Il respiro di un pesce – 4 luglio

Finita la pioggia — da cui hai cercato riparo —giunge imponente il desiderio di acqua e il solo modo in cui riesci a spiegartelo è quel mistero atavico che la pioggia ti ha aiutato a far riaffiorare. Il senso originario della nostra vita di embrioni-pesce, il ricordo di un rapido e traumatico passaggio da una vita in apnea ad una anfibia e poi, con un salto evolutivo vertiginoso, a quella di mammifero. «Andiamo al lago!» ho proposto, ben consapevole che l’iniziativa avrebbe accolto il favore di tutti. Il fragore della pioggia dei giorni scorsi ha maturato nei miei occhi la voglia dello sciabordio che incanta, della matrice liquida arginata da sponde terrose, del beccheggio silenzioso delle anatre sulla superficie del lago. La giornata era serena e calda, mossa appena da una leggera brezza che scomponeva i capelli raccolti in una coda alla buona, fatta in fretta per non sprecare tempo e uscir di casa al volo. Appena arrivati ho cercato il pontile dove il sole del tardo pomeriggio accecava ancora con caldi riflessi dorati. Tutto era perfetto. Ho respirato senza aver bisogno della NIV. Ho respirato e mi è parso che il mio fosse il respiro di un pesce.

Il riparo – 3 luglio

Al riparo dalla pioggia…

Cercare un riparo è forse uno dei gesti più antichi e al contempo intimi che mi sovviene ogni volta che penso alla pioggia. Sia una casa, un albero dalle spesse fronde, una capanna fatta di lenzuola. Un riparo è un momento di tenerezza, un abbraccio stretto e prolungato, un focolare che attende di riscaldarci. Certo è che la mia indole mi spingerebbe sotto l’acquazzone a infradiciare i capelli e gli abiti, a sentire pizzicare la lingua dalla gragnola fredda e pungente; a immergermi nella matrice-Madre da cui ho avuto vita. Purtroppo, per ovvi motivi, mi tratterrò dal farlo. Ma continuerò a godere della bellezza dei luoghi che ci ospitano offrendoci un riparo. Magari accanto a una lampada dalla luce calda e rassicurante.

Il Mistero di Venere

Prima uscita con il nuovo outfit #guess

“Tempus fugit”, il tempo fugge. E io che avverto un ribollire incandescente di vita sotto il costato cerco di correre più in fretta per raggiungerlo. Non è vero che “c’è tempo”, ciò che lasci dietro di te semplicemente lo perdi. Non ci sono due occasioni per nascere e non ve ne sono per morire. Dopo otto mesi di quarantena — sì, perché la mia reclusione non é durata soltanto il tempo del lockdown, bensì da ottobre 2019 a causa dei postumi di una influenza ad oggi — per la prima volta ho deciso di spingermi oltre il perimetro rassicurante del quartiere in cui vivo. Ho scelto un luogo all’aperto, in cui bere un tè nero freddo con fichi e mandorle –Il Mistero di Venere. Un tè dal sapore nostalgico delle estati in cui osservavo la notte scendere sul Po nel fragore della fiumana e del mio cuore innamorato. Non è vero che “abbiamo tutto il tempo che vogliamo di fronte a noi”. No, non è vero. E questa epidemia nella quale io mi sento ancora invischiata come un soldato che avanza carponi nel fango per eludere il nemico, ce lo ha dimostrato. Avevo sete di vita anche prima del Covid19, e volevo ingurgitarne taniche intere senza prendere fiato. Ma ora quella sete si è fatta più urgente, è più di un bisogno fisiologico: è un atto d’amore. Bere tutta la vita che riesco per dare al mio corpo e al mio spirito un significato esistenziale che vada ben oltre il semplice essere al mondo.

Pioggia estiva – 2 luglio

Un “Ginger Hot” all’Esedra Convivium

Ci proviamo per la seconda volta. «Non pioverà, guarda che sole!» mi affretto a sentenziare. Quasi uno scongiuro. E, in effetti, il cielo — benché punteggiato di nuvole —mostra squarci azzurri che fanno ben presagire. Durante il tragitto in auto il sole abbaglia e il caldo è quello dell’estate a queste latitudini. Arriviamo. Appena scesi dell’auto sollevo lo sguardo, richiamata da una sottile intuizione. In lontananza un denso ammasso di nubi gonfie di pioggia s’allunga sulla diagonale del cielo, verso le nostre teste. Giusto il tempo di prendere posto al tavolino in mezzo al prato e si cominciano a udire dei tuoni che via via si fanno preoccupanti. In un attimo afferriamo la tazza con il tè allo zenzero e cardamomo e la coppa con il gelato al pistacchio e panna, e corriamo a ripararci dentro il salotto variopinto e ricercato. Una pioggia fitta scende sul prato. Ridiamo. «Qualcuno porta sfiga!» ci incalziamo a vicenda. Sono felice. Con la scusa di sfidare il meteo ci ritorneremo presto.

1 luglio

L’estate in giardino

L’estate si è fatta avanti con le sue promesse di uscite, di sole, di corpi nudi. «Sono promesse da marinaio!» ripetevo a me stessa, ben consapevole che di uscite, questa estate, non ne avrei fatte molte. La pandemia, il mio respiro più affaticato… E allora masticavo propositi di lunghe letture, di libri che pagina dopo pagina diventavano sempre più vite parallele e sempre meno parole scritte. Ma non avevo fatto i conti con la mia capacità di adattarmi alle condizioni più estreme: un principio che condivido con gli antenati unicellulari e con taluni tipi di virus. Se la vita mi costringe a limitare ulteriormente la mia libertà, io cerco di estrarre fino all’ultima goccia di linfa da quelle sporadiche concessioni. Il giardino diventa un’alcova in cui prendere il sole, assaporare i profumi dell’erba appena tagliata e del basilico che vive il trionfo estivo con una sensualità e una bellezza che inumidisce il palato e rievoca memorie d’infanzia legate al cibo e a certi baci incauti nell’orto. Il corpo — a disagio dentro gli abiti, seppur fini e ampi — pretende di mostrare la pelle, tutta, anche quella non ancora sfiorata dal sole. E allora compro un bikini e lo indosso. Mi sento così bene, a mio agio in mezzo al fogliame e dentro un costume da bagno cucito per altre forme e altri spiriti a cui l’imperfezione non ha mai fatto visita, neppure in sogno. Ci sto davvero bene: i miei seni trovano il loro guanciale, il mio ventre il suo respiro. Siamo liberi.

30 giugno

L’allenamento con il #motomed

La routine, quel ripetersi di azioni — per taluni fastidioso — che ci pone su un cammino lungo il quale sono disseminati trofei, è una parte preponderante delle mie giornate. Le nostre vite sono pregne di routine senza che la maggior parte di noi ne sia consapevole: scuola, lavoro, palestra… Ma c’è un’altra routine più intima e meno visibile: quella dei gesti che compiamo per motivarci. La mia è un cielo costellato di piccole soddisfazioni: colazione con una tazza di tè al limone, uno sguardo in strada per vedere l’asfalto arroventato dal sole, una passeggiata in cerchio in salotto con la gatta coricata sulle mie gambe, e l’allenamento quotidiano con la mia cyclette #motomed che giro dopo giro conduce i miei piedi — e ancor di più la mente — a chilometri di distanza. Rituali motivazionali. In particolare, l’allenamento del corpo è un rito a cui non vorrei mai rinunciare. Forse perché normalmente sono quasi immobile per buona parte del giorno. Quella pedalata costante fa rivivere zone che mi dimenticherei di avere se non fosse che per il dolore o il piacere che esse possono provare. I piedi riacquistano una forza insospettabile e la capacità sorprendente di volare. Le ginocchia si dilungano a disegnare cerchi nell’aria e finalmente li percepisco nuovamente “vivi”. Le cosce si contraggono e talvolta dolgono, ma anch’esse non vogliono smettere quell’andirivieni così simile alla ciclicità della vita. Un susseguirsi di alti e bassi, di vette e abissi. Così simile all’orientalissimo “Samsara” o eterno ritorno. Giro dopo giro, la distanza percorsa non è che un cerchio grande quanto l’intera mia esistenza.