الحرية 20 نونبر

Oggi va così: allo scrivere prediligo il rileggere. Rivisitare vecchi scritti pregni di memoria. Perciò vi propongo una capitolo del componimento che scrissi per la Scuola Holden di Alessandro Baricco. Lo scritto s’intitola Hurrya – La libertà.

Wasim ed io ci siamo incamminati lungo l’ampio corridoio porticato del quadrilatero tra le sculture di gusto neoclassico e quelle liberty, e poi abbiamo proseguito nei viali, passando per crocicchi e rettilinei accanto alle lapidi. Un gatto sonnecchiava disteso su una tomba, e al nostro passaggio a malapena si è preso la briga di schiudere gli occhi per fissarci con quell’aria di distacco scritta nel DNA felino. A filo di voce ci accompagnava, talvolta confondendosi con lo scalpiccio sulla ghiaia, un sommesso recitare di Scritture: Wasim pregava, non nella lingua natia, ma in quella divina, la lingua del Profeta, e ad ogni verso si soffermava su una qualche parola e la soppesava.

Dopo l’iniziale disappunto per essere venuti a camminare tra le tombe si è adeguato alle circostanze, e siccome rivolgersi unicamente ai morti gli è sembrato irrispettoso per i vivi che gli stavano a fianco, si è messo a tradurre e a spiegare ogni verso, a farne notare la musicalità, ad insegnarne la pronuncia. Reputavo affascinante passeggiare nei cimiteri, a maggior ragione in quel periodo in cui lo studio degli scultori simbolisti infiammava la curiosità spingendomi a visitare gipsoteche, musei e camposanti da nord a sud della penisola, ma farlo in quel modo ibrido, posando gli occhi su quei monumenti alla cristianità e porgendo le orecchie agli arabeschi vocali dell’Islam, mi ha fatta sentire felice.

E quando dico felice intendo letteralmente. Avrei giurato di non essermi sentita così felice da mesi, non ricordavo di essere stata tanto felice nemmeno il giorno in cui ero entrata per la prima volta nella nuova casa con l’intenzione di viverci. Quella casa che avrebbe dovuto assomigliare a una dimora della Torino di inizio Novecento, con i fasti apollinei dell’Art Nouveau a decorarne l’epidermide, e invece è sempre stata un ibrido senza alcuna identità. Una mescolanza di “mio” e “suo” senza che tuttavia esistesse un “nostro”. Ero certa di non sentirmi così eccitata nemmeno nelle notti in cui mi addormentavo sul grande letto che condividevamo, felice di aver raggiunto l’indipendenza da sempre agognata, un traguardo che il mio debole corpo non mi avrebbe mai permesso di tagliare se la volontà non fosse stata più tenace della malattia.

Wasim si è scostato un poco per leggere l’iscrizione su una lapide e poi si èvoltato verso di me e con aria interrogativa ha domandato: «What does this mean?» abbozzando un sorriso come di chi è colto in flagrante. L’italiano era ancora una lingua ostile. Allora l’ho raggiunto e ho letto: “Qui han trovato la pace che non trovarono in vita» e nello scorrere le parole mi sono accorta di aver sete anche io, e voglia di andare al mare. I lividi sulle cosce bruciavano ancora come carne riversa sulla graticola, ma il cuore avvampava di un sentimento fuligginoso, nato sull’onda dell’emozione e ingabbiato nella speranza, offuscando il dolore. Ancora una volta ho creduto di poter perdonare.

«…la pace che non trovarono in vita»leggevo, e intanto mi saliva in gola la voglia di acqua e di sabbia dentro le scarpe, del tuffo tra le braccia altrui. E dimenticavo la violenza della sera prima. Mentre percorrevamo a ritroso il sentiero tra le lapidi gli ho fatto giurare che appena fuori sarebbe corso al chiosco di fronte alla bancarella di fiori a comprare qualcosa per dissetarmi, ma non acqua, no! Avevo voglia di cola, sì, fredda, anzi gelida, da infilarci dentro la cannuccia e bere fino a sentire le tonsille ghiacciate. E lui rideva ed esortava in quell’inglese coloniale indurito dall’inflessione indigena: «Fast!» spostando con i piedi la ghiaia davanti a me affinché le ruote non ci affondassero. Ero felice. Non ero mai stata tanto felice.

Wasim mi aveva condotta lontano, nell’Oriente dei miei sogni di bambina. Ma mentre i sogni ad occhi aperti dell’infanzia erano proiezioni di fiabe e di fantasie, questi serpeggiavano tra i sepolcri e le ombre, finendo con l’incarnare un incubo.

Feroce – 16 novembre

Ci sono momenti in cui, reclusa tra le mura domestiche, pare che la mia vita non sia tanto diversa da quella vissuta finora. Da molti anni limito le mie uscite alla bella stagione — giorni intensi come stelle giganti rosse da cui origina un forte vento stellare che strappa loro gran parte della massa in breve tempo, consumandole.

Ma poi ci sono giorni in cui mi soffermo a pensare a tutto ciò che prima, pur con notevoli precauzioni, potevo fare. A ciò che fino all’alba dell’autunno ho fatto, complice l’estate e la sensazione riflessa che tutto sarebbe andato bene. Pur in piena pandemia.

E sapete che cosa mi manca più di ogni altra cosa? La carnalità. Quell’impudicizia sanguigna che è sempre stata materia di studio per quella parte di me avida di sensazioni; cibo per quell’altra dal piglio cannibale; oblio, finanche, per quella terza parte che cerca l’amore sotto il frastuono delle guerra per fingere che la morte sia lontana.

Qualche mese fa pensavo che la pandemia assomigliasse a una guerra. Ora so che non è così. In mezzo alle detonazioni degli ordigni bellici, sotto il sibilo dei raid aerei puoi sentire il calore della pelle di uno sconosciuto penetrarti fin dentro le viscere per ricordarti che sei ancora viva. Ora no. Ora sono proibiti gli abbracci, il succhiarsi l’anima l’uno con l’altro, il leccarsi come animali che han bisogno di affetto. Sono proibiti gli incontri alla luce debole del tramonto, le strette di mano, il respiro ferino che odora, riconosce e nutre lo spirito. Non è simile a una guerra. No, non lo è. Questa distanza che, ragionevolmente, ci è stata imposta è un attacco alla bestia che vive in noi. Non vuole ammansirla, bensì ridurla pelle e ossa, affamarla fino a renderla feroce e incontenibile.

Perché un giorno, stremata e con l’unico obiettivo di nutrirsi, getterà via la maschera che la protegge e affonderà le fauci sulla bocca di un estraneo, ne cercherà la lingua insieme all’anima. Un giorno si strapperà di dosso le vesti e aprirà il proprio ventre a carni sconosciute. Quel giorno, il bisogno di sfamarsi sarà più forte della paura del contagio. E questo non verrà punito come colpa, ma rispettato come legge biologica.

Un autunno magenta – 3 ottobre

No, non mi sono ancora abituata all’autunno! Ad ogni pagliuzza di sole che sbuca dalla coltre bigia del cielo io inizio ad avvertire un formicolio dietro gli occhi, giù nella corteccia cerebrale, fin dentro gli impulsi elettrici delle terminazioni nervose. Voglio uscire! Una manciata di minuti, un quarto d’ora, un pomeriggio intero…

L’eco di morte che nell’ultima settimana ha accompagnato ogni mio spostamento— mentre attraversavo il corridoio per entrare in salotto, nel bel mezzo della cena, nell’istante in cui il timer dello spazzolino elettrico indicava che erano trascorsi i due minuti della pulizia orale — si mette in disparte: all’ombra subentra la luce accecante di una stella che arde, incandescente, come il metallo dentro una fucina. Una luce capace di generare la vita. Allora, il mio umore color piombo si colora di magenta, ravvivando la pelle e lo sguardo.

«Se potessi scegliere in che modo morire, vorrei farlo sotto il sole tiepido di settembre… » confido alla mia silenziosa amica.

Penso, abbassando lo sguardo sul maglione traforato e vivido come il mio sentire, che quel giorno mi piacerebbe indossare un abito dal colore intenso, vivace, allegro come il mio essere più profondo. E intanto mi sale in gola un amore sconfinato per la vita, per questa fulgida esistenza color magenta, per questo cammino che non può e non deve mai anteporre la scelta di vivere a quella di morire, legittimando la prima e ripudiando la seconda. Avverto tra le corde vocali e le mucose umide della laringe un amore incontenibile per la libertà, un diritto che ogni essere umano non deve mai dare per scontato, né credere di aver mai realmente raggiunto.

Vestita di magenta — colore che nasce dalla mescolanza tra il rosso e il blu — non ho più dubbi.

C’è una parte di me in cui regna la dittatura del sangue, una parte che pulsa in sincrono al cuore, che nutre le carni, le infiamma. É la parte rossa che guarda al domani con entusiasmo, che scrive per aver sentito le parole vibrare sotto il costato. Quella che di fronte a una finestra sente l’esigenza di spiccare il volo, lanciarsi verso l’orizzonte per un perentorio desiderio di libertà.

Poi c’è l’altra, quella blu, quella che deve contenere l’enorme pressione di questo flusso continuo e irrefrenabile. È la parte a cui tocca il difficile compito di rallentare la corrente, arginare le dirompenti emozioni. Per tentare di dare il giusto equilibrio a quell’impetuoso sentire in cui ogni slancio emotivo è un salto nel vuoto, un volo in picchiata.

Il magenta non si trova all’interno dello spettro del visibile. Non lo troverete mai tra i colori di un arcobaleno. Eppure proprio come la mia percezione della vita — arbitraria ed empirica — il magenta nasce da un’intima interpretazione visiva della luce. È fuoco e acqua. Come me.

E anela alla vita, dando alla morte il giusto grado di vividezza e di luce, l’equilibrio perfetto tra un colore caldo e uno freddo.

Harley Quinn e Joker – 27 settembre

Un weekend insolito, difficile, a tratti insopportabile. Paura, angoscia, rabbia. Oggi un sole caldo riscalda la pietra del pavimento sotto il gazebo e la siepe erubescente del vicino che offre riparo al gatto dal lungo pelo fulvo sotto il suo tetto di foglie.

Lo spirito rinvigorito risucchia quel calore come per osmosi: molecole in movimento per effetto dell’agitazione termica filtrano dall’aria tiepida all’anima. L’anima, qui intesa come psychè che, come la letteratura omerica tramanda, è un elemento freddo pronto ad abbandonare il corpo quando esso muore.

Il sole, tuttavia, oggi ha riportato vita nell’anima gelida che attendeva, muta, sotto l’epidermide, il momento di sfuggire alla carne. Libera finalmente. E con il sole sono giunti i baci, i respiri all’unisono — anemos, per restare in tema classico — la leggerezza dello schernirsi come bambini, quel prendersi in giro frizzante e perfido al contempo…

Papà sta meglio e la nostra anima rifiorita è nuovamente giocosa, vivace, impertinente. Vuole pungolare, rincorrere, ridere di gusto.

«Tu sei la mia Harley Quinn!» dichiara lui festoso.

Mi è stato accanto in questi giorni cupi, tenendomi per mano anche nel sonno. Il minimo che io possa fare è augurare cento giorni come questo al mio amato Joker, folle, imprevedibile e affine stronzetto.

Marinai – 25 settembre

Piove da questa mattina, il paesaggio oltre il vetro ha le stesse sfumature bigie del cielo. Nessun rumore oltre allo stillicidio sulle finestre. La sensazione di essere precipitata nell’autunno fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, lascia spazio a una quiete confortante che non è mestizia bensì pacatezza, soavità.

Getto il telefono sul tavolo e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. Sopra la credenza indiana una manciata di rose ha trovato riparo dal freddo del giardino dentro un vaso di ceramica grigio antracite. Ne afferro una: voglio scattare una fotografia per ricordare questa giornata che non assomiglia a nessuna di quelle di cui ho memoria. Una giornata di fine settembre, cupa oltre le mura domestiche, ma serena e limpida come una mattina d’estate dentro il petto.

In un attimo non indosso più i miei panni e nell’affresco pompeiano di fronte a me si materializza il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.

«Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi… » riecheggia nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo di agosto, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere sollevata — corpo e spirito — dalle mani altrui. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni ricerca assistenziale, intima o spirituale.

Quel: «Ti porterò in mare!» aveva la stessa intensità di un giuramento e blandiva il mio desiderio di ricominciare tutto da zero. Risuonava come l’annuncio della mia imminente venuta al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così avevo iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che regge il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…

«Ti porterò al largo!» aveva promesso: «Sto pensando a come prenderti.»

In quel momento, tuttavia, a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal grembo fino alla gola, un’angoscia soffocante che richiamava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale promessa non fosse stata altro che superficialità? Un modo ingenuo per nuotare a pelo d’acqua dentro una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto senza alcuno sforzo? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, infatti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un tuffo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati. Così ha fatto lui.

Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima. Un marinaio deve salpare, lasciarsi alle spalle qualcosa e qualcuno.

Il punto è che stamattina, sotto lo scroscio della pioggia, non provo alcuna tristezza. Questa volta affronto il volto apolide del mare aperto a cuor leggero, con una serenità che mi giunge dal ventre, calda e vellutata. Perché stamattina sento che in questo viaggio il vento sarà la mia altalena, la forza che sospinge il mio corpo e innalza il mio spirito, mani capaci di sollevarmi ben più in alto di ciò che farebbero le braccia altrui.

L’abisso – 21 settembre

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – importantissimi ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Tutti muoviamo i nostri passi nel crepuscolo.

«Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte» confida con un fremito nella voce.

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri. 

«Lo avevo intuito» 

Mentre il tè nelle tazze raffredda, lui pone le mani congiunte sulle ginocchia: «Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…»

«E invece s’è fatto incendio sotto la cenere.» mi affretto a suggerire. «Abisso» bisbiglio, frattanto nella mente si apre un varco l’omonima scultura del Canonica.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

«Leggevamo insieme» riprende, quasi che nel filo del discorso possa ritrovare una florida continuità con ciò che non c’è più « ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.»

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti avviluppandoci come placenta.

«Mi fa strano» provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento «che qualcuno ancora associ l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.»

Ascolta senza batter ciglio. Allora proseguo: «Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti… » Bevo un sorso di tè nero e poi provo a spiegare: «Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci».

L’abisso, Pietro Canonica

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

«E poi son convinta che il tempo non sia più a mio favore, nonostante mi senta più viva oggi di ieri. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze…» bevo, poi incalzo «L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero altrove, su qualcosa che mi facesse sentire viva, su un amplesso.»

Mi fermo per guardarne il volto e capire fin dove posso spingermi. Respiriamo la stessa aria in questa stanza che odora di foglie di tè e di focolare. Siamo così vicini da sentirci finalmente affiorare dall’ombra. E accettarci per ciò che siamo: visibili.

«Dovevo sentirmi viva, capisci? Più viva del solito, più carne e più spirito, più viscere e umori, più… »

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.

Harley Quinn – 13 settembre

Ho raccontato della mente molotov e del sotterraneo ribollire di emozioni che fanno eco a un principio di vita vivido e incandescente come magma.

Ma ho tralasciato di dirvi della leggerezza capace di liberarmi dal piombo che certi giorni pesa sulla mia testa, costringendola a chinarsi. Il piombo è il metallo degli alchimisti: può essere tramutato in oro. Chi conosce la mia Torino sa di quale processo sto parlando. L’oro di Torino è un pigmento, una sfumatura, uno stato d’animo. Un tramonto. Tuttavia, ci vogliono occhi capaci di vederlo. Occhi che non si soffermano al passato regale della mia città, né agli arredamenti degli antichi palazzi o all’austerità scintillante dei caffè storici, bensì pupille che sprofondano nel bronzo del crepuscolo o nel riverbero aureo sulla superficie quieta del Po.


Nei miei geni sopravvive un principio alchemico simile. Una sorta di serena sventatezza cresciuta con me, anno dopo anno. Prima era l’innocenza creativa di bambina, poi l’indole sognatrice di adolescente, infine si è fatta imprudenza vellutata di adulta. Temerarietà, forse. Insensatezza. La capacità di liberarmi dal peso che certi giorni piega le ossa e schiaccia il pensiero sul pavimento. Leggerezza, appunto.

Corde – 9 settembre

Ci sono mani che han toccato corde profondissime ma poi han scelto la tranquillità radiosa della superficie. E poi ci sono mani che han penetrato l’epidermide e si sono spinte fin dentro il cuore: dita che sono entrate dentro atrii e ventricoli facendosi strada nel sangue, intingendosi in quel rosso porpora di antica e regale memoria, lacerando le carni senza fare male. 

«Due addii in un mese sono troppi per me». Ancora una volta, bellezza e dolore confliggono tra gli occhi e il costato: «Due addii sono troppi per il mio cuore e quel suo destino da puttana».

Ma ci sono mani che sferzano, scuotono, comprimono corde profondissime e il loro è un voler porre l’accento sul fatto che, sì, conoscono il mio cuore e il meretricio che grava tra i ventricoli e gli affetti, e non intendono alimentare l’omertà che gli è ramificata attorno.

In serate come, queste cariche di mestizia, le sole corde che voglio ricordare sono queste, pregnanti, immortali, stonate. Mie.

Il fluido della metamorfosi – 8 settembre

Capita, talvolta, che rivolgere lo sguardo al passato disorienti. Quella che vedi non sei tu. O meglio, non sei più tu.

Era una mattina assolata di agosto, il cielo terso invitava a uscire per cercare refrigerio sotto le robinie dalle ampie fronde, con i capelli raccolti alla buona e indosso un abito leggero che lasciava nuda la schiena affinché anche il più debole alito di vento scivolasse dal collo fino ai fianchi senza incontrare ostacoli. Invece, mi sono svegliata con degli insopportabili dolori al ventre, il respiro affannoso e la febbre. E anziché la fresca ombrosità delle acacie, quella mattina ho respirato l’aria condizionata del pronto soccorso. Non odorava di nettare, né di bosco. Le infermiere dicevano che la mia vescica era troppo piena per contenere altra urina: occorreva svuotarla in fretta. «Potrebbe essere un problema temporaneo…» ha azzardato il medico «facciamo un cateterismo veloce e ti mandiamo a casa!» Il giorno dopo, tuttavia, mi hanno inserito un catetere a permanenza.

Fattene una ragione, questo potrebbe essere il tuo futuro!” La dottoressa, una donna di mezza età con la grazia di un caterpillar, ha scaraventato un pesante punto esclamativo nella stanza e se ne è andata, mentre l’opulenta affermazione cercava, scricchiolando, un equilibrio tra il pavimento e la porta. Se ne è andata lasciandomi in lacrime e senza conforto. La questione che era stata messa a tacere da un perentorio segno di punteggiatura, continuava ad essere una faccenda di tubi che penetravano in profondità, intersecavano il corpo, aprivano e svuotavano. E restava anche una questione di emozioni che, seguendo lo stesso ciclo, penetravano, intersecavano, aprivano e svuotavano. Fica e cuore. Muscolo e cervello.  Quel carosello di mani e di guanti e di gambe aperte mi faceva sentire stuprata. Quel punto esclamativo, poi – un fallo, un’erezione – rafforzava l’idea dell’abuso.

Non lo volevo. Non lo volevo e non lo voglio. È cosa di vecchi, un laccio scorsoio, una sutura dal cuore alla fica. Odora di morte, di poltrone ingiallite di ospizio. Non è cosa di corpi infuocati dal sangue, né di menti incontenibili, abili nello spezzare ogni catena. Non è cosa di carni giovani più inclini alla voluttà che al sacrificio, né di spiriti indomiti, ostili alla rassegnazione. Non è cosa che si possa dimenticare con leggerezza…” ho scritto poco dopo il cambiamento avvenuto nella mia vita. Poiché il cambiamento aveva a che fare con qualcosa che veniva da dentro, come i sentimenti. Con la nostra matrice, l’elemento essenziale alla vita: l’acqua. Il fluido della metamorfosi. 

In quella situazione aggrovigliata di tubi e di emozioni, ho atteso che il tempo cambiasse anche me.

Stamattina è venuta l’infermiera. Viene una volta al mese per sostituire il catetere vescicale. Ha sfilato quello vecchio e introdotto quello nuovo mentre parlavamo del ritocco al naso. Subito dopo mi è salita la febbre. Può capitare. Talvolta basta una sola dose di antibiotico per ritornare a star bene. 

Il mio corpo è cambiato. Ora accetta l’oggetto estraneo che gli viene spinto a forza dentro e lo custodisce come un figlio. Sono cambiata anche io. Ora, quando guardo l’oggetto estraneo che mi entra dentro le viscere, mi pare di vedere un prolungamento del mio corpo. Un pezzo di me. E so che nonostante la febbre, le medicine, le precauzioni quotidiane e quelle più rigorose durante l’attività sessuale, lo posso dimenticare con una limpida e fluente leggerezza. 

Il sapore dell’anice – 5 settembre

Ieri a svegliarmi è stato un incontenibile entusiasmo, un pulsare sordo e incalzante sotto il costato. Mai aprire gli occhi sul soffitto bianco della camera è stato tanto immediato. Ho guardato la finestra. Entrava una luce intensa attraverso le persiane: non avrebbe piovuto. Da quando il clima ha finito per condizionarmi l’umore, confido spesso in una tacita complicità meteorologica. Eppure amo la pioggia. Il ticchettio delle gocce sui vetri dell’auto, lo scroscio dentro la grondaia, lungo la catena di ferro arrugginito che scende tintinnante nel pozzo, e poi l’odore dell’erba fradicia, le pozzanghere in cui saltarci dentro, gli acquitrini su cui beccheggiano foglie e petali strappati al vento. Quell’odore di acqua e d’infanzia, reminiscenza di antri acquosi e muschiati, di abisso e di alghe, è un forte richiamo alla primordiale umidità uterina, quel lento sciabordare di liquidi contro tessuti, dove si accresce il frutto di ancestrali semi: lo schiudersi della notte arcaica. In un balzo temporale millenario, tra viluppi di viscere e filamenti mucillaginosi, restare in silenzio con la fronte contro il vetro a osservare la pioggia è come spingere lo sguardo dentro la genesi della materia dalla materia senza comprenderne appieno le dinamiche sottese.  

Più che scrutarla, tuttavia, la pioggia adoro respirarla. Odorarne il timbro terroso e pungente che segue al temporale, l’afrore di stanze rimaste chiuse per anni. Ricorda i viluppi dell’amore carnale. Il sentore di palustre, di primitivo, di batterico. Legame con la propria nascita, il cordone con cui la Madre tieni avvinto a sé ogni figlio. Eternamente. 

Eppure ieri la pioggia non l’avrei gradita. Speravo in una giornata assolata, da trascorrere fuori: l’atmosfera ideale per una merenda seduti sotto il patio in giardino. Non ci sarebbe stato alcun imprevisto a sconvolgere i miei piani. Ne ero certa. L’aria fresca del mattino, rapidamente entrata dalle finestre spalancate, si è diffusa nella stanza. Le lenzuola rinfrescate facevano raggricciare le dita tra le lenzuola. Allora, indolente ho afferrato il cuscino poiché la sensazione di soffice sotto i palmi mi è sempre parsa il metodo migliore per iniziare la giornata.

Lui dorme fino a tardi, sicché a me resta il tempo di passeggiare nel quartiere con la gatta che mi segue curiosa, e intrattenermi in lunghe telefonate che possono concludersi in modi imprevedibili. Quando si sveglia di solito è ora di pranzo. Perciò non ci è voluto tanto affinché la giornata declinasse verso il tardo pomeriggio. L’ora più attesa. 

«Mi hai promesso una partita a scacchi!» Lui non si è fatto pregare. Accanto alla scacchiera, un vassoio di paste e tre tazze di tè nero. La varietà di dolciumi invitava gli olfatti più sensibili a riconoscere l’aroma della pasta di mandorle, dei pistacchi, del cacao e delle innumerevoli creme, vaniglia o gianduia, catalana o chantilly . 

«Io e Clara ti sfidiamo: due contro uno!» So di essere una schiappa a scacchi, perciò ho giocato la subdola carta dell’alleanza femminile per non finire sotto scacco matto alla prima mossa.

«Vuol dire che vincerò più lentamente…» ha replicato lui con un sorriso sornione. Una tale esternazione aveva il sapore dell’anice. Il pensiero è volato, in quell’istante, al mese appena trascorso e all’intimità dei rapporti umani: ero certa che se avessi potuto avvicinarmi all’agosto ormai andato fino ad avere il suo respiro sulle labbra avrei sentito l’odore intenso, dissacrante dell’anice stellato. Ho avvertito il tipico retrogusto dolciastro che evocava visioni di scrigni chiusi da tempo immemore e di parole che anche se taciute non perdono l’aroma fragrante e vivido con cui le ricordiamo, giorno dopo giorno.