Marasche – 17 giugno 2021

Da ottobre dello scorso anno un lento ma continuo cambiamento ha trasformato completamente la persona che ero. L’ha maturata come il sole di giugno matura una marasca. Da tempo ero pronta a misconoscere il ramo, congedarmene, ma indugiavo fingendo di essere ancora acerba e allappante. Poiché la mano che raccoglie il frutto non sempre è riconoscente.
Tuttavia, biologicamente il mio destino era segnato: dovevo abbandonarmi alla raccolta.
E così mi sono lasciata andare, senza timore. Allora ho compreso che la mia nudità emotiva appagava la mia identità di frutto: potevo starmene nuda di fronte a occhi sconosciuti. Dall’interno della mia polpa scura, amarognola e compatta — il cui destino non la porterà mai ad allietare palati incastonata in un reticolo di pasta frolla, sopra uno strato di confettura, bensì ad essere separata dal nocciolo che verrà pestato e macerato dentro un vaso di vetro con alcol a 90° — oggi mi sento emotivamente leggera, impudìca.

Per anni ho temuto le “prime volte”, il primo giorno di formazione delle candidate al ruolo di assistente. Quel primo mostrarmi che era ben più di un semplice svestirmi. Oggi l’ho fatto senza paura, consapevolmente agile e spensierata. E finalmente mi sono accorta che questa non è stata una “prima volta”.

Solo di passaggio.

Eccomi: non amo più il frastuono della movida; a un locale con musica assordante preferisco il frinire dei grilli in un prato deserto. Ieri, seduta in riva al lago, ho avvertito il cambiamento che — silenzioso — è avvenuto negli ultimi due anni. Adesso sono ufficialmente una da lounge bar, da intime serate jazz nella penombra di uno scantinato; sono una di passaggio sul lungolago che si ferma ad ascoltare un blues improvvisato, una a cui piace alzare lo sguardo verso le stelle in una radura lontano dalla civiltà o passeggiare nella mia Torino quando la maggior parte delle persone dorme.
Ma c’è da dire che, forse, il cambiamento è avvenuto ben prima del tempo di cui ho memoria. In silenzio, come un respiro quieto avvolto dal sonno.

La chimera – 3 giugno 2021

Il mio “coming out” sull’utilizzo del catetere vescicale. Fino ad allora il mio nuovo corpo (sì, perché la convivenza con un dispositivo inserito nel proprio corpo rende quest’ultimo diverso, nuovo…) mi faceva sentire drammaticamente fuori dagli standard, inaccettabile.

Poi, la consapevolezza — raggiunta in un torrido giorno d’estate — di essermi perfettamente integrata: pelle e lattice, vescica e tubo. Da quel momento ho cominciato a vedermi per ciò che sono: una creatura plasmata nella carne e nella materia inorganica, una chimera senza confini di genere, né di pensiero.

Passaggio in ombra – 2 giugno 2021

Apro gli occhi sul soffitto bianco, cerco – annebbiata dal sonno che tarda a dissolversi – la macchia scura che ho eletto stella polare, poi mi riaddormento per una manciata di minuti. Al risveglio, lo sguardo è già orientato a nord, e in una frazione di secondo mette a fuoco la mia guida celeste, quella sbavatura screziata che è lì da quando Katarzyna ha messo a tacere una fastidiosa zanzara spalmandola sul soffitto con un lancio calibrato di ciabatta.

Non ho voglia di alzarmi. Gli arti, zavorrati da una mestizia implacabile, schiacciano il materasso. Tuttavia, il peso del corpo è un’inezia in confronto a quello della mente. Già, perché ci sono giorni come questo in cui pare, per una alquanto distorta legge del trapasso, che i resti scomposti della zanzara abbiano designato le mie membra spiaccicate sul letto quale punto di riferimento di quel microcosmo che è la stanza.

“Mamma…” mi sfugge di bocca, quasi un richiamo ancestrale all’abbraccio dell’utero che protegge e ristora. 

Chiudo gli occhi. È l’estate del millenovecentonovantotto. Gli amici del mare sono ripartiti, dopo il fine settimana trascorso in Canavese. Io me ne sto seduta in mezzo al prato, in un angolo riparato dalla siepe d’alloro e da un filare di camelie.Reggo tra le mani due libri, “L’amore ai tempi del colera” di Garcia Marquez, e “Passaggio in ombra” di Mariateresa Di Lascia. Quest’ultimo ho appena finito di leggerlo e sogno di fuggire con la stessa disperazione, la stessa sete d’amore della protagonista. Sogno di farlo a piedi nudi – forse per il rimando dell’erba tiepida che li solletica e ne fa arricciare le dita quando dondolo le gambe – e immagino di lasciarmi alle spalle tutta la mia vita sbilenca, mutilata e rattoppata. Ho da poco compiuto vent’anni e sono certa di non arrivare ai trenta. Se mi dicessero che non solo ci arriverò, ma li supererò abbondantemente, non ci crederei. Da appena un anno ho scoperto che cosa significhi “realmente” vivere con la SMA. E siccome la mente è troppo lucida per il dolore che gli si chiede di sopportare, ho pregato di morire. Non che lo voglia davvero, no. Quando gli steli d’erba stuzzicano i piedi scalzi posso perfino far orecchie da mercante all’eco di morte che porto in grembo.