Uno squarcio nella coltre bigia – 27 maggio

Nemo, Milano

Fuori il cielo si sta aprendo e un azzurro quasi estivo s’affaccia dagli squarci nel grigio solido e disomogeneo della coltre gonfia di pioggia. In cucina Massimo lavora al pc, seduto al tavolo, e dagli auricolari cerulei una musica reggae ne raggiunge il cuore e lo rallegra. Il trillo dello smartphone richiama la mia attenzione. Allora, con dita impazienti digito il codice di sblocco e apro l’applicazione di messaggistica. Leggo: “La prossima settimana hai un day hospital al Nemo!”. Dopo la chiusura preventiva conseguente alla pandemia che ha messo in ginocchio il nostro paese, una timida spaccatura riporta luce dove prima era buio fitto pregno d’angoscia e nostalgia. Resto incredula per un attimo, una frazione di secondo che a una mente disattenta parrebbe troppo breve per esser considerata “tempo”. Sbatto le palpebre. Inspiro. È tutto vero, reale come la stanza immobile al risveglio da un brutto sogno. Il tepore delle lacrime serpeggia sulle guance prima di infilarsi — fastidioso, impertinente — dentro la mascherina nasale della NIV. Massimo si volta di scatto sentendomi singhiozzare. «Tesoro, che succede?»Rubo le parole all’aria frusciante che dal naso passa attraverso la gola prima di ramificare nei polmoni, e senza indugi rispondo: «Sono felice!»

Lettera aperta ai complottisti del 5G – 25 maggio

“Cari lettori — distratti, detrattori, menefreghisti, o qualunquisti — a scrivere questa cornice è una donna con insufficienza respiratoria grave da più di un trentennio, e che nell’ultimo anno si è dovuta abituare all’invadenza claustrofobica della ventilazione assistita (lo so, claustrofobico non è un aggettivo che si addice al sostantivo “ventilazione”, ma vi assicuro che avere 24 ore al giorno una mascherina sul viso può essere fastidioso anche se questa spinge aria dentro le cavità nasali giù fino ai polmoni). Una donna che quando legge di danni permanenti all’apparato respiratorio, seppur su un articolo che gira in rete e tra i notiziari televisivi, inizia ad avvertire come un senso di soffocamento. Tranquilli, è solo panico. Tuttavia, ben sapendo ciò che si prova in taluni frangenti, non riesce a trattenere una certa preoccupazione non per sé — che i danni permanenti li ha già ricevuti in dono dalla patologia neuromuscolare da cui è affetta, bensì per voi. Voi, che pontificate sull’inutilità delle mascherine, voi che vi sentite intoccabili, che guardate con quell’empatia da avvoltoio coloro a cui la vita ha già offerto alla nascita, attaccata al cordone ombelicale, una mascherina con annesso respiratore e ai quali, sospinti da un’arcigna e illusoria sete di onestà intellettuale siete soliti ribadire: «É giusto che le mascherine le indossiate voi che siete più deboli, ma non noi perché a noi non servono!». Voi, che fino all’altro ieri mi camminavate accanto come a percorrere un sentiero di crescita comune e oggi mi mettereste un tenace bavaglio sulla bocca. Voi, che da oggi il rigido girone della prevenzione non riguarda più, sappiate che dal suo interno — dalle sue viscere avviluppate in molteplici anse e zone buie — qualcuno ha un pensiero per voi. Di quale natura esso sia é storia da raccontare altrove.”

La paura – 8 marzo

Tutto rimanda ad un effimero sentore di normalità…

I piatti in lavastoviglie, il tavolo sparecchiato; sul davanzale della finestra il bicchiere con i fiori di pesco del giardino di mio padre. La paura ci coglie improvvisa: avevamo giurato di non aprire i social e invece per curiosità io non ho resistito e ho letto. In un attimo ho ricordato le corse in ospedale con il fiato che non arrivava, l’urgenza delle cure e degli esami diagnostici, il sapere che non mi avrebbero lasciata giorni ad attendere. E mi è risalito in gola un getto caldo di fiele. La paura è amara e serpeggia sulla lingua suggerendo allo stomaco di svuotarsi senza premure, né vergogna. «Prendiamoci le mani gli uni con gli altri.» ordino con inconsapevole risolutezza. Massimo è il primo ad afferrarmi la mano, poi è il turno di Rabia dopo aver indugiato qualche istante come a chiedersene la ragione. «Ora tu prendi la sua mano» incito Massimo che lo fa senza capire. «Prega prima tu» proseguo, rivolgendomi alla mia assistente. Improvvisamente la cucina è pervasa dagli arabeschi della lingua del Profeta e le invocazioni risuonano come un canto a filo di voce: «Allahum ‘abead eanaa altaen wa altaaeun…». Quando la preghiera finisce lei si asciuga gli occhi e aspetta il mio turno. «Ave Maria, piena di grazia…» recito d’istinto, quasi un’usanza a rivolgere le mie preghiere a una donna, madre e sorella. Massimo tace. Lui è ateo, ma ascolta e partecipa stringendomi forte la mano. Tutto sembra esattamente al suo posto: i piatti nella lavastoviglie, i fiori di pesco sul davanzale, noi tre intorno al tavolo sparecchiato a lasciar affiorare le emozioni più intime. Rabia si aggiusta il velo sulla testa e io inspiro profondamente attraverso la mascherina del respiratore. Tutto rimanda a un fugace, attesissimo sentore di normalità.