
Viaggiare in solitario dev’essere il mio destino. Lasciare l’asfalto rovente della strada per invisibili sentieri che attraversano dapprima radure assolate per poi addentrarsi nella foresta, laddove ogni suono è un richiamo per spiriti curiosi. E mentre calpesto il terriccio di questi luoghi loquaci e odorosi di resine e legno, il mio cuore si perde nella selva. Improvvisamente, a ospitarmi non è più il bosco canavesano con i suoi ombrosi rami dei faggi e dei larici, bensì è il polmone amazzonico aggrovigliato in intrichi di elicriso dai rizomi striscianti e grosse bromelie in cui farsi strada a colpi di machete. In un angolo un gringo sta liberando l’intestino dietro un grande tronco di ebano, incapace di mettere a tacere la morale e mostrare le pudende agli Jibaros. In un altro angolo poco distante, degli shuar macellano una scimmia dalle pregiate carni ricche di proteine e capaci di saziare per giorni. Davanti a me, il fiume con la canoa in attesa di traghettarmi sull’altra sponda dove un tigrillo femmina annusa l’aria per riconoscere l’odore del mio sangue. Una voce mi accompagna. È profonda, svogliata e roca, come le voci dei vecchi saggi che hanno amato e ucciso in egual misura. È la voce di Antonio José Bolivar Proaño e ora sta rileggendo, lentamente e con trasporto, un consumato romanzo d’amore.