L’abisso – 21 settembre

Talvolta mi soffermo a pensare alle profondità che occorre raggiungere, a quanto occorra sondare l’abisso per trovare le tenebre.

Da tutti gli anni vissuti – importantissimi ai miei occhi – ho imparato che vi è una zona d’ombra che alligna in superficie, uno spazio sotterraneo battuto dai venti e colpito dalla luce. Come quelle pupille che dopo essere state al buio improvvisamente si affacciano al sole, questo taglio di terra in penombra resta nascosto alla vista.

Tutti muoviamo i nostri passi nel crepuscolo.

«Non ti ho mai detto di essere sfuggito all’amore? Ho avuto paura, era troppo caldo e mi soffocava il petto: ho pensato di essere prossimo alla morte» confida con un fremito nella voce.

Uno spiraglio di sole penetra il vetro e l’angolo tiepido che occupiamo tra il tavolo e il muro, in un declino di luce verso l’oscurità, si fa ventre, ci ridà l’innocenza di nascituri. 

«Lo avevo intuito» 

Mentre il tè nelle tazze raffredda, lui pone le mani congiunte sulle ginocchia: «Ho cercato l’ombra fresca dei nocciòli su in collina e a poco a poco m’è parso che il fuoco avvampato sotto il costato si fosse spento. E invece…»

«E invece s’è fatto incendio sotto la cenere.» mi affretto a suggerire. «Abisso» bisbiglio, frattanto nella mente si apre un varco l’omonima scultura del Canonica.

Lui resta in silenzio.

Ora che ne abbiamo parlato la memoria ritorna a quel passato che credevo di non dover riesumare. La memoria risveglia i morti.

«Leggevamo insieme» riprende, quasi che nel filo del discorso possa ritrovare una florida continuità con ciò che non c’è più « ci accomunava la passione per i poeti. Lei era dolce, di una semplicità che scioglieva i pensieri. Io non avevo mai fatto l’amore.»

Non riesco a trattenere un sorriso, ma volto il viso dal lato chiuso del grembo che ci ospita e che ora odora dei nostri abiti avviluppandoci come placenta.

«Mi fa strano» provo a spiegare, quasi sentendomi in colpa per quel sorriso sfuggito nella solennità del momento «che qualcuno ancora associ l’amore agli spasmi del corpo. Mi suona dolce, insomma, e vagamente fantasioso.»

Ascolta senza batter ciglio. Allora proseguo: «Io non ci riesco più. È passato così tanto tempo da quegli anni innocenti… » Bevo un sorso di tè nero e poi provo a spiegare: «Non che non vi sia più innocenza in me – talvolta la sento urlare di dolore – è solo che non riesco più a crederci».

L’abisso, Pietro Canonica

Sulla fronte gli luccica un velo di sudore e subito si affretta a passarci una mano sopra.

«E poi son convinta che il tempo non sia più a mio favore, nonostante mi senta più viva oggi di ieri. Sai, quando da adolescente vedi il futuro come un alleato e da adulto, invece, sai che ti rema contro e gli anni che passano vogliono dire perdere gli affetti, la giovinezza, le forze…» bevo, poi incalzo «L’altra sera ho guardato mio padre in viso, gli ho ficcato gli occhi dentro ogni ruga, dentro ogni capello bianco per cercare di capire quanto tempo ci resta. Ma poi mi sono spaventata e ho dovuto spostare il pensiero altrove, su qualcosa che mi facesse sentire viva, su un amplesso.»

Mi fermo per guardarne il volto e capire fin dove posso spingermi. Respiriamo la stessa aria in questa stanza che odora di foglie di tè e di focolare. Siamo così vicini da sentirci finalmente affiorare dall’ombra. E accettarci per ciò che siamo: visibili.

«Dovevo sentirmi viva, capisci? Più viva del solito, più carne e più spirito, più viscere e umori, più… »

Non osa abbracciarmi, quindi mi stringe con gli occhi. L’utero in cui sostiamo, tra il muro e il tavolo, mischia il nostro odore, gli sguardi, e ci elegge fratelli.

Il fluido della metamorfosi – 8 settembre

Capita, talvolta, che rivolgere lo sguardo al passato disorienti. Quella che vedi non sei tu. O meglio, non sei più tu.

Era una mattina assolata di agosto, il cielo terso invitava a uscire per cercare refrigerio sotto le robinie dalle ampie fronde, con i capelli raccolti alla buona e indosso un abito leggero che lasciava nuda la schiena affinché anche il più debole alito di vento scivolasse dal collo fino ai fianchi senza incontrare ostacoli. Invece, mi sono svegliata con degli insopportabili dolori al ventre, il respiro affannoso e la febbre. E anziché la fresca ombrosità delle acacie, quella mattina ho respirato l’aria condizionata del pronto soccorso. Non odorava di nettare, né di bosco. Le infermiere dicevano che la mia vescica era troppo piena per contenere altra urina: occorreva svuotarla in fretta. «Potrebbe essere un problema temporaneo…» ha azzardato il medico «facciamo un cateterismo veloce e ti mandiamo a casa!» Il giorno dopo, tuttavia, mi hanno inserito un catetere a permanenza.

Fattene una ragione, questo potrebbe essere il tuo futuro!” La dottoressa, una donna di mezza età con la grazia di un caterpillar, ha scaraventato un pesante punto esclamativo nella stanza e se ne è andata, mentre l’opulenta affermazione cercava, scricchiolando, un equilibrio tra il pavimento e la porta. Se ne è andata lasciandomi in lacrime e senza conforto. La questione che era stata messa a tacere da un perentorio segno di punteggiatura, continuava ad essere una faccenda di tubi che penetravano in profondità, intersecavano il corpo, aprivano e svuotavano. E restava anche una questione di emozioni che, seguendo lo stesso ciclo, penetravano, intersecavano, aprivano e svuotavano. Fica e cuore. Muscolo e cervello.  Quel carosello di mani e di guanti e di gambe aperte mi faceva sentire stuprata. Quel punto esclamativo, poi – un fallo, un’erezione – rafforzava l’idea dell’abuso.

Non lo volevo. Non lo volevo e non lo voglio. È cosa di vecchi, un laccio scorsoio, una sutura dal cuore alla fica. Odora di morte, di poltrone ingiallite di ospizio. Non è cosa di corpi infuocati dal sangue, né di menti incontenibili, abili nello spezzare ogni catena. Non è cosa di carni giovani più inclini alla voluttà che al sacrificio, né di spiriti indomiti, ostili alla rassegnazione. Non è cosa che si possa dimenticare con leggerezza…” ho scritto poco dopo il cambiamento avvenuto nella mia vita. Poiché il cambiamento aveva a che fare con qualcosa che veniva da dentro, come i sentimenti. Con la nostra matrice, l’elemento essenziale alla vita: l’acqua. Il fluido della metamorfosi. 

In quella situazione aggrovigliata di tubi e di emozioni, ho atteso che il tempo cambiasse anche me.

Stamattina è venuta l’infermiera. Viene una volta al mese per sostituire il catetere vescicale. Ha sfilato quello vecchio e introdotto quello nuovo mentre parlavamo del ritocco al naso. Subito dopo mi è salita la febbre. Può capitare. Talvolta basta una sola dose di antibiotico per ritornare a star bene. 

Il mio corpo è cambiato. Ora accetta l’oggetto estraneo che gli viene spinto a forza dentro e lo custodisce come un figlio. Sono cambiata anche io. Ora, quando guardo l’oggetto estraneo che mi entra dentro le viscere, mi pare di vedere un prolungamento del mio corpo. Un pezzo di me. E so che nonostante la febbre, le medicine, le precauzioni quotidiane e quelle più rigorose durante l’attività sessuale, lo posso dimenticare con una limpida e fluente leggerezza. 

L’abilismo vol. 2 – 7 agosto

No, questo non è un comune articolo sull’abilismo — che peraltro io stessa fatico a inquadrare e a circoscrivere entro un significato nitido, senza sbavature.

È una confessione, un bisbiglio che via via si fa voce sicura e fiera. Un parlare sommesso che prende velocità dalla fronte e raggiunge il suo picco sulle linee morbide delle labbra.

Non sono nata con un bel naso — nemmeno con un seno prosperoso, se devo essere onesta — e non sono nemmeno nata forte e determinata. Ho imparato dalla fragilità a farmi strada nella vita, a non abbassare lo sguardo di fronte ai passanti in strada, a esporre le mie ragioni senza avvampare in volto. Ho certamente appreso di essere forte il giorno in cui ho visto nella mia debolezza un punto di forza. Allora, ho finalmente compreso a dare il giusto peso alle convinzioni altrui, a non esserne intimorita. A non sentirmi un pulcino indifeso, ancora invischiato nell’albume, un attimo dopo la schiusa.

Ho accettato di non avere un bel naso. Tuttavia, questo non si è tradotto nel paternalistico “piacersi per ciò che si è”. Ho accettato di non avere un bel naso e di volerlo modificare. La medicina estetica non è mai stata un tabù ai miei occhi, qualcosa da biasimare o peggio da nascondere.

Eppure, prima di conoscere Luca Cravero*, innumerevoli, dotti specialisti alla mia richiesta tentavano in modo maldestro e infelice di dissuadermi. Una lunga sequenza di: «Con i problemi che ha Lei, non vada a prendersene altri!» ancora riecheggia tra le mie sinapsi, ammutolendo ogni altra voce. Tagliandole l’ugola per impedirle di esprimersi. Certo, qualunque altra voce con la facoltà di dire la sua, avrebbe replicato con un volgare benché eloquente gergo di strada, ma appunto quelle affermazioni così ingenue e stupide recidevano le corde vocali come la lama di una sciabola.

Una bella dose di abilismo trasuda dal suddetto pensiero. Ed è più pruriginosa di una carezza sulla testa, più avvilente di un clown in un reparto ospedaliero per adulti, più ingenua di un cantastorie che, con una mano sulla chitarra e una sul cuore, continua a raccontarsela e a credere che la propria musica allieti l’anima altrui anziché la propria.

I moralisti, i feticisti del politicamente corretto si fermino qui. Non leggano oltre.

Perché oggi voglio mostrare, nel mio piccolo, che le loro innocenti certezze abiliste vanno prese, con il massimo rispetto, per ciò che sono: carta da toilette da gettare nel wc dopo l’uso. E con orgoglio intendo confidare che oltre al naso — ritoccato già tre anni fa — oggi ho voluto rivedere anche il profilo delle labbra.

Sì, ho una grave patologia neuromuscolare, un catetere vescicale a permanenza, utilizzo un respiratore praticamente ventiquattro ore al giorno, e ho il naso rifatto e le labbra rimpolpate. E, naturalmente, un bel po’ di carta da toilette da gettar via (dopo averla usata, s’intende).

https://lucacravero.it/

Il sapore dell’anice – 5 settembre

Ieri a svegliarmi è stato un incontenibile entusiasmo, un pulsare sordo e incalzante sotto il costato. Mai aprire gli occhi sul soffitto bianco della camera è stato tanto immediato. Ho guardato la finestra. Entrava una luce intensa attraverso le persiane: non avrebbe piovuto. Da quando il clima ha finito per condizionarmi l’umore, confido spesso in una tacita complicità meteorologica. Eppure amo la pioggia. Il ticchettio delle gocce sui vetri dell’auto, lo scroscio dentro la grondaia, lungo la catena di ferro arrugginito che scende tintinnante nel pozzo, e poi l’odore dell’erba fradicia, le pozzanghere in cui saltarci dentro, gli acquitrini su cui beccheggiano foglie e petali strappati al vento. Quell’odore di acqua e d’infanzia, reminiscenza di antri acquosi e muschiati, di abisso e di alghe, è un forte richiamo alla primordiale umidità uterina, quel lento sciabordare di liquidi contro tessuti, dove si accresce il frutto di ancestrali semi: lo schiudersi della notte arcaica. In un balzo temporale millenario, tra viluppi di viscere e filamenti mucillaginosi, restare in silenzio con la fronte contro il vetro a osservare la pioggia è come spingere lo sguardo dentro la genesi della materia dalla materia senza comprenderne appieno le dinamiche sottese.  

Più che scrutarla, tuttavia, la pioggia adoro respirarla. Odorarne il timbro terroso e pungente che segue al temporale, l’afrore di stanze rimaste chiuse per anni. Ricorda i viluppi dell’amore carnale. Il sentore di palustre, di primitivo, di batterico. Legame con la propria nascita, il cordone con cui la Madre tieni avvinto a sé ogni figlio. Eternamente. 

Eppure ieri la pioggia non l’avrei gradita. Speravo in una giornata assolata, da trascorrere fuori: l’atmosfera ideale per una merenda seduti sotto il patio in giardino. Non ci sarebbe stato alcun imprevisto a sconvolgere i miei piani. Ne ero certa. L’aria fresca del mattino, rapidamente entrata dalle finestre spalancate, si è diffusa nella stanza. Le lenzuola rinfrescate facevano raggricciare le dita tra le lenzuola. Allora, indolente ho afferrato il cuscino poiché la sensazione di soffice sotto i palmi mi è sempre parsa il metodo migliore per iniziare la giornata.

Lui dorme fino a tardi, sicché a me resta il tempo di passeggiare nel quartiere con la gatta che mi segue curiosa, e intrattenermi in lunghe telefonate che possono concludersi in modi imprevedibili. Quando si sveglia di solito è ora di pranzo. Perciò non ci è voluto tanto affinché la giornata declinasse verso il tardo pomeriggio. L’ora più attesa. 

«Mi hai promesso una partita a scacchi!» Lui non si è fatto pregare. Accanto alla scacchiera, un vassoio di paste e tre tazze di tè nero. La varietà di dolciumi invitava gli olfatti più sensibili a riconoscere l’aroma della pasta di mandorle, dei pistacchi, del cacao e delle innumerevoli creme, vaniglia o gianduia, catalana o chantilly . 

«Io e Clara ti sfidiamo: due contro uno!» So di essere una schiappa a scacchi, perciò ho giocato la subdola carta dell’alleanza femminile per non finire sotto scacco matto alla prima mossa.

«Vuol dire che vincerò più lentamente…» ha replicato lui con un sorriso sornione. Una tale esternazione aveva il sapore dell’anice. Il pensiero è volato, in quell’istante, al mese appena trascorso e all’intimità dei rapporti umani: ero certa che se avessi potuto avvicinarmi all’agosto ormai andato fino ad avere il suo respiro sulle labbra avrei sentito l’odore intenso, dissacrante dell’anice stellato. Ho avvertito il tipico retrogusto dolciastro che evocava visioni di scrigni chiusi da tempo immemore e di parole che anche se taciute non perdono l’aroma fragrante e vivido con cui le ricordiamo, giorno dopo giorno.

Nuda – 31 agosto

Era il primo giorno d’estate. Il silenzio, spezzato dal frinire dei grilli, odorava di erba e candele alla lavanda — blando rimedio, quell’anno, all’orda di zanzare che aveva invaso il paese e colpiva con aggressività di demone affamato ogni lembo di pelle scoperta giungendo finanche a martoriare quella nascosta dagli abiti. La canicola, di certo, non aiutava: la sensazione claustrofobica di umidità nell’aria ci rendeva tutti prede appiccicose e sanguigne al cui richiamo non c’era zanzariera, candela o fiamma in grado di difenderci.

Chiusa nella mia camera, raccontavo al mio fidanzato dell’esame di anatomia umana e di come il professore fosse stato simpaticamente scorretto nel chiedermi come prima domanda di identificare e poi descrivere quegli organi a forma di fagiolo che mi aveva posto sotto il naso. Certo, non potevano essere reni, quindi dovevano essere per forza testicoli. “Carino il prof” avevo pensato “che scherza sul mio cognome con subdola autorità di docente!”. Tuttavia, il libro di anatomia lo avevo studiato così a fondo da ricordarne le didascalie e quindi al prof non era rimasto che stampare un bel 30 e lode sul mio libretto universitario, con buona pace dei coglioni (quelli sezionati sulla cattedra e intrisi di formaldeide e quelli che alla cattedra ci stavano seduti).

Parlavamo e intanto — forse complice il caldo — mi era baluginata nella mente l’idea del mio corpo nudo. Come non avevo mai voluto vederlo e come probabilmente non lo avevo mai davvero visto. Essere nata con una patologia muscolare degenerativa aveva modificato la mia fisicità fino a renderla imperfetta, lontana anni luce dai canoni estetici ai quali i nostri occhi e i nostri cervelli erano abituati. Per questo, negli anni difficili dell’adolescenza avevo maturato un vero e proprio ribrezzo per il corpo — poi, fortunatamente, mutato in accettazione e fierezza — tanto che non perdevo occasione di ferirlo e nasconderlo.

Quella sera con il ronzio penetrante delle zanzare nelle orecchie e il fuoco dell’estate che mi rigirava sulla graticola come una pietanza per palati non troppo raffinati, avevo visualizzato la mia nudità e ne ero rimasta attratta.

«Amore» mi ero affrettata a condividere «ho voglia di posare nuda…beh, diciamo seminuda, insomma una cosa artistica…»

Lui aveva annuito dimostrando di aver compreso il mio bisogno. «Se non ora, quando? Ora è perfetto, l’età è dalla mia parte» incalzavo, con un’euforia effervescente e infuocata «ci sono le idee, la voglia, e soprattutto c’è il corpo. Lo voglio fare… chiamo subito Margherita*!».

Basito ma felice aveva lasciato lo congedassi e telefonassi alla mia amica. Con grande sorpresa non ero stato necessario spiegare molto, Meg immaginava da tempo che presto io e lei avremmo collaborato alla mia crescita interiore e sociale. Sì, perché il mio corpo liberato dalle catene non sarebbe rimasto rinchiuso in uno scrigno come qualcosa di cui vergognarsi. Avrebbe respirato a fondo, si sarebbe riempito il ventre di nutrimento, avrebbe parlato anche, con garbo e delicatezza ma con la potenza di un urlo.

L’ho fatto per imparare a vedermi. Per far pace con la ragazzina che voleva mutilarsi e diventare talmente piccola e insignificante da non essere vista. L’ho fatto perché Meg, con la quale all’epoca mi perdevo come scie di fumo in lunghi e abissali simposi filosofici, è stata dalla mia parte fin dalla prima maglietta sfilata e dal primo paio di jeans abbassati. L’ho fatto per far parlare il mio corpo e quanti lo vedevano. E continuo a farlo con la speranza che un peccato di vanità possa contribuire a far luce sugli aspetti meno visibili e talvolta scabrosi della disabilità che attendono, nascosti dal vestiario o da quello più pesante del pregiudizio, di essere visti e capiti.

*Margherita Riccardi, restauratrice, pittrice e donna di inestimabile talento.

Un cervello “molotov” – 10 agosto

Si dice che persone sottoposte a forte pressione vadano incontro al burn-out, ossia al fenomeno in cui si va letteralmente in tilt a causa dello stress. Una sorta di campanello che esplode in faccia al visitatore, un lampione che prende fuoco e con effetto domino incendia tutti gli altri finché il quartiere avvampa come un falò estivo.

Ecco, oggi è successo a me: sono deflagrata e ho incenerito i volti costernati dei presenti. Gli impegni incessanti, il caldo afoso, il ronzio del ventilatore, la routine della penombra strategica per tenere fuori il caldo riparandosi dal sole, delle abluzioni rituali per rinfrescare momentaneamente la pelle prima di avvertire un caldo ancor più intenso, e quella dei piatti freddi consumati dentro un forno crematorio con l’illusione di poterne fare una sala da pranzo, sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le radici del malessere son ben più profonde e arcigne come grinfie di suocere pedanti e insidiose. Tuttavia, non ve ne parlerò adesso.

Oggi voglio solo mostrarvi quel lato umano che spesso a noi, individui con gravi disabilità, tocca nascondere dietro un bel sorriso per fare star meglio chi, leggendo, sente di aver trovato chi sta peggio di lui e che tuttavia non perde mai la forza. No, non è onesto darvela a bere (in verità, non ci ho mai nemmeno provato).

Anche io perdo la forza e stasera ci ho rimesso anche una fetta di testa. Capita, tutto qui. Capita a tutti. Anche a noi, creature sfigate eppur piene di voglia di vivere.

Chi non conosce il termine “abilismo” e il significato sotteso, probabilmente si starà grattando la testa con aria paternalistica e penserà tra sé che se la mens è sana in corpore sano, è naturale che in corpore storpio la mente accusi qualche disturbo. Ma chissenefrega! Stasera sono detonata come un ordigno nucleare e ho infranto vetri, sventrato casa, fatto esplodere il tetto — tegola dopo tegola — frantumato ogni piastrella, polverizzato le porte.

E voglio raccontarvelo perché, ben lontana dall’essere perfetta, non sono altro che una donna con una disabilità grave e un cervello frizzante, pieno di idee e, talvolta, gonfio di paturnie ormonali e aneliti d’oblio. Un cervello “molotov” ad alto rischio di innesco.

Fotogrammi – 8 agosto

Sono queste le ore che prediligo: quando il crepuscolo silenzia il paese e il prato deserto riverbera le luci calde del giorno che si spegne.

Le mie ore preferite, anche oggi che non sto bene. Vivere con una malattia neuromuscolare scandisce il mio tempo ed è inutile negarlo. Ci sono giorni di sole da passare all’aperto e giorni di sole da trascorrere chiusa in casa. E poi ci sono giorni in cui bere un cocktail in un locale retrò della mia amata Torino, e giorni in cui dissetarsi da una flebo di soluzione fisiologica. Una semplice influenza può avere lo stesso effetto di uno Tsunami.

Quando non riesco a concentrarmi sulla scrittura mi rivolgo alla musica, ma questa tocca sempre corde troppo profonde e a meno che non abbia il ritmo vivace e malandrino dello swing o la sensualità carnosa e libertina del reggae, mi fa tristezza e devo spegnerla. Perciò passo molto tempo a calcare il perimetro della casa: salone, cucina, camera da letto, corridoio. Vago come se fluttuassi fuori dal corpo. Percorro lo stesso cammino finché le forze mi vengono meno. Muovermi mi aiuta a pensare alle cose belle. E a sentirmi viva. Conosco ogni piastrella, ogni crepa sul muro, le ragnatele dietro i bastoni delle tende, i nascondigli della gatta. E quando mi stanco di vagare o semplicemente quando giunge l’ora della flebo, accendo la tv e cerco un film. Sono cinefila fin dagli anni in cui rimasi affascinata dall’idea che dentro lo schermo potesse esistere un mondo parallelo, una realtà misteriosa e ipotetica come il multiverso.

Guardo e intanto immagino la mia guarigione: un salto in una dimensione in divenire, dove i miei capelli sono puliti, indosso un paio di jeans attillati e una maglietta con uno scollo profondo. Quello scorcio in cui osservo la vita di qualcun altro è un calcolo matematico che approda a un risultato tanto atteso.

Una possibilità. La stessa che ha il mio corpo di incarnare un’identità diversa in un mondo sconosciuto.

Gusci – 3 agosto

In questi giorni di caldo afoso, il corpo stremato dalla canicola si rivolge alla mente nel tentativo di rivivere la frescura del tramonto nel bosco.

Affiorano, come bolle d’aria sulla superficie liscia di una pozza d’acqua, visioni pregne di ombre e lunghi fasci di luce che bucano il fogliame per allungarsi sul prato: dita di luce che sembrano aggrapparsi alla terra prima che la notte le ingoi. Rivedo le scarpe gettate sull’erba e i miei piedi solleticati dagli alti steli e dai minuscoli insetti a cui ho disturbato il sonno. Rivedo me stessa, in cerca di risposte: «Perché della ragazzina timida e vulnerabile che ero un tempo non è rimasto che un guscio vuoto di noce?» Non sono la sola a domandarlo, spesso anche chi mi conosce da tempo se lo chiede. Le esperienze vissute, mi dico, han segnato la mia crescita, quel passaggio da seme acerbo a gheriglio carnoso dal sapore lievemente amarognolo, di corteccia e di midolla.

Si è vulnerabili finché la vita te lo concede, finché la vulnerabilità non diventa una caratteristica venefica, una cellula mutata che aggredisce le cellule sane di un corpo. Un cancro. Allora, devi cercare di estirparla, strapparne le radici con mani rapaci, aggressive come artigli, grosse come sarchiatori.

«E che resta della persona dopo questo barbaro atto di ripulitura?»

Resta la carne. Quella sopravvissuta, indurita dal tempo e scurita dal sole. Quella che dà vita al pensiero nel labirinto cerebrale, quella dei circuiti riverberanti. Quella che cerca linfa dal terreno dissodato e nuovamente fertile.

Quella meno vulnerabile e meno fragile, ma pur sempre materiale organico. Carne.

Estate 2020 – 29 luglio

Questa estate ha il sapore della resina succhiata dagli aghi dei pini, all’ombra dei nocciòli. Odora di gelsomino e di bardana cresciuta spontanea sul muricciolo di pietra, lungo la strada che sale la collina.

Questa estate ha le sembianze della roccia sbozzata per liberare la bellezza dalla materia, odora di polveri di gipsoteca.

È tempo di rinascite, di letti di sarmento su cui addormentarsi al tramonto e risvegliarsi all’avvampare dei falò, sotto una luna aguzza metà satellite e metà falce, metà voyeur pallido e innocente e metà lama sporca di sterpi e di carni.

Si avverte che nelle parole c’è qualcosa di impudico. Più che nei gesti.

È un’estate infida, luccica come gemme preziose nascoste dentro tane buie di lupo. È l’estate dell’aria che da fonte di vita è diventata un’arma potentissima fautrice di morte. È l’estate della politica del vivere sul filo del rasoio, tra negazionismi e maschere premute sui volti come una seconda pelle, un filtro per virus mutevoli che abitavano questa terra ben prima dell’arrivo dell’uomo. È l’estate dei divieti che rendono più bella un’ora sotto il sole, in mezzo a un campo da cui non si riesce a scorgere l’orizzonte e nel quale, se vuoi sentirti libera, devi alzare gli occhi al cielo e confidare nello Spazio profondo dove non esistono mura, né soffitti o aria contaminata da assassini ancestrali.

É l’estate della mia rinnovata voglia di scrivere e di respirare senza paure.

Il desiderio s’incarna – 28 luglio

Ecco: il desiderio s’incarna. È un fascio di nervi che contrae le carni, un’idea che percuote la mente, la sfinisce sotto i colpi.

Dalla cucina giunge l’odore familiare del caffè che gorgoglia sulla piastra elettrica del piano cottura. Non abbiamo voluto una di quelle macchine per il caffè espresso, quegli ingombranti marchingegni che spremono nettare da futuristiche capsule. A noi piace macinare il chicco e farne polvere per infusi alchemici. Odorarne manciate generose prima di interrarlo dentro il filtro della moka. Il fuoco ne estrarrà la linfa.

«Amore, dove ho messo la maglietta blu con Homer Simpson che divora una ciambella?»

Sono le 7.00 del mattino e io riesco ad aprire solo mezzo occhio sulla sua faccia curiosa, di animale in attesa di un segno.

«Nell’armadio…» bofonchio con la voce impastata di sogni.

«Ma dove?» incalza mentre allunga una carezza sui miei capelli.

Mugugno che non ricordo, voglio dormire, ho sonno. Ma ormai sono sveglia, la camera è pregna dell’aroma color ebano dei miei risvegli con lui.

«Dopo cerco meglio» conclude «forse è dentro un cassetto». Tace, poi riprende a parlare: «Dobbiamo comprare delle ciambelle!» Mettere in parole il primo pensiero che s’affaccia alla mente è il suo modo di rivendicare il proprio essere al mondo. E di frangere le palle altrui, anche.

Sono sveglia, talmente sveglia da notare i raggi giallognoli che filtrano dalle fessure tra le stecche delle persiane chiuse. È una giornata assolata, con il cielo terso, capace di ingannare gli animi in attesa dell’estate. Improvvisamente mi avverto felice. Ho fame e non vedo l’ora di stringere tra le mani la mia tazza di tè nero con una nuvola di latte e di affogarci i frollìni al miele, seduta al tavolo di fronte alla grande finestra che s’affaccia sul giardino. Tuttavia, il sonno è duro da scacciare e allora mi stringo nelle coperte, strofinando i piedi sulle lenzuola tiepide e lisce. Sbadiglio.

«Amore, io vado. Ci vediamo giovedì!» annuncia, infilandosi le scarpe.

La valigia è già pronta ai piedi del letto.

Ho voglia di alzarmi e iniziare una nuova giornata, riappropriarmi delle carte abbandonate sullo scrittoio la sera prima, accendere il notebook e dare la pappa alla gatta che attende pacificamente sulla soglia della camera. Il desiderio è un seme pronto per la tostatura, un piccolo nocciolo in cerca di calore.