Il weekend – 28 novembre

Non comprendere i miei connazionali in questo periodo terribilmente costrittivo è impossibile. Non comprendere la frustrazione, il disagio, le difficoltà è ancor più impensabile, poiché so quanto una sola ora all’aria aperta valga più di una giornata di fronte a un pc a guardare una mostra virtuale. So quanto il tepore del sole che accarezza il volto — sebbene in questa stagione la stella che ci ha dato vita sia piuttosto vicina alla Terra ma il suo calore ci raggiunga debole e sfuggente per via della maggior inclinazione dei raggi solari — valga più di un’intera giornata sotto la luce di una lampada, a cercare conforto dall’oscurità prolungata.

Ma so anche che noi tutti stiamo attraversando un momento cruciale, un tempo in cui l’oggi può realmente cambiare il domani. Un momento in cui la precarietà (economica, culturale, esistenziale) non può addossare la colpa a un nemico immaginario (il 5G, un DPCM, un complotto internazionale…), non può e non deve rinnegare le precauzioni che oggi hanno il potere di ridarci quel domani fertile e ricco di opportunità che riteniamo perduto.

Prima del Covid uscivo tutti i weekend — nella bella stagione s’intende, perché a differenza di molti italiani ho vissuto numerosi e ben più restrittivi lockdown nel corso della mia vita — e ora che non posso farlo, spesso il sentore di animale in gabbia s’affaccia tra le sinapsi a pretendere attenzioni. Tuttavia, è il “qui e ora” che sento complice, a dispetto del nostalgico sguardo al passato. Quel “qui e ora” che può fare la differenza. Un semplice battito di ciglia che può far rifiorire una primavera senza costrizioni, libera e audace come l’amore in riva al mare in una notte rischiarata da una miriade di stelle.

Allora mi accingo a rendere fruttuoso questo istante, quello in cui mi ero persa a contemplare le nostre ali incenerite di piccole fenici non ancora risorte. E siccome una delle mie mete preferite in quei weekend senza censura sono sempre state i musei alla cui visita seguiva da manuale una merenda in una delle mie amate pasticcerie storiche torinesi e una notte a ritmo di swing in qualche locale per hipster amanti dei cocktail d’oltreoceano, oggi ho deciso di seguire la scia dei ricordi per ripetere, seppur tra le mura domestiche, quella routine metropolitana a cui mi auguro di far ritorno presto.

Iniziamo con la visita alla Sala di Saturno della Galleria degli Uffizi di Firenze, consapevole quindi che all’aperitivo che seguirà dovrò prediligere un Negroni al torinesissimo Punt e Mes…

Undici mesi – 23 novembre

Quest’anno sono scivolate via dalle mie mani tante persone. Sono sgusciate fuori dalla vita proprio come ci erano entrate, in un infinitesimo di secondo. Il primo e l’ultimo respiro si sono sfiorati un attimo prima di dissolversi nella materia oscura.
Una di esse, in particolare, mi sovviene di celebrare con ciò che — forse — so fare meglio di altro: la scrittura. Il solo mezzo capace di spingermi fuori dal corpo con la stessa intensità di un parto, fino a rendermi libera e leggera come l’aria di un aprile assolato. Lo voglio celebrare con le parole, quelle affilate e fredde come lame — ora non è tempo di lacrime, ma di desideri, carne, sangue, sesso, perché la morte sembri lontana. Ma lui era un uomo che al gelo dell’acciaio anteponeva il tepore del sole mattutino sui vetri di una finestra. Non era un uomo comune. Sapeva che un piccolo piacere capace di riscaldare le carni avrebbe disarmato una creatura bruciante di rabbia. Allora smusso il filo della lama, lo arrotondo come un’onda.
«Sei morto a inizio anno. Quando l’ho saputo sono uscita in strada e ho cercato il sole di gennaio che, troppo basso e gelido, fa bruciare gli occhi e non riscalda. Ho pensato che al fastidio delle palpebre serrate come scuri che riparano un nascondiglio dalla luce, poco a poco si stesse sovrapponendo fino a occultarlo il piacere dell’immaginazione. Così ad occhi chiusi ho sentito fremere di desiderio il corpo e la mente. Ho visto strade che invitano a percorrerle, sentieri dove forse riconoscerò le tue impronte e le seguirò; ho sentito il profumo del mare, l’alito salmastro che accompagna il beccheggio di un natante; ho visto i vicoli di un antico borgo e una stradina risalire la collina fino a un maniero. Ho visto una radura in cui correre a perdifiato finché l’idea del volo non prende forma, ho respirato l’odore dell’erba dopo la pioggia e sentito gli steli solleticarmi le palme dei piedi. Mi sono sentita felice. E amata. Ho riaperto gli occhi e rivolto lo sguardo verso l’ombra, lungo il muricciolo sotto la grande quercia. E finalmente, sono riuscita a dirti addio.»

Sullo sfondo, dipinto dell’amico Eugenio Guarini. A ricordo di un’amicizia senza tempo.

En e Xanax – 7 novembre

“En e Xanax non si conoscevano prima di un comune attacco di panico e subito
Filarono all’unisono
Lei la figlia di una americana trapiantata a Roma e lui
Un figlio di puttana…”

Devo ammettere che è realmente una prova difficilissima quella che siamo chiamati ad affrontare: una vita senza abbracci, incontri, mani nelle mani… Mi sono accorta che anche la mia misantropia ha un limite! Infatti non tollero più questa solitudine forzata, le distanze fisiche, i metri quadrati in cui mi sono reclusa per proteggermi (considerando che sono comunque stata esposta al rischio di ammalarmi visto che ho convissuto otto giorni con un’assistente positiva al COVID).
Cercare di sorridere è la sola arma che sento veramente in mio possesso. Anche un sorriso forzato, metà smorfia e metà sfregio, purché sia un sorriso.

Abelardo ed Eloisa – 10 ottobre

Quando la porta si apre, ad entrare è un vento freddo che giunge dal nord e porta fuliggine e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.

Non tocco un corpo da settimane. E non tocco una penna da un paio di giorni. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.

Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi devo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per non urlare. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.

«Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…» mi confida lui, esortato ad essere onesto.

Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.

«Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita» si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi. 

«È che vorrei che certe parole giungessero solo al loro destinatario…» replico con voce ferma mentre mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il tè verde e un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.

Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza: «Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle» mi soffermo sui suoi occhi che riverberano una tormentata attesa, quindi proseguo con l’intento di liberare con un fendente la sua coscienza dalle carni: «Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?»

Mi fissa.

Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.

Allungo lo sguardo oltre il vetro.  Appena poco più a lato della siepe un passero fruga nell’erba in cerca di cibo. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.

La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.

Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti fingerti coriacea!”

Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E allora gli rispondo con uno dei passi più suggestivi della mia adolescenza. Un passaggio dell’epistolario della badessa Eloisa e del filosofo e monaco benedettino Abelardo:

“Dio lo sa, in ogni momento della mia vita, temo ancora di offendere più te che Dio, desidero piacere più a te che a Lui. All’abito religioso mi ha tratto il tuo comando, non l’amore per Dio […] Nulla è, infatti, meno in nostro potere dell’animo e ad esso siamo costretti ad obbedire più di quanto non possiamo comandare. […] Ritrarrò pertanto la mano dallo scrivere, là dove non sono in grado di trattenere la lingua dalle parole. ”

La cena – 9 ottobre

Seduta allo scrittoio, alla fioca luce di una candela, mi soffermo sul contrasto tra la luce e il buio che la circonda. Mi rendo conto, allora, che ad attirare la mia attenzione è quel buio che non permette di distinguere le forme, l’oscurità in cui nascondere e nascondersi. La tenebra riverbera un significato ibrido, a metà tra l’oblio e il mistero.

La radio ripropone un vecchio pezzo blues e mi spinge con la repentinità di un salto quantico verso quel cosiddetto ieri ormai lasciato dietro, distanziato dal percorso lineare, irreversibile, del tempo.

8 ottobre 2019

Abbiamo finito di cenare, restano i piatti svuotati, la bottiglia di Nebbiolo quasi intatta e il tegame con gli avanzi ancora tiepidi. È calata la notte, un catafalco stellato rovesciato sulle case a dare l’addio al giorno.  Titillando una briciola di pane, mi sorprendo a lasciar uscire la voce, incapace di contenerla. Ed è una voce calda, sicura, che non teme ripensamenti: «Talvolta vorrei scomparire nell’oblio.»

I commensali sollevano lo sguardo e mi fissano le labbra quasi ad accertarsi che quella appena udita sia una voce scaturita dall’ugola e non un rumore imbarazzante di cloaca. Ma l’ugola si sa, è uno strumento demonico che dà voce alle viscere. Espelle parole con la stessa cadenza di un rigurgito, evacua pensieri con intenzioni di purga officinale. Non si soffermano sugli occhi, no. Fissano la bocca e immediatamente la citano in giudizio.

Massimo, il più ardito tra loro, accenna a chiedere: «Che stai dicendo?»

Silenzio. Diego cerca nel pavimento una crepa da cui fuggire.

Ora che le parole hanno attraversato il tavolo e si sono lasciate dietro i nostri respiri impastati di noce moscata e salvia, altre premono per uscire allo scoperto. Mi tremano le mani. La voce, no. La voce è ferma e dardeggia sul costato dei commensali, mira al cuore.

«Esistono due me.» Ingoio un sorso d’acqua, poi proseguo: «Una è quella dei pixel, dell’identità virtuale. È una “me” mutevole, un dagherrotipo travestito da avanguardia digitale. Nasce e muore dentro una fotografia. La sua fine non vi disturba…»

Incalzo: «L’altra invece è la “me” che avanza, sospinta, tra le sinapsi. È una realtà neurale. Vive nell’inconscio, ma abita la materia. È carne impastata nell’intelletto. L’idea che io possa lasciarla perire vi disorienta. Perché?» domando «Perché la prima può essere fatta a pezzi senza destare il minimo sussulto della coscienza, invece quest’ultima è intoccabile come un paria?»

Diego si porta una mano sulle labbra come a ricacciare in gola la voce. Ha lasciato dietro di sé le rivoluzioni, i tumulti, il rullo di tamburi che richiama alla rivolta. Lui ha scelto la quiete dei vigneti su in collina, la mezza misura che mette tutti d’accordo, rende complici e fratelli. Dissentire è già una ribellione. Perciò tace, mordendosi il labbro.

Li osservo. Massimo ha iniziato a scavare con il pensiero una tana nel pavimento.

«Se la mia libertà fosse misconosciuta, se venisse sfrondata anno dopo anno fino a ridurla a un lumicino e la mia Indipendenza si riducesse a un angolo di luce via via più stretto, vorrei mi fosse concessa almeno un’ultima scelta… »

Dopo un momento di silenzio è Niccolò — l’amico d’infanzia — a prendere la parola, colto da un’intuizione. L’alito febbricitante affatica le parole, le appesantisce: «In ogni caso, morire e amore in fondo si somigliano… ». Intuizione che fa eco alla palese assonanza tra i nomi e a quella più velata tra i significati. «Talvolta, lasciar morire è un gesto da innamorati» mi affretto a suggerire stringendo la mano di Massi nella mia. A sopravvivere stanotte è il mistero non della morte che in fondo è la nostra sola certezza, bensì di che cosa significhi – purgato di ogni maschera romantica e religiosa – l’amore.

Dietro il vetro della finestra il buio attende. Ma sopra il tavolo illuminato a giorno, non osa allungare nemmeno un’ombra.

Il lazzaretto – 7 ottobre

Cerco di buttare giù una bozza della relazione da inviare ai Servizi Socio-Assistenziali per chiedere di rivalutare il mio progetto di Vita Indipendente e mentre mi arrovello su leggi, norme e temi etici dall’aspetto di statue rinascimentali, inavvicinabili e austere, mi imbatto nel Secondo Piano biennale di Azione per la Vita Indipendente. Lo annuso, ci spingo gli occhi dentro, parola dopo parola. Lo mastico assaporandone il retrogusto d’idillio e di favola d’altri tempi. È perfetto! Nulla che svii il lettore da quel concetto semplice eppure da tutti sottovalutato che è l’indipendenza. Leggo e mi vengono le lacrime agli occhi perché se questo piano venisse concretizzato io sarei libera. Libera. Vi suona familiare questo termine?

Libera, non come mi vuole la Costituzione italiana che all’Art. 13 sancisce l’inviolabilità della libertà umana ma che all’Art. 30 stabilisce anche il dovere dei genitori di mantenere i figli, dovere poi trasfigurato dalla decisione della Cassazione di disporre che in presenza di disabilità i genitori DEVONO farsi carico delle esigenze del figlio maggiorenne in quell’ottica di solidarietà che ispira gli obblighi familiari disposti dal nostro ordinamento. Via via che le parole s’affastellano pronte ad essere incendiate dentro un calderone, mi ritrovo a constatare che nessuna libertà mi attende. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti quei principi costituzionali che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini? Sogno l’indipendenza ma vivo in un paese che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, e nel quale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Sogno la libertà ma devo accontentarmi di un’assistenza parziale e lacunosa; devo accettare di rinunciare a “vivere” per fare stancanti colloqui con aspiranti assistenti che all’ultimo mi diranno che non se la sentono; devo rinunciare alla serenità per rivendicare il mio diritto alla libertà.

Sogno la libertà ma con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche il legislatore mi ha rispedita nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi (crippled, pardon) era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

Perché al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Norme e leggi scorrono sotto i miei occhi producendo lo stesso attrito di una striscia di carta abrasiva sulla pelle e mi riportano nel rinascimento, dove Gregorio Magno s’affretta a segregarmi in appositi lazzaretti sociali (che oggi si chiamerebbero Rsa) con la speranza che Peste (oggi Covid19) mi colga e ponga fine alle mie meritate sofferenze terrene.

Un autunno magenta – 3 ottobre

No, non mi sono ancora abituata all’autunno! Ad ogni pagliuzza di sole che sbuca dalla coltre bigia del cielo io inizio ad avvertire un formicolio dietro gli occhi, giù nella corteccia cerebrale, fin dentro gli impulsi elettrici delle terminazioni nervose. Voglio uscire! Una manciata di minuti, un quarto d’ora, un pomeriggio intero…

L’eco di morte che nell’ultima settimana ha accompagnato ogni mio spostamento— mentre attraversavo il corridoio per entrare in salotto, nel bel mezzo della cena, nell’istante in cui il timer dello spazzolino elettrico indicava che erano trascorsi i due minuti della pulizia orale — si mette in disparte: all’ombra subentra la luce accecante di una stella che arde, incandescente, come il metallo dentro una fucina. Una luce capace di generare la vita. Allora, il mio umore color piombo si colora di magenta, ravvivando la pelle e lo sguardo.

«Se potessi scegliere in che modo morire, vorrei farlo sotto il sole tiepido di settembre… » confido alla mia silenziosa amica.

Penso, abbassando lo sguardo sul maglione traforato e vivido come il mio sentire, che quel giorno mi piacerebbe indossare un abito dal colore intenso, vivace, allegro come il mio essere più profondo. E intanto mi sale in gola un amore sconfinato per la vita, per questa fulgida esistenza color magenta, per questo cammino che non può e non deve mai anteporre la scelta di vivere a quella di morire, legittimando la prima e ripudiando la seconda. Avverto tra le corde vocali e le mucose umide della laringe un amore incontenibile per la libertà, un diritto che ogni essere umano non deve mai dare per scontato, né credere di aver mai realmente raggiunto.

Vestita di magenta — colore che nasce dalla mescolanza tra il rosso e il blu — non ho più dubbi.

C’è una parte di me in cui regna la dittatura del sangue, una parte che pulsa in sincrono al cuore, che nutre le carni, le infiamma. É la parte rossa che guarda al domani con entusiasmo, che scrive per aver sentito le parole vibrare sotto il costato. Quella che di fronte a una finestra sente l’esigenza di spiccare il volo, lanciarsi verso l’orizzonte per un perentorio desiderio di libertà.

Poi c’è l’altra, quella blu, quella che deve contenere l’enorme pressione di questo flusso continuo e irrefrenabile. È la parte a cui tocca il difficile compito di rallentare la corrente, arginare le dirompenti emozioni. Per tentare di dare il giusto equilibrio a quell’impetuoso sentire in cui ogni slancio emotivo è un salto nel vuoto, un volo in picchiata.

Il magenta non si trova all’interno dello spettro del visibile. Non lo troverete mai tra i colori di un arcobaleno. Eppure proprio come la mia percezione della vita — arbitraria ed empirica — il magenta nasce da un’intima interpretazione visiva della luce. È fuoco e acqua. Come me.

E anela alla vita, dando alla morte il giusto grado di vividezza e di luce, l’equilibrio perfetto tra un colore caldo e uno freddo.

Indipendenza – 27 settembre

Da ieri (e fino a oggi pomeriggio) ho vissuto una delle esperienze più brutte della mia vita. Ho temuto per la salute di mio padre. Il pericolo non è del tutto rientrato, ma spero mi darà il tempo di organizzarmi per trovare una totale indipendenza e permettere a papi di affrontare serenamente l’intervento chirurgico in programma.

In queste ore di pianti senza ritegno ho pensato spesso alle parole di stimati caregiver — Sara Bonanno, ad esempio — e il loro eco nella mente mi ha fatto comprendere quanto io non sia mai riuscita a vivere una vita indipendente completa e soddisfacente. Ho spesso sentito dire che nel nostro paese ai caregiver familiari non è permesso ammalarsi… Vero. Mio padre è colui che non mi ha mai negato il suo aiuto nemmeno se in preda a un bruttissimo attacco di lombo-sciatalgia o a una recidiva di ernia inguinale. È colui che quando mi regge tra le braccia trattiene i gemiti di dolore pur di non farmi cadere e sedermi comoda sulla carrozzina. Non esistono ferie per i caregiver familiari. Mio padre sostituisce le mie assistenti quando sono in malattia, in vacanza, a riposo. Le sostituisce perché spesso non si riescono a trovare altri assistenti disposti ad una repentina sostituzione.

Ho riflettuto molto su questo. E sono giunta alla conclusione che le difficoltà riscontrate nel trovare assistenti personali abbia creato un cordone ombelicale tra me e papà, alla stregua di quello che a suo tempo mi ha tenuta legata a mia madre nel tepore del suo grembo.

Papi è l’uomo più importante della mia vita. Il mio faro, la luce in fondo al tunnel. Papi ha dormito diversi mesi su una poltrona durante i miei ricoveri in ospedale, mi ha alzata e coricata innumerevoli volte in un giorno ogni volta che a causa di un’infezione respiratoria non potevo stare troppo tempo seduta perché da seduta io non riesco a tossire. Ma papi è anche un eclettico, un creativo, un saggio, un fantasioso e delicato umorista. Non prende mai la vita troppo sul serio – quando ero bambina ogni mattina mi svegliava con una canzone e se trovava delle briciole sul mio letto di solito mi chiedeva: “Sei andata in cucina stanotte a prepararti un panino?” Naturalmente io non ho mai camminato… Un giorno, qualche tempo fa, gli ho chiesto di tosare il prato e lui ha chiosato: «Per caso inciampi con le ruote nell’erba?» Papi è il mio papi. Mio. Ma devo imparare a essere più indipendente.

Ps. Per fortuna, c’è chi non è geloso… 😁

Marinai – 25 settembre

Piove da questa mattina, il paesaggio oltre il vetro ha le stesse sfumature bigie del cielo. Nessun rumore oltre allo stillicidio sulle finestre. La sensazione di essere precipitata nell’autunno fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, lascia spazio a una quiete confortante che non è mestizia bensì pacatezza, soavità.

Getto il telefono sul tavolo e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. Sopra la credenza indiana una manciata di rose ha trovato riparo dal freddo del giardino dentro un vaso di ceramica grigio antracite. Ne afferro una: voglio scattare una fotografia per ricordare questa giornata che non assomiglia a nessuna di quelle di cui ho memoria. Una giornata di fine settembre, cupa oltre le mura domestiche, ma serena e limpida come una mattina d’estate dentro il petto.

In un attimo non indosso più i miei panni e nell’affresco pompeiano di fronte a me si materializza il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.

«Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi… » riecheggia nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo di agosto, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere sollevata — corpo e spirito — dalle mani altrui. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni ricerca assistenziale, intima o spirituale.

Quel: «Ti porterò in mare!» aveva la stessa intensità di un giuramento e blandiva il mio desiderio di ricominciare tutto da zero. Risuonava come l’annuncio della mia imminente venuta al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così avevo iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che regge il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…

«Ti porterò al largo!» aveva promesso: «Sto pensando a come prenderti.»

In quel momento, tuttavia, a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal grembo fino alla gola, un’angoscia soffocante che richiamava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale promessa non fosse stata altro che superficialità? Un modo ingenuo per nuotare a pelo d’acqua dentro una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto senza alcuno sforzo? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, infatti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un tuffo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati. Così ha fatto lui.

Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima. Un marinaio deve salpare, lasciarsi alle spalle qualcosa e qualcuno.

Il punto è che stamattina, sotto lo scroscio della pioggia, non provo alcuna tristezza. Questa volta affronto il volto apolide del mare aperto a cuor leggero, con una serenità che mi giunge dal ventre, calda e vellutata. Perché stamattina sento che in questo viaggio il vento sarà la mia altalena, la forza che sospinge il mio corpo e innalza il mio spirito, mani capaci di sollevarmi ben più in alto di ciò che farebbero le braccia altrui.

L’abisso – 21 settembre

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – importantissimi ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Tutti muoviamo i nostri passi nel crepuscolo.

«Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte» confida con un fremito nella voce.

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri. 

«Lo avevo intuito» 

Mentre il tè nelle tazze raffredda, lui pone le mani congiunte sulle ginocchia: «Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…»

«E invece s’è fatto incendio sotto la cenere.» mi affretto a suggerire. «Abisso» bisbiglio, frattanto nella mente si apre un varco l’omonima scultura del Canonica.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

«Leggevamo insieme» riprende, quasi che nel filo del discorso possa ritrovare una florida continuità con ciò che non c’è più « ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.»

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti avviluppandoci come placenta.

«Mi fa strano» provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento «che qualcuno ancora associ l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.»

Ascolta senza batter ciglio. Allora proseguo: «Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti… » Bevo un sorso di tè nero e poi provo a spiegare: «Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci».

L’abisso, Pietro Canonica

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

«E poi son convinta che il tempo non sia più a mio favore, nonostante mi senta più viva oggi di ieri. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze…» bevo, poi incalzo «L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero altrove, su qualcosa che mi facesse sentire viva, su un amplesso.»

Mi fermo per guardarne il volto e capire fin dove posso spingermi. Respiriamo la stessa aria in questa stanza che odora di foglie di tè e di focolare. Siamo così vicini da sentirci finalmente affiorare dall’ombra. E accettarci per ciò che siamo: visibili.

«Dovevo sentirmi viva, capisci? Più viva del solito, più carne e più spirito, più viscere e umori, più… »

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.