Harley Quinn e Joker – 27 settembre

Un weekend insolito, difficile, a tratti insopportabile. Paura, angoscia, rabbia. Oggi un sole caldo riscalda la pietra del pavimento sotto il gazebo e la siepe erubescente del vicino che offre riparo al gatto dal lungo pelo fulvo sotto il suo tetto di foglie.

Lo spirito rinvigorito risucchia quel calore come per osmosi: molecole in movimento per effetto dell’agitazione termica filtrano dall’aria tiepida all’anima. L’anima, qui intesa come psychè che, come la letteratura omerica tramanda, è un elemento freddo pronto ad abbandonare il corpo quando esso muore.

Il sole, tuttavia, oggi ha riportato vita nell’anima gelida che attendeva, muta, sotto l’epidermide, il momento di sfuggire alla carne. Libera finalmente. E con il sole sono giunti i baci, i respiri all’unisono — anemos, per restare in tema classico — la leggerezza dello schernirsi come bambini, quel prendersi in giro frizzante e perfido al contempo…

Papà sta meglio e la nostra anima rifiorita è nuovamente giocosa, vivace, impertinente. Vuole pungolare, rincorrere, ridere di gusto.

«Tu sei la mia Harley Quinn!» dichiara lui festoso.

Mi è stato accanto in questi giorni cupi, tenendomi per mano anche nel sonno. Il minimo che io possa fare è augurare cento giorni come questo al mio amato Joker, folle, imprevedibile e affine stronzetto.

Indipendenza – 27 settembre

Da ieri (e fino a oggi pomeriggio) ho vissuto una delle esperienze più brutte della mia vita. Ho temuto per la salute di mio padre. Il pericolo non è del tutto rientrato, ma spero mi darà il tempo di organizzarmi per trovare una totale indipendenza e permettere a papi di affrontare serenamente l’intervento chirurgico in programma.

In queste ore di pianti senza ritegno ho pensato spesso alle parole di stimati caregiver — Sara Bonanno, ad esempio — e il loro eco nella mente mi ha fatto comprendere quanto io non sia mai riuscita a vivere una vita indipendente completa e soddisfacente. Ho spesso sentito dire che nel nostro paese ai caregiver familiari non è permesso ammalarsi… Vero. Mio padre è colui che non mi ha mai negato il suo aiuto nemmeno se in preda a un bruttissimo attacco di lombo-sciatalgia o a una recidiva di ernia inguinale. È colui che quando mi regge tra le braccia trattiene i gemiti di dolore pur di non farmi cadere e sedermi comoda sulla carrozzina. Non esistono ferie per i caregiver familiari. Mio padre sostituisce le mie assistenti quando sono in malattia, in vacanza, a riposo. Le sostituisce perché spesso non si riescono a trovare altri assistenti disposti ad una repentina sostituzione.

Ho riflettuto molto su questo. E sono giunta alla conclusione che le difficoltà riscontrate nel trovare assistenti personali abbia creato un cordone ombelicale tra me e papà, alla stregua di quello che a suo tempo mi ha tenuta legata a mia madre nel tepore del suo grembo.

Papi è l’uomo più importante della mia vita. Il mio faro, la luce in fondo al tunnel. Papi ha dormito diversi mesi su una poltrona durante i miei ricoveri in ospedale, mi ha alzata e coricata innumerevoli volte in un giorno ogni volta che a causa di un’infezione respiratoria non potevo stare troppo tempo seduta perché da seduta io non riesco a tossire. Ma papi è anche un eclettico, un creativo, un saggio, un fantasioso e delicato umorista. Non prende mai la vita troppo sul serio – quando ero bambina ogni mattina mi svegliava con una canzone e se trovava delle briciole sul mio letto di solito mi chiedeva: “Sei andata in cucina stanotte a prepararti un panino?” Naturalmente io non ho mai camminato… Un giorno, qualche tempo fa, gli ho chiesto di tosare il prato e lui ha chiosato: «Per caso inciampi con le ruote nell’erba?» Papi è il mio papi. Mio. Ma devo imparare a essere più indipendente.

Ps. Per fortuna, c’è chi non è geloso… 😁

Marinai – 25 settembre

Piove da questa mattina, il paesaggio oltre il vetro ha le stesse sfumature bigie del cielo. Nessun rumore oltre allo stillicidio sulle finestre. La sensazione di essere precipitata nell’autunno fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, lascia spazio a una quiete confortante che non è mestizia bensì pacatezza, soavità.

Getto il telefono sul tavolo e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. Sopra la credenza indiana una manciata di rose ha trovato riparo dal freddo del giardino dentro un vaso di ceramica grigio antracite. Ne afferro una: voglio scattare una fotografia per ricordare questa giornata che non assomiglia a nessuna di quelle di cui ho memoria. Una giornata di fine settembre, cupa oltre le mura domestiche, ma serena e limpida come una mattina d’estate dentro il petto.

In un attimo non indosso più i miei panni e nell’affresco pompeiano di fronte a me si materializza il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.

«Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi… » riecheggia nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo di agosto, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere sollevata — corpo e spirito — dalle mani altrui. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni ricerca assistenziale, intima o spirituale.

Quel: «Ti porterò in mare!» aveva la stessa intensità di un giuramento e blandiva il mio desiderio di ricominciare tutto da zero. Risuonava come l’annuncio della mia imminente venuta al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così avevo iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che regge il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…

«Ti porterò al largo!» aveva promesso: «Sto pensando a come prenderti.»

In quel momento, tuttavia, a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal grembo fino alla gola, un’angoscia soffocante che richiamava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale promessa non fosse stata altro che superficialità? Un modo ingenuo per nuotare a pelo d’acqua dentro una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto senza alcuno sforzo? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, infatti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un tuffo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati. Così ha fatto lui.

Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima. Un marinaio deve salpare, lasciarsi alle spalle qualcosa e qualcuno.

Il punto è che stamattina, sotto lo scroscio della pioggia, non provo alcuna tristezza. Questa volta affronto il volto apolide del mare aperto a cuor leggero, con una serenità che mi giunge dal ventre, calda e vellutata. Perché stamattina sento che in questo viaggio il vento sarà la mia altalena, la forza che sospinge il mio corpo e innalza il mio spirito, mani capaci di sollevarmi ben più in alto di ciò che farebbero le braccia altrui.

L’abisso – 21 settembre

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – importantissimi ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Tutti muoviamo i nostri passi nel crepuscolo.

«Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte» confida con un fremito nella voce.

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri. 

«Lo avevo intuito» 

Mentre il tè nelle tazze raffredda, lui pone le mani congiunte sulle ginocchia: «Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…»

«E invece s’è fatto incendio sotto la cenere.» mi affretto a suggerire. «Abisso» bisbiglio, frattanto nella mente si apre un varco l’omonima scultura del Canonica.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

«Leggevamo insieme» riprende, quasi che nel filo del discorso possa ritrovare una florida continuità con ciò che non c’è più « ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.»

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti avviluppandoci come placenta.

«Mi fa strano» provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento «che qualcuno ancora associ l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.»

Ascolta senza batter ciglio. Allora proseguo: «Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti… » Bevo un sorso di tè nero e poi provo a spiegare: «Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci».

L’abisso, Pietro Canonica

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

«E poi son convinta che il tempo non sia più a mio favore, nonostante mi senta più viva oggi di ieri. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze…» bevo, poi incalzo «L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero altrove, su qualcosa che mi facesse sentire viva, su un amplesso.»

Mi fermo per guardarne il volto e capire fin dove posso spingermi. Respiriamo la stessa aria in questa stanza che odora di foglie di tè e di focolare. Siamo così vicini da sentirci finalmente affiorare dall’ombra. E accettarci per ciò che siamo: visibili.

«Dovevo sentirmi viva, capisci? Più viva del solito, più carne e più spirito, più viscere e umori, più… »

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.

Leggerezza – 17 settembre

Stasera, in onore di quella leggerezza — o imprudenza, sventatezza, storditaggine o follia — che mi contraddistingue, voglio riproporvi un vecchio articolo che scrissi qualche anno fa. Chiedo venia ai cultori del jazz e a tutti i Borsalini che leggeranno.

JAZZ E ALTRI DEMONI

Dico a tutti i miei contatti che sì, io ascolto jazz e frequento i locali dove fanno le jam session. Anche i muri sanno che sul mio iPod ho tutti gli album di John Coltrane, Miles Davis, Wes Montgomery…sanno che li ascolto anche mentre vado di corpo perché il jazz ti fa figa anche se sei seduta sul cesso.
E quando invito gli amici per un cocktail li porto al Jazz Club e ordino un Cosmopolitan — che poi non bevo perché la vodka mi fa schifo — e di quando in quando esco sul terrazzo a fumare una sigaretta, rigorosamente con il bocchino che fa un po’ porca e un po’ intellettuale, e con le gambe accavallate lascio il piede seguire il ritmo sincopato della musica, gesto che mi consacra hipster agli occhi degli altri avventori.�Perché questo è ciò che voglio: dare l’idea di una che sa, una con la collezione di vinili in salotto, una che sa miscelare i tabacchi per la pipa, una in cui scorre sangue negro, selvaggio, che rivendica l’appartenenza ai bordelli di New Orleans e non a questi salotti con la puzza sotto il naso.

Poi una sera indosso il Borsalino grigio (comprato a pochi euro al Balon e con l’etichetta Made in Taiwan sulla tesa) e sentendomi figa dentro, varco la soglia di un noto locale torinese, in quello stato d’animo vagamente erotico che prepara il corpo ad accogliere la musica. E lì, tra i tavoli e il palco incontro un vecchio amico che, guarda caso, ha organizzato il concerto che sta per tenersi. E che appena si spengono le luci, afferra il microfono e punta gli occhi sul mio volto improvvisamente sbiancato.
«Voglio iniziare dedicando un brano alla mia amica, Tania…» (applausi, mentre io deglutisco nervosamente) «Scegli un titolo!» ordina, e l’intera sala si volta verso di me che sto pregando si apra una voragine sotto il mio culo e mi porti dritta all’Inferno.
«Dimmi!» incalza, sorridendo come uno stronzo idiota.
Mi inumidisco le labbra (cazzo, dove ho messo quel cacciavite con la punta a stella che ora sarebbe perfetto dentro le mie ovaie? Dov’è? Dov’è?)
«Uno qualsiasi…» sussurro, mentre lo sguardo si assicura vi siano uscite d’emergenza nelle vicinanze.
Insiste.
«Davvero, uno qualunque…» balbetto, raggelata.
Silenzio.
Allora, mentre tutti, ma proprio tutti, capiscono che di jazz io non ne capisco un benemerito cazzo, il giovane sul palco, forse pentito di avermi accordato la sua amicizia, porta alla bocca il sassofono e dà il via al concerto.

Zattere – 16 settembre

Uno ad uno abbiamo accolto i suoi rintocchi, li abbiamo trasformati in tanti tumulti che affiorano dalla gola e sciolgono gli occhi. Senza più pupille, né palpebre, ci ritroviamo smarriti nella più cieca delle mappe: il suono delle campane e l’odore di cera frammisto a quello di stoppino bruciato sono segni, indicazioni fumose e disorientanti. La rotta non è mai stata così incerta. 

Mentre la fiamma divora gli ultimi residui di cera, ormai prossimi al buio, proviamo — in modo maldestro e ingenuo — a prepararci al rimestio di carne e spirito. La notte arcaica è pronta a smembrarci. Tengo le braccia avvolte attorno al suo collo in un pervicace abbraccio, unico tramezzo che separa il tepore del letto dall’arsura dell’inferno. Rilasciare le braccia ci farebbe risucchiare entrambi, assieme agli umori rappresi sulle lenzuola, nel nero vortice da cui non vi è ritorno. Perciò lo tengo stretto tra le braccia, e le gambe incrociate dietro la sua schiena somigliano alle marre di un’àncora gettata su un fondale di alghe.

«Settembre è un mese galleggiante. Una zattera in balia della corrente» confesso «Mi rende instabile…»

Dalla torre campanaria l’eco dei colpi, metallo contro metallo, scende fino a lambire l’asfalto e l’onda si propaga oltre le rotaie della stazione ferroviaria; supera i condominii e le siepi del quartiere residenziale e s’insinua sordo tra il sonno e le ciglia sottili del timpano. Sentiamo giungere l’ora. Sul suo volto i lineamenti iniziano a spezzarsi per  cadere a terra come scaglie d’intonaco. Abbiamo desiderato che la vicinanza si traducesse in complementarietà e ora che delle sue fattezze mascoline — dall’ispida e incolta barba che indurisce il mento fino all’asprezza del pube — restano pochi frammenti disciolti nei miei lineamenti femminei, sul letto al nostro posto giace un epicèno. A poco a poco scompaiono anche gli occhi: dapprima l’iride scura, poi le ciglia. Le orbite si fanno sottili fessure prima di dissolversi. 

«Settembre mi fa paura.» incalzo e le parole annaspano nel buio. 

In paese una solenne cerimonia di addio invade la città, battendo le strade e svuotando le case. La gente si accalca dietro al feretro, col passo riluttante della marcia verso l’ignoto. Vi è tra la folla un’empatia fatta di accenni, di mani che si sfiorano, di assensi disegnati nell’aria da brevi oscillazioni della testa o sussurrati appena tra le labbra. Ora che non possiamo più contare sulla vista è l’udito a darci la percezione del nostro essere vivi. 

«Tu la senti?» domando con voce affogata nello smarrimento più cupo. 

Dietro la porta della camera si ode una greve litania di vecchia che salmodia tra le lacrime. I singulti la fanno sembrare puerile. Piange senza ritegno, accanto all’uscio socchiuso. Mi sembra di vederla portarsi le mani ruvide sul viso per coprirsi gli occhi in segno di estrema afflizione. Abbandonarsi alla disperazione l’ha fatta regredire a bambina e poi a inconsolabile neonata. Potrei uscire dalla stanza e prenderla tra le braccia. Cullarla per placarne il pianto. Ma al cordoglio sono capace di rispondere solo con l’amore. Quello più viscerale e ferino. Al lutto non so accostarmi se non stringendo tra le cosce un turgido e vivido principio di vita.

Il corteo funebre si dissolve lentamente all’orizzonte, ma quel senso d’inevitabile epilogo rimane a sigillo della coscienza umana. Perciò ricominciamo, senza occhi e in mare aperto. Qui dove la bellezza necessità di toccare più che di ammirare, e il culto estetico si officia con le mani più che con le pupille.

«Voltami su un fianco, facciamolo come gli animali» imploro.

La vecchia china sul proprio dolore, chiusa in un corpo avvizzito e decadente è la misura del tempo che incessantemente scorre. Biascica che tutto avrà fine. Tuttavia, su questo letto noi interrompiamo la Storia. La distanza tra il vivere e il ricordo di averlo fatto, tra l’esistenza e il vuoto è una misura infinitesima, una dimensione troppo piccola per essere rilevata. Ora, in fondo, è già passato. 

Harley Quinn – 13 settembre

Ho raccontato della mente molotov e del sotterraneo ribollire di emozioni che fanno eco a un principio di vita vivido e incandescente come magma.

Ma ho tralasciato di dirvi della leggerezza capace di liberarmi dal piombo che certi giorni pesa sulla mia testa, costringendola a chinarsi. Il piombo è il metallo degli alchimisti: può essere tramutato in oro. Chi conosce la mia Torino sa di quale processo sto parlando. L’oro di Torino è un pigmento, una sfumatura, uno stato d’animo. Un tramonto. Tuttavia, ci vogliono occhi capaci di vederlo. Occhi che non si soffermano al passato regale della mia città, né agli arredamenti degli antichi palazzi o all’austerità scintillante dei caffè storici, bensì pupille che sprofondano nel bronzo del crepuscolo o nel riverbero aureo sulla superficie quieta del Po.


Nei miei geni sopravvive un principio alchemico simile. Una sorta di serena sventatezza cresciuta con me, anno dopo anno. Prima era l’innocenza creativa di bambina, poi l’indole sognatrice di adolescente, infine si è fatta imprudenza vellutata di adulta. Temerarietà, forse. Insensatezza. La capacità di liberarmi dal peso che certi giorni piega le ossa e schiaccia il pensiero sul pavimento. Leggerezza, appunto.

Febbre – 10 settembre

Ancora febbre. Certo, in questo momento storico non è rassicurante avere ancora qualche linea di febbre dopo due giorni di antibiotico… Tuttavia, chi come me convive con la SMA — e chi, con un catetere vescicale — sa che spesso dobbiamo armarci di infinita pazienza e attendere. Aspettare che corpo e mente guariscano all’unisono. Soprattutto chi, come me ha una mente molotov. Un ordigno esplosivo pronto a deflagrare ad ogni minimo sobbalzo.

Non ho mai potuto addestrare il corpo — o almeno non come avrei voluto — a schivare le malattie come un giocatore impara a fare con i proiettili durante una partita a paintball. E non sono mai riuscita ad ammansire la mente per non farla esplodere. Il fuoco che divampa dagli alluci alle doppie punte dei capelli infiamma le carni e innesca l’ordigno nascosto sotto la corteccia e incagliato dentro il sistema limbico, neurone su neurone.
Prima o poi, il corpo si ammala e la mente conflagra.


Perciò, se alcuni di voi ancora pensano che io sia una persona mite, si ravvedano: io sono una bomba in mano a un bambino, un nucleo di uranio pronto alla fissione, una centrifuga piena di nitroglicerina. Sono l’onda d’urto che sventra le case e brucia tutto ciò che incontra sul suo cammino, uno tsunami che rade al suolo chilometri di terraferma, un cannibale avido di cristalleria, infissi, tegole, piastrelle…

Ma ci sono mani in grado di placarmi. Quelle che mi stringono in un abbraccio, ad esempio, quelle che seguono il profilo del mio viso come un in rito apotropaico, e quelle che appena chiedo loro una musica capace di distrarmi cercano i tasti del pianoforte.

Stasera le mani sono le stesse di ieri, le mie emozioni anche — forse meno distruttive — ma il pianoforte non è il mio. Per rispetto delle norme sanitarie vigenti e per quelle più intime legate al groviglio di precauzioni che da sempre devo adottare, questa sera talune corde non possono che essere fatte vibrare a distanza.

Corde – 9 settembre

Ci sono mani che han toccato corde profondissime ma poi han scelto la tranquillità radiosa della superficie. E poi ci sono mani che han penetrato l’epidermide e si sono spinte fin dentro il cuore: dita che sono entrate dentro atrii e ventricoli facendosi strada nel sangue, intingendosi in quel rosso porpora di antica e regale memoria, lacerando le carni senza fare male. 

«Due addii in un mese sono troppi per me». Ancora una volta, bellezza e dolore confliggono tra gli occhi e il costato: «Due addii sono troppi per il mio cuore e quel suo destino da puttana».

Ma ci sono mani che sferzano, scuotono, comprimono corde profondissime e il loro è un voler porre l’accento sul fatto che, sì, conoscono il mio cuore e il meretricio che grava tra i ventricoli e gli affetti, e non intendono alimentare l’omertà che gli è ramificata attorno.

In serate come, queste cariche di mestizia, le sole corde che voglio ricordare sono queste, pregnanti, immortali, stonate. Mie.

Il fluido della metamorfosi – 8 settembre

Capita, talvolta, che rivolgere lo sguardo al passato disorienti. Quella che vedi non sei tu. O meglio, non sei più tu.

Era una mattina assolata di agosto, il cielo terso invitava a uscire per cercare refrigerio sotto le robinie dalle ampie fronde, con i capelli raccolti alla buona e indosso un abito leggero che lasciava nuda la schiena affinché anche il più debole alito di vento scivolasse dal collo fino ai fianchi senza incontrare ostacoli. Invece, mi sono svegliata con degli insopportabili dolori al ventre, il respiro affannoso e la febbre. E anziché la fresca ombrosità delle acacie, quella mattina ho respirato l’aria condizionata del pronto soccorso. Non odorava di nettare, né di bosco. Le infermiere dicevano che la mia vescica era troppo piena per contenere altra urina: occorreva svuotarla in fretta. «Potrebbe essere un problema temporaneo…» ha azzardato il medico «facciamo un cateterismo veloce e ti mandiamo a casa!» Il giorno dopo, tuttavia, mi hanno inserito un catetere a permanenza.

Fattene una ragione, questo potrebbe essere il tuo futuro!” La dottoressa, una donna di mezza età con la grazia di un caterpillar, ha scaraventato un pesante punto esclamativo nella stanza e se ne è andata, mentre l’opulenta affermazione cercava, scricchiolando, un equilibrio tra il pavimento e la porta. Se ne è andata lasciandomi in lacrime e senza conforto. La questione che era stata messa a tacere da un perentorio segno di punteggiatura, continuava ad essere una faccenda di tubi che penetravano in profondità, intersecavano il corpo, aprivano e svuotavano. E restava anche una questione di emozioni che, seguendo lo stesso ciclo, penetravano, intersecavano, aprivano e svuotavano. Fica e cuore. Muscolo e cervello.  Quel carosello di mani e di guanti e di gambe aperte mi faceva sentire stuprata. Quel punto esclamativo, poi – un fallo, un’erezione – rafforzava l’idea dell’abuso.

Non lo volevo. Non lo volevo e non lo voglio. È cosa di vecchi, un laccio scorsoio, una sutura dal cuore alla fica. Odora di morte, di poltrone ingiallite di ospizio. Non è cosa di corpi infuocati dal sangue, né di menti incontenibili, abili nello spezzare ogni catena. Non è cosa di carni giovani più inclini alla voluttà che al sacrificio, né di spiriti indomiti, ostili alla rassegnazione. Non è cosa che si possa dimenticare con leggerezza…” ho scritto poco dopo il cambiamento avvenuto nella mia vita. Poiché il cambiamento aveva a che fare con qualcosa che veniva da dentro, come i sentimenti. Con la nostra matrice, l’elemento essenziale alla vita: l’acqua. Il fluido della metamorfosi. 

In quella situazione aggrovigliata di tubi e di emozioni, ho atteso che il tempo cambiasse anche me.

Stamattina è venuta l’infermiera. Viene una volta al mese per sostituire il catetere vescicale. Ha sfilato quello vecchio e introdotto quello nuovo mentre parlavamo del ritocco al naso. Subito dopo mi è salita la febbre. Può capitare. Talvolta basta una sola dose di antibiotico per ritornare a star bene. 

Il mio corpo è cambiato. Ora accetta l’oggetto estraneo che gli viene spinto a forza dentro e lo custodisce come un figlio. Sono cambiata anche io. Ora, quando guardo l’oggetto estraneo che mi entra dentro le viscere, mi pare di vedere un prolungamento del mio corpo. Un pezzo di me. E so che nonostante la febbre, le medicine, le precauzioni quotidiane e quelle più rigorose durante l’attività sessuale, lo posso dimenticare con una limpida e fluente leggerezza.