14 agosto 2021

Questa estate ha il sapore della resina succhiata dagli aghi dei pini, all’ombra dei nocciòli. Odora di gelsomino e di bardana cresciuta spontanea sul muricciolo di pietra, lungo la strada che sale la collina.
Questa estate ha le sembianze della roccia sbozzata per liberare la bellezza dalla materia, odora di polveri di gipsoteca.
È tempo di rinascite, di letti di sarmento su cui addormentarsi al tramonto e risvegliarsi all’avvampare dei falò, sotto una luna aguzza, metà satellite e metà falce, metà voyeur pallido e innocente e metà lama sporca di sterpi e di sangue.
Si avverte che nelle parole c’è qualcosa di impudico. Più che nei gesti.
«Perché della ragazzina timida e vulnerabile che ero un tempo non è rimasto che un guscio vuoto di noce?» Le esperienze vissute — mi dico — han segnato la mia crescita, quel passaggio da seme acerbo a gheriglio carnoso dal sapore lievemente amarognolo, di corteccia e di midolla.

Il cielo, che si è fatto cupo come l’iride, ha aizzato la bestia. Le ha fatto conoscere l’odore del sangue e la tenerezza delle carni. La bambina, con la temerarietà degli innocenti, ha avvicinato l’animale e si è lasciata azzannare per mischiare il proprio sangue al suo e divenire una sola carne.

Si è vulnerabili finché la vita te lo concede, finché la vulnerabilità non diventa una caratteristica venefica, una cellula mutata che aggredisce le cellule sane di un corpo. Un cancro. Allora, devi cercare di estirparla, strapparne le radici con mani rapaci, aggressive come artigli, grosse come sarchiatori.
«E che resta della persona dopo questo barbaro atto di ripulitura?»
Resta la carne. Quella sopravvissuta, indurita dal tempo e scurita dal sole. Quella che dà vita al pensiero nel labirinto cerebrale, quella dei circuiti riverberanti. Quella che cerca linfa dal terreno dissodato e nuovamente fertile.

Eppure la percezione della mia identità sconfina dalla materia, disattende la normalità biologica. Appartenere a un genere — tanto tra le strette vie di un piccolo borgo, quanto dentro il perimetro di una cellula — risuona come una castrazione: individuo, specie, genere, regno. Dalle alte mura di questo hortus conclusus non si esce.

Mi guardo — in verità, lo faccio con la mente anziché con gli occhi — e vedo materia organica e materiale sintetico fondersi perfettamente. Non vi è una separazione netta tra le due parti, l’una abbraccia l’altra in un graduale mutare d’identità. Il mio viso è una struttura coriacea di ossa rinchiusa entro un involucro di pelle e silicone: non è più una maschera ciò che spinge l’aria fino ai polmoni attraverso il naso. È diventata un tutt’uno con esso.
La mia schiena è un’impalcatura di vertebre sostenuta da lunghe barre di metallo che dal collo, in un declino verticale fino al bacino, si fondono alle ossa. Acciaio, fibre nervose, cartilagini.
La mia vescica accoglie un palloncino di lattice da cui diparte un tubicino che nel suo percorso esce dal corpo e va a congiungersi a un surrogato artificiale di vescica. Acqua, mucose, plastica.
Posso dire di appartenere solo al genere umano?
Sono una chimera, una creatura in parte animale e in parte minerale.
La mia natura è spuria. Contaminata. Eppure i vari pezzi formano un’unità solida, integra. La mia natura scivola impudente tra i regni dei viventi e della materia inorganica. Non può essere classificata.

Per convenzione diremo che sono una donna, ma nell’intimo di ognuno di noi sappiamo che non è del tutto vero.

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