Il centro dell’Universo

In questi giorni di riposo forzato a causa di una riacutizzazione dei miei problemi respiratori, ricerco le sensazioni più quiete e rasserenati provate negli anni. Ma ad affiorare per prime sono le emozioni da cardiopalma: quelle dei tramonti respirati sotto un tetto di fronde lussureggianti e piene di vita, con il petto che scoppia di euforia e voluttà. Perché quando giunge l’ora del crepuscolo e dietro il fogliame il cielo avvampa, quel trovarmi in mezzo a un bosco intenta a soppesare i pensieri ricorda la mia vita e i suoi scenari ascosi, sempre camuffati dietro un tramezzo, una quinta, un tetto di foglie. Si distinguono le lunghe ombre della sera sotto la volta che brucia, ma non si riescono a scorgere l’universo e il suo silenzio oltre quel fuoco. Non se ne intravede uno scorcio finché le fiamme non si spengono. Eppure, dietro la pira incandescente su cui il cielo dà il suo commiato al giorno il buio più nero è lì da miliardi di anni. In assoluto silenzio. Un silenzio che non è assenza di suoni bensì impossibilità ad udirli.

Lui non mi ha mai dimenticata. Dopo mesi di lontananza ritorna con la naturalezza di un villeggiante e riprende il discorso da dove lo avevamo interrotto. Io lo accolgo come un ospite, offrendogli la gentilezza che merita, e lo conduco con me nelle mie peregrinazioni mentali. Insieme discutiamo di quel nostro schierarci come bambini sempre dalla parte dei giusti. Discutiamo di quella personale idea di giustizia che ci rende migliori agli occhi dello specchio. Non un inganno, più una svista. Discutiamo del nostro sentirci figli. «A guardar bene» interviene «ci han concepiti vicino a una cloaca. Eppure, fingiamo di essere frutti anziché escrementi.».

Ne perdono l’impertinenza all’istante. Il sole che incendia gli occhi mi concede di sospendere ogni giudizio. Di sentirmi libera dal peso che il valutare ogni parola getta sulle nostre spalle come giberne gonfie di ordigni bellici.

Lui si porta alla bocca una pesca, la odora rigirandola nella mano, la stringe tra le dita e sorride.

Accosciati sopra il buco del culo del mondo, con il bagliore dei tramonti vissuti che trafigge le pupille, continuiamo a discutere se mai esista un centro nell’Universo. Un punto che dia una misura all’infinito.

Compensazioni – 18 luglio

Ero particolarmente incerta se uscire. La canicola, frammista alla stanchezza della settimana piuttosto impegnativa, era un valido deterrente. Tuttavia, dopo una mattinata grigia che tutto faceva presagire tranne che il cielo si sarebbe aperto nel tardo pomeriggio a rendere il paesaggio più vivido e allegro, non si poteva negare al sole il piacere di accompagnarci in un’uscita lacustre.

«Dimenticherò la paura e allora mi esporrò troppo al pericolo del contagio…» continuavo a rimuginare, mentre salivo in auto e mi facevo allacciare le cinture per tener ferma la carrozzina durante il tragitto.

Il viaggio è stato breve. Volevamo assistere al tramonto dalla cala con le imbarcazioni in attesa del noleggio, sorseggiando un cocktail leggermente alcolico al profumo di lime e menta.

Avvicinandomi all’acqua, il timore è scemato fino a lasciare un senso di lontana inquietudine pronta ad essere imbarcata per lasciare la terraferma. Complice l’alcol, i pensieri hanno cominciato ad affastellarsi tra uno sguardo all’orizzonte e uno al fidanzato che reclamava attenzioni quanto i cubetti di focaccia salata serviti per l’aperitivo.

Pensavo, guardando Massimo ridurre in piccoli bocconi un cubetto di focaccia per poi porgermeli tra le dita della mano destra in modo che io potessi portarli alla bocca e masticarli con più facilità, che la vita mi ha sempre offerto un’alternativa, non abbandonandomi mai dentro un vicolo cieco. Anni addietro avrei preso con entrambe le mani quegli stuzzichini e li avrei spezzati con morsi decisi prima di masticarli senza alcuna fatica.

In qualche modo, tuttavia, la perdita della forza al braccio sinistro è stata compensata: strategia, istinto e apertura mentale hanno collaborato per non lasciarmi, letteralmente, a bocca asciutta. Ed è stato così per ogni perdita subita. Proprio come per i pesci che la vita subacquea ha reso capaci di estrarre l’ossigeno — naturalmente presente nell’acqua in concentrazione minore rispetto all’aria — con un semplice meccanismo compensativo: l’acqua nelle branchie scorre in senso opposto al sangue e in questo modo si mantiene la differenza del gradiente di concentrazione del gas tra l’ambiente e il pesce, utile alla sopravvivenza di quest’ultimo.

È riaffiorato il pensiero delle scelte che la vita ci offre, la certezza che spetta solo a noi quale strada percorrere. Come di fronte a un bivio: da un lato si va incontro alla rassegnazione e a un lento spegnersi, dall’altro si procede verso ulteriori diramazioni, proprio come un pesce migratore che per raggiungere il mare sceglie, uno dopo l’altro, i rami della foce fluviale.

«Amore, sei sazia o vuoi che ordini ancora focaccia? L’hai divorata come se non mangiassi da una settimana!» interviene Massi a riportarmi con i piedi per terra.

«Vuoi che chieda te ne portino quattro teglie?» incalza.

Io non so se ad attendermi vi sia il mare. Tutto ciò che so è che finora ho trovato innumerevoli ramificazioni nel mio percorso.

I moti ondosi – 17 luglio

La vista di un prato sconfinato ha da sempre mosso emozioni profondissime. Emozioni incagliate tra lo stomaco e la gola in attesa di un evento che le liberi. Gioia, euforia, gratitudine sono ordigni pronti a esplodere. Capita, allora, che farli brillare sia al contempo liberatorio e fastidioso. Succede che la troppa gioia, mista alle sorelle cariche di esplosivo, nel risalire dalle viscere alla gola mi provochino la nausea. Quasi fossero materiali, concreti e io ne sentissi la grandezza gonfiarmi il petto e poi raschiarmi l’ugola nel tentativo di uscire.

Ma forse è la sola spiegazione fantasiosa che riesco ad attribuire all’attenuazione dei freni inibitori che l’èrompere di queste emozioni provoca. Il non sentirmi più malata, né avvertire più l’urgenza di prendere precauzioni.

La vista di un prato sconfinato è un richiamo a lasciarmi andare, a correre sull’erba caracollando sulle ruote che tra una buca e un avvallamento riflettono sul mio collo il rollio di un natante in balia dei marosi. Se la razionalità prendesse il sopravvento, mi fermerei in mezzo al prato e con una rapida imbardata svolterei in direzione della strada asfaltata. Ma la ragione è un mare dalla superficie piatta che non può competere con la potenza delle correnti marine profonde. Il mio collo viene scosso, sbattuto avanti, indietro, strattonato a destra e a manca finché non arriva la nausea a risvegliare il desiderio di terraferma. Allora, trattenendo gli spasmi dello stomaco, mi guardo intorno con una sorta di vergogna colposa e, lentamente, torno sulla strada asfaltata. Felice.

Il bosco – 16 luglio

Talvolta sento l’esigenza di fuggire, camminare lontano dalla fiumana — che, peraltro, in questo momento di allarme sanitario internazionale è fortemente consigliato.

In questi momenti di inquietudine, camminare è un richiamo imperativo. E alla necessità di passi, segue intimamente quella di bosco. La voglia di farsi sorprendere da un raggio di sole tra il fitto fogliame, di inseguire l’orizzonte consapevole che l’obiettivo non è raggiungerlo bensì continuare a rincorrerlo, il sentore di umidità ancestrale, l’odore di erba e sterpi liberano i pensieri e li purificano in modo analogo a una fumigazione rituale.

Una volta prese le distanze dalla scenografia urbana, la mente ramifica tra le fronde e quel lacerto di cuore che mi porto appresso rattoppato e disilluso. Sicché, nutrito da questa linfa dalla natura ibrida, vegetale e sanguigna, il pensiero ritorna a quel crocevia solcato dai passi dei viandanti che è la mia vita.

La mia storia è fitta di ombre. Ma a produrre l’ombra è sempre una sorgente di luce.

Certo, l’ho appreso con il tempo, anno dopo anno. Per voluttà, ma anche per un desiderio più tiepido di conoscenza. Lasciandomi guidare dal paesaggio verso quell’orizzonte in cui cielo e terra collimano. Con un vagare all’apparenza senza meta.

15 luglio 1978

Era l’anno in cui rapirono e uccisero Aldo Moro, l’anno in cui venne meno il compromesso storico stipulato tra lo stesso Moro ed Enrico Berlinguer con l’obiettivo di avvicinare la Democrazia Cristiana al Partito Comunista. Era l’anno in cui venne intensificata la lotta al terrorismo, tuttavia sfociata qualche anno più avanti nell’omicidio del Generale Dalla Chiesa incaricato proprio di coordinarla.

Erano anni roventi quelli in cui ho preso forma. Anni di tumulti, di armi e di sangue.

Sono nata il 15 luglio di un caldo 1978. Da pochi giorni, Sandro Pertini — ex partigiano militante nella Resistenza durante il secondo conflitto mondiale — era stato eletto Presidente della Repubblica. Le radio trasmettevano notizie politiche tra un brano dei Bee Gees e uno di Siouxsie and The Banshees; Disco Music e New Wave si alternavano alle melodie dei cantautori italiani.

Sono nata in un paesino di un migliaio di anime, conficcato come una mina inesplosa nella pianura canavesana. Alla nascita pesavo poco più di due chilogrammi e quando chiesero a mia madre quale nome volesse darmi, lei restò in silenzio qualche istante prima di ammettere di non averne la più pallida idea. Alla fine vinse l’unico nome che non le sembrava abusato in quell’Italia tradizional-avveniristica in cui Sonie, Monie, Sare e Marie spuntavano come funghi nei boschi. Tuttavia, quando giunse il momento di pronunciarlo, Tatiana le parve un nome troppo uso a vezzeggiativi, sicché tagliò corto e — sebbene ignorasse le ferree regole dei patronimici e dei diminutivi russi — all’insistente infermiera che domandava il mio nome rispose: «Tania». Tania era un nome corto, più spiccio di Tatiana. Nessuno lo avrebbe storpiato.

Milizie – 14 luglio

Entrare in un campo di girasoli, arrampicandosi sul terreno dissestato, tra l’erba alta e i lunghi fusti irsuti che invitano a sollevare lo sguardo in cerca del capolino rivolto al cielo, è una delle esperienze più suggestive che ho vissuto.

Significa letteralmente essere avvolti dal mistero — che cosa c’è pochi passi più avanti, dove la vista non riesce a oltrepassare il fitto fogliame tra cui vivono in pacifica simbiosi ragni e insetti di varie fogge e molteplici colori? Là in mezzo, c’è una quiete terrifica e al contempo meravigliosa. È un tripudio di giallo, arancione e marrone, con diverse sfumature, e zone d’ombra nascoste dal tetto assolato e abbacinante.

Troppi pensieri mi assillano in questi giorni, dalla recrudescenza della pandemia agli anniversari sanguinosi che affondano le radici nell’anno in cui sono nata e più estesamente in quel decennio noto come “anni di piombo”. Ho bisogno di sentire gli occhi bruciare per il sole che giunge diretto a infiammarli; ho bisogno di sentirmi piccola e protetta da quelle milizie immobili e soverchianti.

Poco distante da dove mi trovo, un cartellone scritto a mano chiede ai visitatori la gentilezza di offrire un euro per ogni girasole che si voglia portare a casa. Caracollando sul suolo accidentato riesco a ritrovare il sentiero. E sollevando lo sguardo sopra un gruppo di giovani girasoli, decisamente più bassi rispetto agli altri, rivedo l’orizzonte.

Lentamente lascio il campo alle mie spalle e passando accanto alla cascina dirimpetto chiedo alla mia assistente di far scivolare due euro dentro la cassetta delle lettere per i due girasoli che, incautamente, ho calpestato durante le maldestre manovre con la carrozzina.

Una sola carne – 12 luglio

In lontananza il cielo si fa imponente. Come un grido di battaglia ci raggiunge il boato del tuono e nell’aria, rinfrescata dalla coltre cupa che ci sovrasta, già si può pregustare l’odore della pioggia.

Su questa terra han posato i passi creature di cui non rimane più memoria. Han vissuto e poi sono scomparse senza lasciare traccia, tante sono le generazioni che ci separano. Sento nella terra sotto di me il loro respiro, un fiato millenario che ancora racconta della loro presenza.

Forse è questo ciò che mi spinge a scrivere: sfuggire all’oblio. Scrivere su ogni centimetro di epidermide, su ogni brandello di carta, sui muri, sui margini delle pagine, sui Testi Sacri, sui delicati incastri delle sinapsi…

Voglio scrivere dello scroscio della pioggia giunto a sorpresa nel tardo pomeriggio subito dopo il bagliore del lampo. E voglio scrivere della mia natura snaturata, spuria e delle sue pendenze, senza vergogna. Con purezza di bambina.
Voglio dare un volto alle voci che giungono dal sottosuolo e voglio dare un’identità ai campi che ho calpestato, un piede dopo l’altro, fino a sentirne grumi di terriccio umido tra le dita.
“Ho viaggiato moltissimo, benché spesso ferma in un luogo” rifletto e subito il pensiero rimanda al mio sguardo, all’iride scura che quando fissa un punto di fronte a sé si spoglia della dolcezza e risveglia una bestia assopita dentro.
“C’è una parte di me cupa come il colore degli occhi e un’altra limpida, rasserenante, così diversa… “ mi sovviene quasi a rispondere a un dissidio interiore.
Voglio scrivere del paese in cui sono nata, della sua meravigliosa antichità che, sì, talvolta è retriva e bigotta ma pullula di storia e continua a dar voce ai morti.

Un’euforia densa e pulsante distoglie la mia attenzione dal temporale che ormai ci ha raggiunti.
Voglio scrivere del giorno che si è spento con un copioso scroscio di pioggia e del cielo che si è fatto cupo come l’iride e ha aizzato la bestia. Le ha fatto conoscere l’odore del sangue e la tenerezza delle carni. Voglio scrivere del canto a fil di voce di una bambina che con la temerarietà degli innocenti ha avvicinato l’animale e si è lasciata azzannare per mischiare il proprio sangue al suo e divenire una sola carne.

La bestia – 11 luglio

Ci sono pensieri che ondeggiano in superficie come i rami filiformi dell’equiseto lungo le sponde dei fossati, mossi dalla brezza serotina che in queste terre di confine giunge dalla valle, seguendo il percorso fluviale dell’Orco. “Sto forse uscendo troppo?” domando a me stessa, con una certa frequenza.

Da quando ci è stata ridata la facoltà di decidere i nostri spostamenti geografici, finito il lockdown, ho dapprima esitato sulla soglia di casa. Oltrepassarla poteva essere rischioso per me che convivo con un’insufficienza respiratoria grave. Ho indugiato per qualche settimana, conferendo soltanto al piccolo giardino privato lo status di “spazio aperto”. Un hortus conclusus in cui respirare l’aria primaverile e godere del sole. Poi, con uno slancio coraggioso — dovuto più all’insofferenza che alla temerarietà — ho distanziato i confini del mio spazio sacro. Con diffidenza di animale selvatico mi sono allontanata dalla tana. In principio, una sorta di timidezza frammista a timore conteneva il mio bisogno di esplorare, ma passo dopo passo le due uscite settimanali son diventate tre e poi quattro… E ora che la bestia ha perso il ricordo della catena che la tratteneva, attende l’alba del giorno dopo per tornare fuori. La bestia fiuta l’odore del pericolo, ma la sete di libertà è un bisogno più potente e incontrollabile. Chissà se tra questi spazi sconfinati, tra sentieri e vecchie dimore abbandonate, ella possa dissetarsi fino ad averne abbastanza anche della sete di libertà.

L’alcova – 10 luglio

Passeggiata in Canavese

In mezzo a una radura, sotto un cielo gonfio di pioggia, mi ritrovo a cercare il campo di lavanda di cui tutti parlano. Curva dopo curva la strada, si fa sentiero e poi prato a perdita d’occhio. Il cammino è breve. Qualche passo e il profumo inebriante della lavanda penetra le narici. In un attimo ha raggiunto il cuore e si affanna tra atri e ventricoli con operosità di ape in cerca di nettare. Le gambe nude sfiorano gli steli d’erba. Gli insetti volano a fior di pelle ma sembrano non vederla. La magia di quei lunghi filari dal colore inconfondibile attrae più delle mie cosce succose. Un gradito banchetto se non fosse per quelle infiorescenze a spiga che odorano di Provenza e di saponette e che ricordano le nonne e loro petineuse profumate di lavanda. «Corri che il cielo si fa scuro come questo campo!» giunge la voce di Jasmine a richiamare la mia attenzione. Resto ancora un attimo, non voglio allontanarmi da quell’alcova che sa d’infanzia e di armadi dentro cui giocare a nascondino.

Disability Pride – 9 luglio

Oggi voglio spendere due parole sul Disability Pride, ossia il movimento internazionale in cui si rivendica la fierezza della disabilità e più ampiamente si promuovono i diritti civili delle persone disabili. Vorrei raccontarvi che cos’è, per me, il #disabilitypride. In primis, non sono orgogliosa di avere una disabilità. Sono semmai fiera di aver saputo trarre degli insegnamenti dalla mia disabilità — non sempre cinici e castranti, quale ad esempio la consapevolezza che il mondo non ci accoglie proprio a braccia aperte — ma anche costruttivi e motivazionali. Sono fiera, ad esempio, di aver saputo compensare le perdite subite negli anni con strategie via via sempre più affinate e complesse. Ho imparato a truccarmi usando il solo braccio destro e conferendo al sinistro il ruolo di leva, di sostegno per l’altro — debole anch’esso ma ancora in grado di compiere gesti minuziosi se aiutato. Ma ho anche imparato a insegnare ad altri a truccarmi laddove le braccia sfiancate non riescano a farlo. Ho imparato a perseguire ciò che desidero e che mi fa star bene, a discapito di ciò che dovrei/sarebbe più giusto fare. Mi sono liberata dalle sovrastrutture del senso di colpa originario e con un rinnovato slancio verso la libertà ho imparato a muovermi tra la gente, riconoscendone la generosità e l’intelligenza ed eludendone l’ostilità e la grettezza. Sono orgogliosa di aver saputo fare di necessità virtù, di aver ben chiari nella mente i miei bisogni e il modo per soddisfarli. E sono altresì fiera di essere consapevole che vi sono zone d’ombra nell’intimità del mio spirito sulle quali ancora non riesco a fare chiarezza. Ad esempio, l’insicurezza e il blocco psicologico nel farmi assistere in taluni bisogni fisiologici (fare la cacca, per intenderci), sui quali tuttavia sto lavorando. Sono orgogliosa di essere quella che sono, NON nonostante là disabilità ma grazie alla disabilità.