
L’estate si è fatta avanti con le sue promesse di uscite, di sole, di corpi nudi. «Sono promesse da marinaio!» ripetevo a me stessa, ben consapevole che di uscite, questa estate, non ne avrei fatte molte. La pandemia, il mio respiro più affaticato… E allora masticavo propositi di lunghe letture, di libri che pagina dopo pagina diventavano sempre più vite parallele e sempre meno parole scritte. Ma non avevo fatto i conti con la mia capacità di adattarmi alle condizioni più estreme: un principio che condivido con gli antenati unicellulari e con taluni tipi di virus. Se la vita mi costringe a limitare ulteriormente la mia libertà, io cerco di estrarre fino all’ultima goccia di linfa da quelle sporadiche concessioni. Il giardino diventa un’alcova in cui prendere il sole, assaporare i profumi dell’erba appena tagliata e del basilico che vive il trionfo estivo con una sensualità e una bellezza che inumidisce il palato e rievoca memorie d’infanzia legate al cibo e a certi baci incauti nell’orto. Il corpo — a disagio dentro gli abiti, seppur fini e ampi — pretende di mostrare la pelle, tutta, anche quella non ancora sfiorata dal sole. E allora compro un bikini e lo indosso. Mi sento così bene, a mio agio in mezzo al fogliame e dentro un costume da bagno cucito per altre forme e altri spiriti a cui l’imperfezione non ha mai fatto visita, neppure in sogno. Ci sto davvero bene: i miei seni trovano il loro guanciale, il mio ventre il suo respiro. Siamo liberi.