopiù ad uso agricolo e l’orizzonte era un conficcarsi tagliente di piani nel verticale della vicina catena montuosa: perpendicolarità che rifletteva, nella gelida e ieratica geometria, velati incastri carnali.

Negli stretti vicoli si respirava l’odore acre dei cortili, laddove qualche gallina chiocciava nel fienile mentre qualche altra ruzzolava tra i pagliericci e la legnaia, e dai portoni chiusi — insieme all’afrore dell’aia e delle stalle — effondeva un senso di penombra e di colori scuri, blu e grigi, forse anche di viola mischiato al nero. C’era, dalla piazza alle viuzze e finanche ai sentieri, un vociare di vecchi e di bambini, un trambusto di mercanti e artigiani che collimava con il frastuono dei macchinari agricoli e lo scampanellio delle biciclette e degli usci dei negozi.

Ovunque si udiva un suono, un verso, una voce, fino all’ora del tramonto quando il sole si spegneva dietro la dorsale alpina e il cielo infuocato metteva a tacere l’animazione chiassosa del paese in un grugare di piccioni che risaliva fino alla cella campanaria del Torrione. Lì i colombi avrebbero atteso l’alba e i rintocchi che annunciavano la prima messa della giornata. Poiché il paese non si era mai affrancato dal terrore del flagello divino che scongiurava con la devozione. Quel minuscolo borgo non aveva mai abbandonato il sentimento di paura irrazionale e cieca. Aveva tentato, invece, di arruffianarselo con offerte spirituali e materiali. Di più, naturalmente, con queste ultime. Sicché in paese vi erano cinque chiese, tre cappelle e un numero imprecisato di piloni votivi.

In una di quelle chiese ero stata battezzata, purificata con le fumigazioni dell’incenso, intrattenuta dal baluginio delle candele votive. Lì avevo recitato le mie preghiere, provando a usarle come moneta di scambio per ottenere qualcosa, ma quelle suppliche in odore di prostituzione risuonavano come l’appello dei committenti alla penetranza dell’arte: un chiedere la cui riuscita dipendeva dal talento dell’artista più che dalla persuasione dei mecenati.

Dentro quei luoghi di culto oscuri e odorosi di resine, talvolta ci torno con la mente e mi vedo ferma, ad occhi chiusi, in mezzo al nartece, silenziosa e vigile, prima di avanzare — passo dopo passo — lungo la navata fino all’abside. Sento voci che bisbigliano in un idioma a me sconosciuto, e suoni che somigliano al crepitio delle mie ruote sugli sterpi. A quel punto apro gli occhi e intorno a me vedo il bosco. E allora mi rendo conto che non ho mai smesso di cercare, che sto ancora vagando, seppur in luoghi di culto differenti — una chiesa, un letto, un bosco — alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire compiuta. E, finalmente, libera.

14 agosto 2021

Questa estate ha il sapore della resina succhiata dagli aghi dei pini, all’ombra dei nocciòli. Odora di gelsomino e di bardana cresciuta spontanea sul muricciolo di pietra, lungo la strada che sale la collina.
Questa estate ha le sembianze della roccia sbozzata per liberare la bellezza dalla materia, odora di polveri di gipsoteca.
È tempo di rinascite, di letti di sarmento su cui addormentarsi al tramonto e risvegliarsi all’avvampare dei falò, sotto una luna aguzza, metà satellite e metà falce, metà voyeur pallido e innocente e metà lama sporca di sterpi e di sangue.
Si avverte che nelle parole c’è qualcosa di impudico. Più che nei gesti.
«Perché della ragazzina timida e vulnerabile che ero un tempo non è rimasto che un guscio vuoto di noce?» Le esperienze vissute — mi dico — han segnato la mia crescita, quel passaggio da seme acerbo a gheriglio carnoso dal sapore lievemente amarognolo, di corteccia e di midolla.

Il cielo, che si è fatto cupo come l’iride, ha aizzato la bestia. Le ha fatto conoscere l’odore del sangue e la tenerezza delle carni. La bambina, con la temerarietà degli innocenti, ha avvicinato l’animale e si è lasciata azzannare per mischiare il proprio sangue al suo e divenire una sola carne.

Si è vulnerabili finché la vita te lo concede, finché la vulnerabilità non diventa una caratteristica venefica, una cellula mutata che aggredisce le cellule sane di un corpo. Un cancro. Allora, devi cercare di estirparla, strapparne le radici con mani rapaci, aggressive come artigli, grosse come sarchiatori.
«E che resta della persona dopo questo barbaro atto di ripulitura?»
Resta la carne. Quella sopravvissuta, indurita dal tempo e scurita dal sole. Quella che dà vita al pensiero nel labirinto cerebrale, quella dei circuiti riverberanti. Quella che cerca linfa dal terreno dissodato e nuovamente fertile.

Eppure la percezione della mia identità sconfina dalla materia, disattende la normalità biologica. Appartenere a un genere — tanto tra le strette vie di un piccolo borgo, quanto dentro il perimetro di una cellula — risuona come una castrazione: individuo, specie, genere, regno. Dalle alte mura di questo hortus conclusus non si esce.

Mi guardo — in verità, lo faccio con la mente anziché con gli occhi — e vedo materia organica e materiale sintetico fondersi perfettamente. Non vi è una separazione netta tra le due parti, l’una abbraccia l’altra in un graduale mutare d’identità. Il mio viso è una struttura coriacea di ossa rinchiusa entro un involucro di pelle e silicone: non è più una maschera ciò che spinge l’aria fino ai polmoni attraverso il naso. È diventata un tutt’uno con esso.
La mia schiena è un’impalcatura di vertebre sostenuta da lunghe barre di metallo che dal collo, in un declino verticale fino al bacino, si fondono alle ossa. Acciaio, fibre nervose, cartilagini.
La mia vescica accoglie un palloncino di lattice da cui diparte un tubicino che nel suo percorso esce dal corpo e va a congiungersi a un surrogato artificiale di vescica. Acqua, mucose, plastica.
Posso dire di appartenere solo al genere umano?
Sono una chimera, una creatura in parte animale e in parte minerale.
La mia natura è spuria. Contaminata. Eppure i vari pezzi formano un’unità solida, integra. La mia natura scivola impudente tra i regni dei viventi e della materia inorganica. Non può essere classificata.

Per convenzione diremo che sono una donna, ma nell’intimo di ognuno di noi sappiamo che non è del tutto vero.

Rettili – 17 luglio 2021

Riflettevo se fosse il momento opportuno per rivelare pensieri che da minuscoli granelli di sabbia sono diventati — anno dopo anno — macigni. Riflettevo se dar loro ali di farfalla prima di gettarli tra la folla.
Ma non vi è un momento opportuno per far passare attraverso l’ugola parole con la stessa consistenza della roccia. Perciò occorre inventarselo, quel momento. Far finta che sia adesso, in questo istante. Non un secondo più tardi.
Vivo in un Paese retrivo, ostile a qualunque forma di crescita. Un Paese che mostra con orgoglio la sua coda rettiliana, affermando a gran voce, in mezzo all’agorà, che le origini sono più importanti dell’evoluzione.
Qual è il prezzo di codesto status quo? Amare lacrime (no, non di coccodrillo, benché non si possa certo negare d’esser figli di un rettile). Lacrime versate nel silenzio di una stanza. O di una coscienza — in entrambi i casi il perimetro è lo stesso.

Riflettevo se non fosse giunto il momento di dire che troppi di noi hanno accolto l’ostinata eredità squamosa del padre come un dono e se la sono fatta bastare. Non han preteso zampe di ghepardo per lanciarsi, in corsa, verso l’orizzonte, e non han preteso una bocca che al morso anteponesse la parola, poiché temevano che i tempi non fossero maturi.

E così, oggi, a qualcun altro vien ordinato di barattare la propria voce con un sibilo. Per continuare ad appartenere a una famiglia. Per non restare solo: una creatura senza carapace in mezzo a una platea di testuggini.

Allora, fingiamo che tutto vada bene, che nulla sarà perso. Invece abbiamo già perso la battaglia più importante della vita: quella per rivendicare l’uguaglianza di ognuno di noi di fronte alla legge. Perché se il mio bisogno di assistenza — che ha un costo impegnativo per il Paese in cui vivo — viene considerato una pretesa, è troppo tardi per riqualificarlo come un diritto.

17 luglio 2021.

Identità di genere – 8 luglio 2021

L’identità di genere è una realtà complessa. Zan o Darwin, la questione ruota attorno al sole tracciando un’orbita ellittica. I tempi sono maturi per comprendere. Maturi come le more dei gelsi in questa stagione.
Appartenere a un genere — tanto tra le strette vie di un piccolo borgo, quanto dentro il perimetro di una cellula — risuona come una castrazione: individuo, specie, genere, regno. Dalle alte mura di questo hortus conclusus non si esce.


Mi guardo — in verità, lo faccio con la mente anziché con gli occhi — e vedo materia organica e materiale sintetico fondersi perfettamente. Non vi è una separazione netta tra le due parti, l’una abbraccia l’altra in un graduale mutare d’identità. Il mio viso è una struttura coriacea di ossa rinchiusa entro un involucro di pelle e silicone: non è più una maschera ciò che spinge l’aria fino ai polmoni attraverso il naso. È diventata un tutt’uno con esso.
La mia schiena è un’impalcatura di vertebre sostenuta da lunghe barre di metallo che dal collo, in un declino verticale fino al bacino, si fondono alle ossa. Acciaio, fibre nervose, cartilagini.
La mia vescica accoglie un palloncino di lattice da cui diparte un tubicino che nel suo percorso esce dal corpo e va a congiungersi a un surrogato artificiale di vescica. Acqua, mucose, plastica.
Posso dire di appartenere solo al genere umano?
Sono una chimera, una creatura in parte animale e in parte minerale.
La mia natura è spuria. Contaminata. Eppure i vari pezzi formano un’unità solida, integra. La mia natura scivola impudente tra i regni dei viventi e della materia inorganica. Non può essere classificata.


Per convenzione diremo che sono una donna, ma nell’intimo di ognuno di noi sappiamo che non è del tutto vero.

Marasche – 17 giugno 2021

Da ottobre dello scorso anno un lento ma continuo cambiamento ha trasformato completamente la persona che ero. L’ha maturata come il sole di giugno matura una marasca. Da tempo ero pronta a misconoscere il ramo, congedarmene, ma indugiavo fingendo di essere ancora acerba e allappante. Poiché la mano che raccoglie il frutto non sempre è riconoscente.
Tuttavia, biologicamente il mio destino era segnato: dovevo abbandonarmi alla raccolta.
E così mi sono lasciata andare, senza timore. Allora ho compreso che la mia nudità emotiva appagava la mia identità di frutto: potevo starmene nuda di fronte a occhi sconosciuti. Dall’interno della mia polpa scura, amarognola e compatta — il cui destino non la porterà mai ad allietare palati incastonata in un reticolo di pasta frolla, sopra uno strato di confettura, bensì ad essere separata dal nocciolo che verrà pestato e macerato dentro un vaso di vetro con alcol a 90° — oggi mi sento emotivamente leggera, impudìca.

Per anni ho temuto le “prime volte”, il primo giorno di formazione delle candidate al ruolo di assistente. Quel primo mostrarmi che era ben più di un semplice svestirmi. Oggi l’ho fatto senza paura, consapevolmente agile e spensierata. E finalmente mi sono accorta che questa non è stata una “prima volta”.

Solo di passaggio.

Eccomi: non amo più il frastuono della movida; a un locale con musica assordante preferisco il frinire dei grilli in un prato deserto. Ieri, seduta in riva al lago, ho avvertito il cambiamento che — silenzioso — è avvenuto negli ultimi due anni. Adesso sono ufficialmente una da lounge bar, da intime serate jazz nella penombra di uno scantinato; sono una di passaggio sul lungolago che si ferma ad ascoltare un blues improvvisato, una a cui piace alzare lo sguardo verso le stelle in una radura lontano dalla civiltà o passeggiare nella mia Torino quando la maggior parte delle persone dorme.
Ma c’è da dire che, forse, il cambiamento è avvenuto ben prima del tempo di cui ho memoria. In silenzio, come un respiro quieto avvolto dal sonno.

La chimera – 3 giugno 2021

Il mio “coming out” sull’utilizzo del catetere vescicale. Fino ad allora il mio nuovo corpo (sì, perché la convivenza con un dispositivo inserito nel proprio corpo rende quest’ultimo diverso, nuovo…) mi faceva sentire drammaticamente fuori dagli standard, inaccettabile.

Poi, la consapevolezza — raggiunta in un torrido giorno d’estate — di essermi perfettamente integrata: pelle e lattice, vescica e tubo. Da quel momento ho cominciato a vedermi per ciò che sono: una creatura plasmata nella carne e nella materia inorganica, una chimera senza confini di genere, né di pensiero.

Passaggio in ombra – 2 giugno 2021

Apro gli occhi sul soffitto bianco, cerco – annebbiata dal sonno che tarda a dissolversi – la macchia scura che ho eletto stella polare, poi mi riaddormento per una manciata di minuti. Al risveglio, lo sguardo è già orientato a nord, e in una frazione di secondo mette a fuoco la mia guida celeste, quella sbavatura screziata che è lì da quando Katarzyna ha messo a tacere una fastidiosa zanzara spalmandola sul soffitto con un lancio calibrato di ciabatta.

Non ho voglia di alzarmi. Gli arti, zavorrati da una mestizia implacabile, schiacciano il materasso. Tuttavia, il peso del corpo è un’inezia in confronto a quello della mente. Già, perché ci sono giorni come questo in cui pare, per una alquanto distorta legge del trapasso, che i resti scomposti della zanzara abbiano designato le mie membra spiaccicate sul letto quale punto di riferimento di quel microcosmo che è la stanza.

“Mamma…” mi sfugge di bocca, quasi un richiamo ancestrale all’abbraccio dell’utero che protegge e ristora. 

Chiudo gli occhi. È l’estate del millenovecentonovantotto. Gli amici del mare sono ripartiti, dopo il fine settimana trascorso in Canavese. Io me ne sto seduta in mezzo al prato, in un angolo riparato dalla siepe d’alloro e da un filare di camelie.Reggo tra le mani due libri, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez, e “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. Quest’ultimo ho appena finito di leggerlo e sogno di fuggire con la stessa disperazione, la stessa sete d’amore della protagonista. Sogno di farlo a piedi nudi – forse per il rimando dell’erba tiepida che li solletica e ne fa arricciare le dita quando dondolo le gambe – e immagino di lasciarmi alle spalle tutta la mia vita sbilenca, mutilata e rattoppata. Ho da poco compiuto vent’anni e sono certa di non arrivare ai trenta. Se mi dicessero che non solo ci arriverò, ma li supererò abbondantemente, non ci crederei. Da appena un anno ho scoperto che cosa significhi “realmente” vivere con la SMA. E siccome la mente è troppo lucida per il dolore che gli si chiede di sopportare, ho pregato di morire. Non che lo voglia davvero, no. Quando gli steli d’erba stuzzicano i piedi scalzi posso perfino far orecchie da mercante all’eco di morte che porto in grembo.