
Ieri è stata la mia prima volta dopo due settimane. La prima volta che — con indosso un abito di tulle bordeaux — uscivo dalle mura domestiche. La prima volta che lasciavo a casa il respiratore perché non sentivo mancarmi il respiro. La prima volta che mi truccavo, dopo due lunghissime settimane trascorse in pigiama, e lo facevo da sola, aiutata dalla mia assistente, Clara, a sollevare la mano per poter dipingere autonomamente sul mio viso. Ho maturato negli anni una predisposizione a far quadrare il cerchio, a cercare un modo di fare le cose in modo diverso da come le facevo l’anno prima. La malattia è pur sempre progressiva: occorre stare al passo con i tempi, precedere in astuzia il suo decorso, non fermarsi. E di fermarmi certo non ne ho voglia. Non adesso che il ricordo di ieri mi fa ben sperare. Non ieri che al primo refolo di brezza giunto a sorpresa dal bosco, ho gettato le scarpe sul prato e a piedi nudi ho camminato verso la Cappella della Madonna del Bosco con gli steli d’erba che solleticavano le dita e gli ultimi raggi del sole che sempre più fievoli preannunciavano il tramonto.
Oggi mi riposo. Resto a casa, ma con addosso un costume anziché un pigiama.