Undici mesi – 23 novembre

Quest’anno sono scivolate via dalle mie mani tante persone. Sono sgusciate fuori dalla vita proprio come ci erano entrate, in un infinitesimo di secondo. Il primo e l’ultimo respiro si sono sfiorati un attimo prima di dissolversi nella materia oscura.
Una di esse, in particolare, mi sovviene di celebrare con ciò che — forse — so fare meglio di altro: la scrittura. Il solo mezzo capace di spingermi fuori dal corpo con la stessa intensità di un parto, fino a rendermi libera e leggera come l’aria di un aprile assolato. Lo voglio celebrare con le parole, quelle affilate e fredde come lame — ora non è tempo di lacrime, ma di desideri, carne, sangue, sesso, perché la morte sembri lontana. Ma lui era un uomo che al gelo dell’acciaio anteponeva il tepore del sole mattutino sui vetri di una finestra. Non era un uomo comune. Sapeva che un piccolo piacere capace di riscaldare le carni avrebbe disarmato una creatura bruciante di rabbia. Allora smusso il filo della lama, lo arrotondo come un’onda.
«Sei morto a inizio anno. Quando l’ho saputo sono uscita in strada e ho cercato il sole di gennaio che, troppo basso e gelido, fa bruciare gli occhi e non riscalda. Ho pensato che al fastidio delle palpebre serrate come scuri che riparano un nascondiglio dalla luce, poco a poco si stesse sovrapponendo fino a occultarlo il piacere dell’immaginazione. Così ad occhi chiusi ho sentito fremere di desiderio il corpo e la mente. Ho visto strade che invitano a percorrerle, sentieri dove forse riconoscerò le tue impronte e le seguirò; ho sentito il profumo del mare, l’alito salmastro che accompagna il beccheggio di un natante; ho visto i vicoli di un antico borgo e una stradina risalire la collina fino a un maniero. Ho visto una radura in cui correre a perdifiato finché l’idea del volo non prende forma, ho respirato l’odore dell’erba dopo la pioggia e sentito gli steli solleticarmi le palme dei piedi. Mi sono sentita felice. E amata. Ho riaperto gli occhi e rivolto lo sguardo verso l’ombra, lungo il muricciolo sotto la grande quercia. E finalmente, sono riuscita a dirti addio.»

Sullo sfondo, dipinto dell’amico Eugenio Guarini. A ricordo di un’amicizia senza tempo.

Harley Quinn e Joker – 27 settembre

Un weekend insolito, difficile, a tratti insopportabile. Paura, angoscia, rabbia. Oggi un sole caldo riscalda la pietra del pavimento sotto il gazebo e la siepe erubescente del vicino che offre riparo al gatto dal lungo pelo fulvo sotto il suo tetto di foglie.

Lo spirito rinvigorito risucchia quel calore come per osmosi: molecole in movimento per effetto dell’agitazione termica filtrano dall’aria tiepida all’anima. L’anima, qui intesa come psychè che, come la letteratura omerica tramanda, è un elemento freddo pronto ad abbandonare il corpo quando esso muore.

Il sole, tuttavia, oggi ha riportato vita nell’anima gelida che attendeva, muta, sotto l’epidermide, il momento di sfuggire alla carne. Libera finalmente. E con il sole sono giunti i baci, i respiri all’unisono — anemos, per restare in tema classico — la leggerezza dello schernirsi come bambini, quel prendersi in giro frizzante e perfido al contempo…

Papà sta meglio e la nostra anima rifiorita è nuovamente giocosa, vivace, impertinente. Vuole pungolare, rincorrere, ridere di gusto.

«Tu sei la mia Harley Quinn!» dichiara lui festoso.

Mi è stato accanto in questi giorni cupi, tenendomi per mano anche nel sonno. Il minimo che io possa fare è augurare cento giorni come questo al mio amato Joker, folle, imprevedibile e affine stronzetto.

Marinai – 25 settembre

Piove da questa mattina, il paesaggio oltre il vetro ha le stesse sfumature bigie del cielo. Nessun rumore oltre allo stillicidio sulle finestre. La sensazione di essere precipitata nell’autunno fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, lascia spazio a una quiete confortante che non è mestizia bensì pacatezza, soavità.

Getto il telefono sul tavolo e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. Sopra la credenza indiana una manciata di rose ha trovato riparo dal freddo del giardino dentro un vaso di ceramica grigio antracite. Ne afferro una: voglio scattare una fotografia per ricordare questa giornata che non assomiglia a nessuna di quelle di cui ho memoria. Una giornata di fine settembre, cupa oltre le mura domestiche, ma serena e limpida come una mattina d’estate dentro il petto.

In un attimo non indosso più i miei panni e nell’affresco pompeiano di fronte a me si materializza il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.

«Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi… » riecheggia nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo di agosto, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere sollevata — corpo e spirito — dalle mani altrui. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni ricerca assistenziale, intima o spirituale.

Quel: «Ti porterò in mare!» aveva la stessa intensità di un giuramento e blandiva il mio desiderio di ricominciare tutto da zero. Risuonava come l’annuncio della mia imminente venuta al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così avevo iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che regge il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…

«Ti porterò al largo!» aveva promesso: «Sto pensando a come prenderti.»

In quel momento, tuttavia, a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal grembo fino alla gola, un’angoscia soffocante che richiamava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale promessa non fosse stata altro che superficialità? Un modo ingenuo per nuotare a pelo d’acqua dentro una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto senza alcuno sforzo? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, infatti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un tuffo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati. Così ha fatto lui.

Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima. Un marinaio deve salpare, lasciarsi alle spalle qualcosa e qualcuno.

Il punto è che stamattina, sotto lo scroscio della pioggia, non provo alcuna tristezza. Questa volta affronto il volto apolide del mare aperto a cuor leggero, con una serenità che mi giunge dal ventre, calda e vellutata. Perché stamattina sento che in questo viaggio il vento sarà la mia altalena, la forza che sospinge il mio corpo e innalza il mio spirito, mani capaci di sollevarmi ben più in alto di ciò che farebbero le braccia altrui.

Harley Quinn – 13 settembre

Ho raccontato della mente molotov e del sotterraneo ribollire di emozioni che fanno eco a un principio di vita vivido e incandescente come magma.

Ma ho tralasciato di dirvi della leggerezza capace di liberarmi dal piombo che certi giorni pesa sulla mia testa, costringendola a chinarsi. Il piombo è il metallo degli alchimisti: può essere tramutato in oro. Chi conosce la mia Torino sa di quale processo sto parlando. L’oro di Torino è un pigmento, una sfumatura, uno stato d’animo. Un tramonto. Tuttavia, ci vogliono occhi capaci di vederlo. Occhi che non si soffermano al passato regale della mia città, né agli arredamenti degli antichi palazzi o all’austerità scintillante dei caffè storici, bensì pupille che sprofondano nel bronzo del crepuscolo o nel riverbero aureo sulla superficie quieta del Po.


Nei miei geni sopravvive un principio alchemico simile. Una sorta di serena sventatezza cresciuta con me, anno dopo anno. Prima era l’innocenza creativa di bambina, poi l’indole sognatrice di adolescente, infine si è fatta imprudenza vellutata di adulta. Temerarietà, forse. Insensatezza. La capacità di liberarmi dal peso che certi giorni piega le ossa e schiaccia il pensiero sul pavimento. Leggerezza, appunto.

Il sapore dell’anice – 5 settembre

Ieri a svegliarmi è stato un incontenibile entusiasmo, un pulsare sordo e incalzante sotto il costato. Mai aprire gli occhi sul soffitto bianco della camera è stato tanto immediato. Ho guardato la finestra. Entrava una luce intensa attraverso le persiane: non avrebbe piovuto. Da quando il clima ha finito per condizionarmi l’umore, confido spesso in una tacita complicità meteorologica. Eppure amo la pioggia. Il ticchettio delle gocce sui vetri dell’auto, lo scroscio dentro la grondaia, lungo la catena di ferro arrugginito che scende tintinnante nel pozzo, e poi l’odore dell’erba fradicia, le pozzanghere in cui saltarci dentro, gli acquitrini su cui beccheggiano foglie e petali strappati al vento. Quell’odore di acqua e d’infanzia, reminiscenza di antri acquosi e muschiati, di abisso e di alghe, è un forte richiamo alla primordiale umidità uterina, quel lento sciabordare di liquidi contro tessuti, dove si accresce il frutto di ancestrali semi: lo schiudersi della notte arcaica. In un balzo temporale millenario, tra viluppi di viscere e filamenti mucillaginosi, restare in silenzio con la fronte contro il vetro a osservare la pioggia è come spingere lo sguardo dentro la genesi della materia dalla materia senza comprenderne appieno le dinamiche sottese.  

Più che scrutarla, tuttavia, la pioggia adoro respirarla. Odorarne il timbro terroso e pungente che segue al temporale, l’afrore di stanze rimaste chiuse per anni. Ricorda i viluppi dell’amore carnale. Il sentore di palustre, di primitivo, di batterico. Legame con la propria nascita, il cordone con cui la Madre tieni avvinto a sé ogni figlio. Eternamente. 

Eppure ieri la pioggia non l’avrei gradita. Speravo in una giornata assolata, da trascorrere fuori: l’atmosfera ideale per una merenda seduti sotto il patio in giardino. Non ci sarebbe stato alcun imprevisto a sconvolgere i miei piani. Ne ero certa. L’aria fresca del mattino, rapidamente entrata dalle finestre spalancate, si è diffusa nella stanza. Le lenzuola rinfrescate facevano raggricciare le dita tra le lenzuola. Allora, indolente ho afferrato il cuscino poiché la sensazione di soffice sotto i palmi mi è sempre parsa il metodo migliore per iniziare la giornata.

Lui dorme fino a tardi, sicché a me resta il tempo di passeggiare nel quartiere con la gatta che mi segue curiosa, e intrattenermi in lunghe telefonate che possono concludersi in modi imprevedibili. Quando si sveglia di solito è ora di pranzo. Perciò non ci è voluto tanto affinché la giornata declinasse verso il tardo pomeriggio. L’ora più attesa. 

«Mi hai promesso una partita a scacchi!» Lui non si è fatto pregare. Accanto alla scacchiera, un vassoio di paste e tre tazze di tè nero. La varietà di dolciumi invitava gli olfatti più sensibili a riconoscere l’aroma della pasta di mandorle, dei pistacchi, del cacao e delle innumerevoli creme, vaniglia o gianduia, catalana o chantilly . 

«Io e Clara ti sfidiamo: due contro uno!» So di essere una schiappa a scacchi, perciò ho giocato la subdola carta dell’alleanza femminile per non finire sotto scacco matto alla prima mossa.

«Vuol dire che vincerò più lentamente…» ha replicato lui con un sorriso sornione. Una tale esternazione aveva il sapore dell’anice. Il pensiero è volato, in quell’istante, al mese appena trascorso e all’intimità dei rapporti umani: ero certa che se avessi potuto avvicinarmi all’agosto ormai andato fino ad avere il suo respiro sulle labbra avrei sentito l’odore intenso, dissacrante dell’anice stellato. Ho avvertito il tipico retrogusto dolciastro che evocava visioni di scrigni chiusi da tempo immemore e di parole che anche se taciute non perdono l’aroma fragrante e vivido con cui le ricordiamo, giorno dopo giorno.

Il nòcciolo del sole – 3 settembre

L’arrivo dell’autunno a queste latitudini giunge in anticipo. L’aria si fa frizzante, sferza la pelle nuda, fa desiderare il sole.

Eppure è appena iniziato settembre, le scuole sono ancora chiuse — in quest’anno di incertezze politiche e di misure sanitarie estreme pare quasi una leggerezza che lo restino solo fino a metà mese. Le finestre durante il giorno rimangono ancora spalancate. Tuttavia, un sentore di cambiamento striscia in mezzo all’erba alta con furtività di rettile. È un continuo frusciare di squame contro gli steli; sul terriccio umido s’intravedono impronte di serpe e un linguaggio primitivo sfiora l’orecchio, sibila il proprio Sapere con piglio di saggio ma acredine di vipera: «La bella stagione sta morendo…».

Subito il pensiero cade, pesante come piombo, sul significato che questo ha per me. Vivere con una grave insufficienza respiratoria porta inevitabilmente ad attribuire al finire dell’estate un significato più esteso, sebbene non necessariamente più pregnante di quello attribuito da altri.

È giunto il momento, infatti, di congedarsi dagli abiti leggeri, indossandoli un’ultima volta per salutarli come in un rito in cui chiudere simbolicamente un cerchio.

È tempo di riscoprire il piacere di una tazza di tè fumante tra le mani e di quei piccoli sorsi che arroventano il palato e conducono il nòcciolo solare fin dentro le viscere. Così il fuoco può tornare a esercitare il proprio dominio sulla stagione che va raffreddandosi. Nella tazza con l’infuso ambrato è contenuta tutta la potenza primigenia della nostra galassia.

Arriveranno mesi bui, giornate corte come i titoli di coda delle reti televisive pubbliche. Arriveranno le notti compresse dentro stanze troppo strette, i volti di galaverna appiccicati al vetro per potersi sciogliere al sole. E forse arriveranno le febbri e i respiri affannosi.

Arriveranno, è più che probabile. Ma ora sto reggendo il nucleo del sole tra le mani e sento di poter far fiorire i ciliegi a settembre e far ricominciare l’estate un attimo dopo.

Ora mi tengo stretto quel presente che troppe volte ho sottovalutato e guardo al futuro con gli occhi di chi sta bevendo il sole, sorso dopo sorso.

Metamorfosi – 25 agosto

Non sono nata nel capoluogo, ci sono andata ad abitare soltanto per essere più comoda ai servizi e per poter usufruire, con più facilità, dei mezzi di trasporto pubblico. Sono nata in un piccolo borgo dell’entroterra canavesano fondato sulla pianura alluvionale dell’Orco. Ho vissuto lì le stagioni della mia infanzia, in quel paese di anime ammonticchiate su uno slargo di terra battuta punteggiato di noccioli e di ciliegi. Un fazzoletto di mondo consacrato al culto cristiano ma profumato di paganesimo, quel paganesimo in odore di eresia che la dottrina cristiana delle origini aveva a malapena ispirato nell’impossibilità di sradicarlo. Il ventre del paese era un susseguirsi di resti medioevali e di umili costruzioni perlopiù ad uso agricolo il cui orizzonte era un conficcarsi tagliente di piani nel verticale della vicina catena montuosa: perpendicolarità che subornava la gelida e ieratica serietà geometrica con velati e allusivi incastri carnali. Negli stretti vicoli si respirava l’odore acre dei cortili, laddove qualche gallina chiocciava nel fienile mentre qualche altra ruzzolava tra i pagliericci e la legnaia, e dai portoni chiusi, insieme all’afrore dell’aia e delle stalle, effondeva un senso di penombra e di colori scuri, blu e grigi, forse anche di viola mischiato al nero. C’era, dalla piazza alle viuzze e finanche ai sentieri tra i campi, un vociare di vecchi e di bambini, un trambusto di mercanti e artigiani che collimava con il frastuono dei macchinari agricoli e lo scampanellio delle biciclette e degli usci dei negozi.

Ovunque si udiva un suono, un verso, una voce, fino all’ora del tramonto quando il sole si spegneva dietro la dorsale alpina e il cielo infuocato metteva a tacere l’animazione chiassosa del paese in un grugare di piccioni che risaliva fino alla cella campanaria del Torrione. Lì i colombi avrebbero atteso l’alba e i rintocchi che annunciavano la prima messa della giornata. Poiché il paese non si era mai affrancato dal terrore del flagello divino che scongiurava con la devozione, non aveva mai abbandonato quel sentimento di paura irrazionale e cieca. Aveva tentato, invece, di arruffianarselo con offerte spirituali e materiali. Di più, naturalmente, con queste ultime. Sicché in paese vi erano cinque chiese, tre cappelle e un numero imprecisato di piloni votivi. Sulla piazza principale troneggiava una chiesa, simbolo del passato storico del paese. In quella chiesa ero stata battezzata, purificata con le fumigazioni dell’incenso, intrattenuta dal baluginio delle candele votive; in quella chiesa avevo recitato le mie preghiere, avevo provato ad usarle per ottenere qualcosa, ma quelle suppliche in odore di prostituzione risuonavano come l’appello dei committenti alla penetranza dell’arte: un chiedere la cui riuscita dipendeva dal talento dell’artista più che dalla persuasione dei mecenati.

Dentro quei luoghi di culto oscuri e odorosi di resine talvolta ci torno con la mente e mi vedo ferma, ad occhi chiusi, in mezzo al nartece, silenziosa e vigile, prima di avanzare — passo dopo passo — lungo la navata fino all’abside. Sento voci che bisbigliano in un idioma a me sconosciuto, e suoni che somigliano al crepitio delle mie ruote sugli sterpi. A quel punto apro gli occhi e intorno a me vedo il bosco. E allora mi rendo conto che non ho mai smesso di cercare, che sto ancora vagando, seppur in luoghi di culto differenti — una chiesa, un letto, un bosco — alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire compiuta. E, finalmente, libera.

Un cervello “molotov” – 10 agosto

Si dice che persone sottoposte a forte pressione vadano incontro al burn-out, ossia al fenomeno in cui si va letteralmente in tilt a causa dello stress. Una sorta di campanello che esplode in faccia al visitatore, un lampione che prende fuoco e con effetto domino incendia tutti gli altri finché il quartiere avvampa come un falò estivo.

Ecco, oggi è successo a me: sono deflagrata e ho incenerito i volti costernati dei presenti. Gli impegni incessanti, il caldo afoso, il ronzio del ventilatore, la routine della penombra strategica per tenere fuori il caldo riparandosi dal sole, delle abluzioni rituali per rinfrescare momentaneamente la pelle prima di avvertire un caldo ancor più intenso, e quella dei piatti freddi consumati dentro un forno crematorio con l’illusione di poterne fare una sala da pranzo, sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le radici del malessere son ben più profonde e arcigne come grinfie di suocere pedanti e insidiose. Tuttavia, non ve ne parlerò adesso.

Oggi voglio solo mostrarvi quel lato umano che spesso a noi, individui con gravi disabilità, tocca nascondere dietro un bel sorriso per fare star meglio chi, leggendo, sente di aver trovato chi sta peggio di lui e che tuttavia non perde mai la forza. No, non è onesto darvela a bere (in verità, non ci ho mai nemmeno provato).

Anche io perdo la forza e stasera ci ho rimesso anche una fetta di testa. Capita, tutto qui. Capita a tutti. Anche a noi, creature sfigate eppur piene di voglia di vivere.

Chi non conosce il termine “abilismo” e il significato sotteso, probabilmente si starà grattando la testa con aria paternalistica e penserà tra sé che se la mens è sana in corpore sano, è naturale che in corpore storpio la mente accusi qualche disturbo. Ma chissenefrega! Stasera sono detonata come un ordigno nucleare e ho infranto vetri, sventrato casa, fatto esplodere il tetto — tegola dopo tegola — frantumato ogni piastrella, polverizzato le porte.

E voglio raccontarvelo perché, ben lontana dall’essere perfetta, non sono altro che una donna con una disabilità grave e un cervello frizzante, pieno di idee e, talvolta, gonfio di paturnie ormonali e aneliti d’oblio. Un cervello “molotov” ad alto rischio di innesco.

Smoothie al mango – 6 agosto

Questa relazione ha il sapore di uno smoothie al mango e di un gelato alla cannella. Ha il sapore di una gelatina alla fragola ma anche di lacrime. Perché dietro la superficie magenta che ravviva le mie giornate c’è un sottobosco di emozioni latenti, scintille capaci di infiammare gli occhi e il cuore in una frazione di secondo.

Non è facile dividere la propria vita con qualcuno. Non è facile sincronizzare i propri ritmi con quelli altrui. Il bagno è sempre occupato quando ti serve lo struccante, lui si accorge di avere un imperante bisogno fisiologico quando la cena è in tavola, e io inizio a mangiare da sola sennò le pietanze si raffreddano (in verità, inizierei ugualmente anche se nel piatto vi fosse lava incandescente, perché sono una che appena vede il cibo deve assaggiarlo, boccone dopo boccone…finché il piatto è vuoto, s’intende!).

Non è facile. Bisogna imparare a rispettare le usanze altrui. A fingere di ascoltare i monologhi pestilenziali con cui lui accompagna ogni pasto; a rivolgergli brevi ma efficaci cenni di approvazione con la testa affinché si senta capito anche se, mentre lui parla, nella mia testa una scimmietta con in testa un cilindro sta suonando dei cimbali. Bisogna scendere a compromessi. Una sera scelgo io il film da vedere insieme e un’altra lo sceglie lui, o almeno ci prova, finché io insceno un malessere improvviso e lui per coccolarmi mi porge il telecomando e pronuncia le parole magiche: «Guarda qualcosa che ti piace, almeno ti rilassi un po’, amore…»

E sì, sono una stronza, però lo è anche lui, solo che io sono una stronza a cui piace tener testa agli stronzi e lui è uno stronzo a cui piace dire di esserlo, ma poi in fondo… Ok, sono una vipera, una Medusa con dei serpenti al posto dei capelli. Eppure lui mi ama. E io amo il suo farmi ridere fino alle lacrime, il viziarmi, il dormirmi appiccicato come un koala su un ramo di Eucalipto. Con lui le ore volano leggere, gli anni non contano più, insieme siamo due adulti consapevoli di poter diventare bambini ogniqualvolta ne sentano il bisogno.

Non è facile. Eppure siamo innamorati.

L’abito bordeaux – 31 luglio

Ieri è stata la mia prima volta dopo due settimane. La prima volta che — con indosso un abito di tulle bordeaux — uscivo dalle mura domestiche. La prima volta che lasciavo a casa il respiratore perché non sentivo mancarmi il respiro. La prima volta che mi truccavo, dopo due lunghissime settimane trascorse in pigiama, e lo facevo da sola, aiutata dalla mia assistente, Clara, a sollevare la mano per poter dipingere autonomamente sul mio viso. Ho maturato negli anni una predisposizione a far quadrare il cerchio, a cercare un modo di fare le cose in modo diverso da come le facevo l’anno prima. La malattia è pur sempre progressiva: occorre stare al passo con i tempi, precedere in astuzia il suo decorso, non fermarsi. E di fermarmi certo non ne ho voglia. Non adesso che il ricordo di ieri mi fa ben sperare. Non ieri che al primo refolo di brezza giunto a sorpresa dal bosco, ho gettato le scarpe sul prato e a piedi nudi ho camminato verso la Cappella della Madonna del Bosco con gli steli d’erba che solleticavano le dita e gli ultimi raggi del sole che sempre più fievoli preannunciavano il tramonto.

Oggi mi riposo. Resto a casa, ma con addosso un costume anziché un pigiama.