Giornata Mondiale della Disabilità – 3 dicembre

Oggi è la Giornata Internazionale della Disabilità. Una giornata che sicuramente fa riflettere molti di noi.

Personalmente, più che ai traguardi da raggiungere — tanti, tediosi, urgenti — la celebrazione odierna mi porta a pensare alle numerose mete raggiunte nel corso degli anni. In particolare, a quelle linee d’arrivo che non avrei mai scommesso di poter varcare.

A quelle dello scorso ottobre, ancora umide di lacrime; a quelle che mi hanno letteralmente sollevata dall’ostile convinzione che solo le braccia di mio padre potessero alzarmi dal letto e sedermi in carrozzina. E che mi hanno insegnato a fidarmi delle mani altrui e ad affidarmi a esse con leggerezza di piuma: un volo perpendicolare alle mie paure più castranti e minacciose, sostenuta dall’imbragatura del sollevatore elettrico come in una parabola aerea: decollo, trasvolata, atterraggio.

Ora so che posso dipendere più da me stessa e meno dagli altri.

Questo non significa che in futuro non avrò più bisogno di assistenti, ma che potrò essere più libera con il loro aiuto.

Ecco, la ricorrenza odierna voglio dedicarla alle due giovanissime donne che hanno trascorso con me questo periodo, accettando di scendere a compromessi con la loro libertà in virtù dei più lunghi e faticosi turni di lavoro. E che hanno scelto personalmente di sacrificare la loro vita familiare per permettere a me di abituarmi a questa nuova esistenza di uccello adulto, pronto a spiccare il volo.

Alhamdulillah, miei preziosi gigli del deserto.

Scommettiamo? – 26 novembre

L’esercizio fisico mi ha sempre fatta sentire bene, a mio agio, in perfetta sintonia con il mio corpo. Mi ha fatta sentire meno malata, meno “incapace”… Perché detta fuori dai denti, è così che si percepisce la debolezza fisica: qualcosa che ti rende inefficace, inutile, incapace, appunto. Per questo mi ostino a non voler dimenticare i movimenti che nel corso degli anni la malattia ha fatto sì che smettessi di compiere. E con la stessa ostinazione di mulo matto e testardo (avete letto bene, la metafora si addice a perfezione) cerco con ogni mezzo di mantenere in forza i muscoli non ancora intaccati così in profondità dalla perdita di vigore e di volume.

«Perché lo fai se tanto sai che la malattia è progressiva?» mi ha domandato più volte qualche ingenuo (e pure un po’ sfigato) conoscente.

Beh, innanzitutto lo faccio perché è il presente a contare, il qui e ora, l’attimo che sì, è fuggente, ma impollina il futuro, getta le fondamenta per il domani. Se il domani non arriva poco importa, io mi sono goduta l’oggi. Tuttavia, se arriva io non mi farò sorprendere spoglia di stimoli e di energia: sarò fuoco come ora, brillamento solare fertile e vitale.

Parlando con un’amica, oggi pomeriggio, l’ho udita trasporre in parole quello che è in fondo il mio pensiero: «La razionalità è il motore del progresso, ma il cuore è la sola matrice da cui possa originare una crescita consapevole, limpida, collettiva».

Il mio cuore continua a sperare nel domani, convinto che il tempo — seppur adesso, in questo infinitesimo di secondo — sia dalla mia parte. Complice e benevolo. Allora afferro il manubrio da 500 grammi (il massimo che il mio braccio destro seppur a fatica riesca a sollevare) e inizio il ciclo di fisioterapia quotidiana.

Oggi voglio sentire il mio corpo “capace”, voglio percepire lo sforzo e il momento in cui il muscolo sta per cedere. Voglio avvertire la stanchezza, l’incredulità di quella zona d’ombra della mente che scommetterebbe una manciata di neuroni sui miei fallimenti, quella che mi dà per vinta prima che la sfida abbia inizio, quella a cui piace sentirsi sconfitta.

Siano aperte le scommesse!

Un ringraziamento speciale va ad ASAMSI – Associazione per lo Studio delle Atrofie Muscolari Spinali Infantili, per la box FisioTè che ha voluto regalare ai soci al fine di promuovere l’ostinata caparbietà del loro mulo interiore (matto e testardissimo, s’intende).

Perle – 23 novembre

Nella stanza sta rabbuiando e io, finito il lavoro che oggi è stato più duro del solito, avverto un erompere di parole dalle mani (sì, non dall’ugola, come è facile immaginare). Guizzano dai polsi lungo la miriade di ossa del palmo, poi rapide s’infiltrano dentro le dita: vanno scritte!

Al collo indosso un filo di perle appartenute a nonna, le tocco con l’indice della mano destra, una ad una, affinché le parole che attendono sotto l’epidermide trovino la stessa scorrevolezza ed escano pulite, glabre, innocenti.

Mia nonna ha vissuto molto, anno dopo anno senza mai invecchiare realmente. Certo, il suo volto era disegnato da un reticolo di rughe e le sue palpebre appesantite dalla gravità e dal tempo. Tuttavia, fino al giorno in cui è spirata, il suo volto è rimasto limpido, ravvivato da un filo di perle al collo; è rimasto un volto senza età, seppur pregno di esperienza. Un’esperienza consapevole, lucida, anch’essa senza età.

Così mi sento io: uno spirito che abita un corpo senza mai neppure sfiorarlo. Per quanto le mani abbisognino di sentire, toccare, conoscere, quella che sperimentano ogni minuto di ogni giorno è un’arte rasoterra che nutre lo spirito pur lasciandolo intatto. La mente non si piega ai bisogni della carne. Resta austera e inavvicinabile come una vecchia signora i cui occhi invitano a sedersi e ascoltare. La storia è più o meno sempre la stessa, ma ogni volta che l’anziana donna la narra essa assume sfumature più intense, si fa nitida e fruttuosa di dettagli. Come se il tempo che, appunto, lambisce il corpo ma non lo spirito, in verità arricchisse in un modo del tutto inaspettato quel respiro — mente, anima — senza mai urtarlo. Quasi vi fosse un passaggio metafisico tra il tempo e lo spirito in cui molecole, atomi ed elettroni si facessero eterei come pensieri. Senza massa. Fantasmi.

Ecco, le mie parole siano senza peso, spettri che sussurrano silenzi nel silenzio della stanza. Non tocchino per non ferire, non sfiorino per non contaminare. E aspettino sulla punta delle dita che le scuse tanto attese dalle mie orecchie diventino ombre e poi tenebre, prima di essere scalzate da desideri più radiosi, opalescenti come albe.

Perché, in fondo, ciò di cui ho bisogno è un temperato, quieto arricchimento dello spirito in questa realtà dove le parole — purtroppo o per fortuna — hanno un peso e possono far male.

Stasera nelle mani custodisco il potere della soavità e della levigatezza delle perle e voglio farne dono a tutti coloro che stanno leggendole. Anche ai porci.

Undici mesi – 23 novembre

Quest’anno sono scivolate via dalle mie mani tante persone. Sono sgusciate fuori dalla vita proprio come ci erano entrate, in un infinitesimo di secondo. Il primo e l’ultimo respiro si sono sfiorati un attimo prima di dissolversi nella materia oscura.
Una di esse, in particolare, mi sovviene di celebrare con ciò che — forse — so fare meglio di altro: la scrittura. Il solo mezzo capace di spingermi fuori dal corpo con la stessa intensità di un parto, fino a rendermi libera e leggera come l’aria di un aprile assolato. Lo voglio celebrare con le parole, quelle affilate e fredde come lame — ora non è tempo di lacrime, ma di desideri, carne, sangue, sesso, perché la morte sembri lontana. Ma lui era un uomo che al gelo dell’acciaio anteponeva il tepore del sole mattutino sui vetri di una finestra. Non era un uomo comune. Sapeva che un piccolo piacere capace di riscaldare le carni avrebbe disarmato una creatura bruciante di rabbia. Allora smusso il filo della lama, lo arrotondo come un’onda.
«Sei morto a inizio anno. Quando l’ho saputo sono uscita in strada e ho cercato il sole di gennaio che, troppo basso e gelido, fa bruciare gli occhi e non riscalda. Ho pensato che al fastidio delle palpebre serrate come scuri che riparano un nascondiglio dalla luce, poco a poco si stesse sovrapponendo fino a occultarlo il piacere dell’immaginazione. Così ad occhi chiusi ho sentito fremere di desiderio il corpo e la mente. Ho visto strade che invitano a percorrerle, sentieri dove forse riconoscerò le tue impronte e le seguirò; ho sentito il profumo del mare, l’alito salmastro che accompagna il beccheggio di un natante; ho visto i vicoli di un antico borgo e una stradina risalire la collina fino a un maniero. Ho visto una radura in cui correre a perdifiato finché l’idea del volo non prende forma, ho respirato l’odore dell’erba dopo la pioggia e sentito gli steli solleticarmi le palme dei piedi. Mi sono sentita felice. E amata. Ho riaperto gli occhi e rivolto lo sguardo verso l’ombra, lungo il muricciolo sotto la grande quercia. E finalmente, sono riuscita a dirti addio.»

Sullo sfondo, dipinto dell’amico Eugenio Guarini. A ricordo di un’amicizia senza tempo.

ZACCHETE! – 31 ottobre

Ho bisogno di un po’ di leggerezza. Oggi voglio concentrarmi sul presente, sul mio volto stanco ma pronto alla risata (no, non al sorriso bensì a quel ridere senza freni che per un momento ha la forza di cancellare i brutti pensieri, l’ansia, la rabbia di animale in gabbia), sulle persone che ho intorno, sul parrucchiere che, obbligato a indossare mascherina ffp2 e visiera, non ha rinunciato a correre in mio soccorso. Sì, perché dovete sapere che negli ultimi quindici giorni ho avuto la testa talmente satura di paure, pensieri rivolti a strategie di sopravvivenza che mi sono letteralmente rifiutata di pettinare i capelli… Il motivo non lo so spiegare. Forse è stato un gesto apotropaico, una sorta di espediente per trasformare i problemi in una matassa da poter dipanare. E la matassa si è formata… solo che è diventata un enorme dread intricato e inespugnabile che non era possibile districare e di conseguenza — maporcalamiseriaccianera — l’unica strada è stata tagliarlo…
Per molte donne accorciare i capelli non è un atto drammatico. Tuttavia, per quelle come me corrisponde a uno ZACCHETE brutale per recidere il prepuzio alla base del glande; un rituale religioso, psicomagico, dolorosissimo.

Nel video il momento più sacro del rito, quello che ha fatto trattenere il respiro e pregare che le mani dell’officiante — proprio come in una circoncisione — tagliassero appena l’indispensabile.
Nelle foto l’esito post traumatico in odore di Xanax.

Il lazzaretto – 7 ottobre

Cerco di buttare giù una bozza della relazione da inviare ai Servizi Socio-Assistenziali per chiedere di rivalutare il mio progetto di Vita Indipendente e mentre mi arrovello su leggi, norme e temi etici dall’aspetto di statue rinascimentali, inavvicinabili e austere, mi imbatto nel Secondo Piano biennale di Azione per la Vita Indipendente. Lo annuso, ci spingo gli occhi dentro, parola dopo parola. Lo mastico assaporandone il retrogusto d’idillio e di favola d’altri tempi. È perfetto! Nulla che svii il lettore da quel concetto semplice eppure da tutti sottovalutato che è l’indipendenza. Leggo e mi vengono le lacrime agli occhi perché se questo piano venisse concretizzato io sarei libera. Libera. Vi suona familiare questo termine?

Libera, non come mi vuole la Costituzione italiana che all’Art. 13 sancisce l’inviolabilità della libertà umana ma che all’Art. 30 stabilisce anche il dovere dei genitori di mantenere i figli, dovere poi trasfigurato dalla decisione della Cassazione di disporre che in presenza di disabilità i genitori DEVONO farsi carico delle esigenze del figlio maggiorenne in quell’ottica di solidarietà che ispira gli obblighi familiari disposti dal nostro ordinamento. Via via che le parole s’affastellano pronte ad essere incendiate dentro un calderone, mi ritrovo a constatare che nessuna libertà mi attende. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti quei principi costituzionali che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini? Sogno l’indipendenza ma vivo in un paese che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, e nel quale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Sogno la libertà ma devo accontentarmi di un’assistenza parziale e lacunosa; devo accettare di rinunciare a “vivere” per fare stancanti colloqui con aspiranti assistenti che all’ultimo mi diranno che non se la sentono; devo rinunciare alla serenità per rivendicare il mio diritto alla libertà.

Sogno la libertà ma con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche il legislatore mi ha rispedita nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi (crippled, pardon) era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

Perché al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Norme e leggi scorrono sotto i miei occhi producendo lo stesso attrito di una striscia di carta abrasiva sulla pelle e mi riportano nel rinascimento, dove Gregorio Magno s’affretta a segregarmi in appositi lazzaretti sociali (che oggi si chiamerebbero Rsa) con la speranza che Peste (oggi Covid19) mi colga e ponga fine alle mie meritate sofferenze terrene.

Un autunno magenta – 3 ottobre

No, non mi sono ancora abituata all’autunno! Ad ogni pagliuzza di sole che sbuca dalla coltre bigia del cielo io inizio ad avvertire un formicolio dietro gli occhi, giù nella corteccia cerebrale, fin dentro gli impulsi elettrici delle terminazioni nervose. Voglio uscire! Una manciata di minuti, un quarto d’ora, un pomeriggio intero…

L’eco di morte che nell’ultima settimana ha accompagnato ogni mio spostamento— mentre attraversavo il corridoio per entrare in salotto, nel bel mezzo della cena, nell’istante in cui il timer dello spazzolino elettrico indicava che erano trascorsi i due minuti della pulizia orale — si mette in disparte: all’ombra subentra la luce accecante di una stella che arde, incandescente, come il metallo dentro una fucina. Una luce capace di generare la vita. Allora, il mio umore color piombo si colora di magenta, ravvivando la pelle e lo sguardo.

«Se potessi scegliere in che modo morire, vorrei farlo sotto il sole tiepido di settembre… » confido alla mia silenziosa amica.

Penso, abbassando lo sguardo sul maglione traforato e vivido come il mio sentire, che quel giorno mi piacerebbe indossare un abito dal colore intenso, vivace, allegro come il mio essere più profondo. E intanto mi sale in gola un amore sconfinato per la vita, per questa fulgida esistenza color magenta, per questo cammino che non può e non deve mai anteporre la scelta di vivere a quella di morire, legittimando la prima e ripudiando la seconda. Avverto tra le corde vocali e le mucose umide della laringe un amore incontenibile per la libertà, un diritto che ogni essere umano non deve mai dare per scontato, né credere di aver mai realmente raggiunto.

Vestita di magenta — colore che nasce dalla mescolanza tra il rosso e il blu — non ho più dubbi.

C’è una parte di me in cui regna la dittatura del sangue, una parte che pulsa in sincrono al cuore, che nutre le carni, le infiamma. É la parte rossa che guarda al domani con entusiasmo, che scrive per aver sentito le parole vibrare sotto il costato. Quella che di fronte a una finestra sente l’esigenza di spiccare il volo, lanciarsi verso l’orizzonte per un perentorio desiderio di libertà.

Poi c’è l’altra, quella blu, quella che deve contenere l’enorme pressione di questo flusso continuo e irrefrenabile. È la parte a cui tocca il difficile compito di rallentare la corrente, arginare le dirompenti emozioni. Per tentare di dare il giusto equilibrio a quell’impetuoso sentire in cui ogni slancio emotivo è un salto nel vuoto, un volo in picchiata.

Il magenta non si trova all’interno dello spettro del visibile. Non lo troverete mai tra i colori di un arcobaleno. Eppure proprio come la mia percezione della vita — arbitraria ed empirica — il magenta nasce da un’intima interpretazione visiva della luce. È fuoco e acqua. Come me.

E anela alla vita, dando alla morte il giusto grado di vividezza e di luce, l’equilibrio perfetto tra un colore caldo e uno freddo.

Harley Quinn e Joker – 27 settembre

Un weekend insolito, difficile, a tratti insopportabile. Paura, angoscia, rabbia. Oggi un sole caldo riscalda la pietra del pavimento sotto il gazebo e la siepe erubescente del vicino che offre riparo al gatto dal lungo pelo fulvo sotto il suo tetto di foglie.

Lo spirito rinvigorito risucchia quel calore come per osmosi: molecole in movimento per effetto dell’agitazione termica filtrano dall’aria tiepida all’anima. L’anima, qui intesa come psychè che, come la letteratura omerica tramanda, è un elemento freddo pronto ad abbandonare il corpo quando esso muore.

Il sole, tuttavia, oggi ha riportato vita nell’anima gelida che attendeva, muta, sotto l’epidermide, il momento di sfuggire alla carne. Libera finalmente. E con il sole sono giunti i baci, i respiri all’unisono — anemos, per restare in tema classico — la leggerezza dello schernirsi come bambini, quel prendersi in giro frizzante e perfido al contempo…

Papà sta meglio e la nostra anima rifiorita è nuovamente giocosa, vivace, impertinente. Vuole pungolare, rincorrere, ridere di gusto.

«Tu sei la mia Harley Quinn!» dichiara lui festoso.

Mi è stato accanto in questi giorni cupi, tenendomi per mano anche nel sonno. Il minimo che io possa fare è augurare cento giorni come questo al mio amato Joker, folle, imprevedibile e affine stronzetto.

Indipendenza – 27 settembre

Da ieri (e fino a oggi pomeriggio) ho vissuto una delle esperienze più brutte della mia vita. Ho temuto per la salute di mio padre. Il pericolo non è del tutto rientrato, ma spero mi darà il tempo di organizzarmi per trovare una totale indipendenza e permettere a papi di affrontare serenamente l’intervento chirurgico in programma.

In queste ore di pianti senza ritegno ho pensato spesso alle parole di stimati caregiver — Sara Bonanno, ad esempio — e il loro eco nella mente mi ha fatto comprendere quanto io non sia mai riuscita a vivere una vita indipendente completa e soddisfacente. Ho spesso sentito dire che nel nostro paese ai caregiver familiari non è permesso ammalarsi… Vero. Mio padre è colui che non mi ha mai negato il suo aiuto nemmeno se in preda a un bruttissimo attacco di lombo-sciatalgia o a una recidiva di ernia inguinale. È colui che quando mi regge tra le braccia trattiene i gemiti di dolore pur di non farmi cadere e sedermi comoda sulla carrozzina. Non esistono ferie per i caregiver familiari. Mio padre sostituisce le mie assistenti quando sono in malattia, in vacanza, a riposo. Le sostituisce perché spesso non si riescono a trovare altri assistenti disposti ad una repentina sostituzione.

Ho riflettuto molto su questo. E sono giunta alla conclusione che le difficoltà riscontrate nel trovare assistenti personali abbia creato un cordone ombelicale tra me e papà, alla stregua di quello che a suo tempo mi ha tenuta legata a mia madre nel tepore del suo grembo.

Papi è l’uomo più importante della mia vita. Il mio faro, la luce in fondo al tunnel. Papi ha dormito diversi mesi su una poltrona durante i miei ricoveri in ospedale, mi ha alzata e coricata innumerevoli volte in un giorno ogni volta che a causa di un’infezione respiratoria non potevo stare troppo tempo seduta perché da seduta io non riesco a tossire. Ma papi è anche un eclettico, un creativo, un saggio, un fantasioso e delicato umorista. Non prende mai la vita troppo sul serio – quando ero bambina ogni mattina mi svegliava con una canzone e se trovava delle briciole sul mio letto di solito mi chiedeva: “Sei andata in cucina stanotte a prepararti un panino?” Naturalmente io non ho mai camminato… Un giorno, qualche tempo fa, gli ho chiesto di tosare il prato e lui ha chiosato: «Per caso inciampi con le ruote nell’erba?» Papi è il mio papi. Mio. Ma devo imparare a essere più indipendente.

Ps. Per fortuna, c’è chi non è geloso… 😁