Marinai – 25 settembre

Piove da questa mattina, il paesaggio oltre il vetro ha le stesse sfumature bigie del cielo. Nessun rumore oltre allo stillicidio sulle finestre. La sensazione di essere precipitata nell’autunno fagocita i pensieri e il proverbiale buonumore che da sempre, dacché esisto, conferisce la leggerezza di una piuma anche alla più pesante delle croci, lascia spazio a una quiete confortante che non è mestizia bensì pacatezza, soavità.

Getto il telefono sul tavolo e mi volto per cercare nelle geometrie della stanza una forma che mi porti altrove. La trovo. Sopra la credenza indiana una manciata di rose ha trovato riparo dal freddo del giardino dentro un vaso di ceramica grigio antracite. Ne afferro una: voglio scattare una fotografia per ricordare questa giornata che non assomiglia a nessuna di quelle di cui ho memoria. Una giornata di fine settembre, cupa oltre le mura domestiche, ma serena e limpida come una mattina d’estate dentro il petto.

In un attimo non indosso più i miei panni e nell’affresco pompeiano di fronte a me si materializza il mare aperto, l’estendersi delle acque a perdita d’occhio.

«Ho sognato di portarti in braccio in mezzo ai marosi… » riecheggia nel silenzio della casa. Allora riaffiora il ricordo di agosto, dell’abito bianco di cotone, gonfio di vento, del profumo di salmastro sugli scogli. Quella confidenza inattesa era saettata tra le onde a mirare il punto più debole del mio spirito: il bisogno di essere sollevata — corpo e spirito — dalle mani altrui. Un bisogno ancestrale, antico eppure in me così vivo e urgente da essere il cardine di ogni ricerca assistenziale, intima o spirituale.

Quel: «Ti porterò in mare!» aveva la stessa intensità di un giuramento e blandiva il mio desiderio di ricominciare tutto da zero. Risuonava come l’annuncio della mia imminente venuta al mondo. Avevo sentito giungere il momento, quell’infinitesimo di vita in cui il frutto raggiunge la maturazione e senza porsi domande si stacca dall’albero, misconosce il ramo. Così avevo iniziato a sentirmi sospesa, come attaccata ad un filo, pronta a lasciare il mare. Solo che la sensazione era che uscire dal mare volesse dire cadere, precipitare. Pareva che la terraferma stesse in fondo. Non sotto il mare, come un fondale che regge il peso delle acque, bensì fuori, oltre l’acquosità-madre che tutto genera. Me ne stavo appesa, dondolandomi smaniosa di crollare a capofitto, ché la corda a cui ero legata stava per cedere…

«Ti porterò al largo!» aveva promesso: «Sto pensando a come prenderti.»

In quel momento, tuttavia, a cogliermi era stata una paura venefica risalita dal grembo fino alla gola, un’angoscia soffocante che richiamava lo smarrimento dei dispersi. Se una tale promessa non fosse stata altro che superficialità? Un modo ingenuo per nuotare a pelo d’acqua dentro una storia la cui delicatezza era pari, in natura, solo agli esili frutti del tarassaco che un debole soffio d’aria strappa al fusto senza alcuno sforzo? Se così fosse stato, la leggerezza delle infruttescenze avrebbe presto lasciato il posto al peso delle catene. In tanti, infatti, spinti dal desiderio di godere della leggerezza di un tuffo nella brezza estiva hanno promesso ali in vece delle mie braccia e delle mie gambe. Ma ai primi barlumi d’autunno se ne sono dimenticati. Così ha fatto lui.

Continua a piovere. Quella che si profila, ora, sul muro affrescato della stanza è la sagoma scalcinata di un marinaio che rimpiange il destino incerto dei naviganti, la condanna di chi affronta un viaggio dopo l’altro senza inseguire mai una vera meta, una che metta a tacere tutte le altre, l’ultima. Un marinaio deve salpare, lasciarsi alle spalle qualcosa e qualcuno.

Il punto è che stamattina, sotto lo scroscio della pioggia, non provo alcuna tristezza. Questa volta affronto il volto apolide del mare aperto a cuor leggero, con una serenità che mi giunge dal ventre, calda e vellutata. Perché stamattina sento che in questo viaggio il vento sarà la mia altalena, la forza che sospinge il mio corpo e innalza il mio spirito, mani capaci di sollevarmi ben più in alto di ciò che farebbero le braccia altrui.

Zattere – 16 settembre

Uno ad uno abbiamo accolto i suoi rintocchi, li abbiamo trasformati in tanti tumulti che affiorano dalla gola e sciolgono gli occhi. Senza più pupille, né palpebre, ci ritroviamo smarriti nella più cieca delle mappe: il suono delle campane e l’odore di cera frammisto a quello di stoppino bruciato sono segni, indicazioni fumose e disorientanti. La rotta non è mai stata così incerta. 

Mentre la fiamma divora gli ultimi residui di cera, ormai prossimi al buio, proviamo — in modo maldestro e ingenuo — a prepararci al rimestio di carne e spirito. La notte arcaica è pronta a smembrarci. Tengo le braccia avvolte attorno al suo collo in un pervicace abbraccio, unico tramezzo che separa il tepore del letto dall’arsura dell’inferno. Rilasciare le braccia ci farebbe risucchiare entrambi, assieme agli umori rappresi sulle lenzuola, nel nero vortice da cui non vi è ritorno. Perciò lo tengo stretto tra le braccia, e le gambe incrociate dietro la sua schiena somigliano alle marre di un’àncora gettata su un fondale di alghe.

«Settembre è un mese galleggiante. Una zattera in balia della corrente» confesso «Mi rende instabile…»

Dalla torre campanaria l’eco dei colpi, metallo contro metallo, scende fino a lambire l’asfalto e l’onda si propaga oltre le rotaie della stazione ferroviaria; supera i condominii e le siepi del quartiere residenziale e s’insinua sordo tra il sonno e le ciglia sottili del timpano. Sentiamo giungere l’ora. Sul suo volto i lineamenti iniziano a spezzarsi per  cadere a terra come scaglie d’intonaco. Abbiamo desiderato che la vicinanza si traducesse in complementarietà e ora che delle sue fattezze mascoline — dall’ispida e incolta barba che indurisce il mento fino all’asprezza del pube — restano pochi frammenti disciolti nei miei lineamenti femminei, sul letto al nostro posto giace un epicèno. A poco a poco scompaiono anche gli occhi: dapprima l’iride scura, poi le ciglia. Le orbite si fanno sottili fessure prima di dissolversi. 

«Settembre mi fa paura.» incalzo e le parole annaspano nel buio. 

In paese una solenne cerimonia di addio invade la città, battendo le strade e svuotando le case. La gente si accalca dietro al feretro, col passo riluttante della marcia verso l’ignoto. Vi è tra la folla un’empatia fatta di accenni, di mani che si sfiorano, di assensi disegnati nell’aria da brevi oscillazioni della testa o sussurrati appena tra le labbra. Ora che non possiamo più contare sulla vista è l’udito a darci la percezione del nostro essere vivi. 

«Tu la senti?» domando con voce affogata nello smarrimento più cupo. 

Dietro la porta della camera si ode una greve litania di vecchia che salmodia tra le lacrime. I singulti la fanno sembrare puerile. Piange senza ritegno, accanto all’uscio socchiuso. Mi sembra di vederla portarsi le mani ruvide sul viso per coprirsi gli occhi in segno di estrema afflizione. Abbandonarsi alla disperazione l’ha fatta regredire a bambina e poi a inconsolabile neonata. Potrei uscire dalla stanza e prenderla tra le braccia. Cullarla per placarne il pianto. Ma al cordoglio sono capace di rispondere solo con l’amore. Quello più viscerale e ferino. Al lutto non so accostarmi se non stringendo tra le cosce un turgido e vivido principio di vita.

Il corteo funebre si dissolve lentamente all’orizzonte, ma quel senso d’inevitabile epilogo rimane a sigillo della coscienza umana. Perciò ricominciamo, senza occhi e in mare aperto. Qui dove la bellezza necessità di toccare più che di ammirare, e il culto estetico si officia con le mani più che con le pupille.

«Voltami su un fianco, facciamolo come gli animali» imploro.

La vecchia china sul proprio dolore, chiusa in un corpo avvizzito e decadente è la misura del tempo che incessantemente scorre. Biascica che tutto avrà fine. Tuttavia, su questo letto noi interrompiamo la Storia. La distanza tra il vivere e il ricordo di averlo fatto, tra l’esistenza e il vuoto è una misura infinitesima, una dimensione troppo piccola per essere rilevata. Ora, in fondo, è già passato. 

I moti ondosi – 17 luglio

La vista di un prato sconfinato ha da sempre mosso emozioni profondissime. Emozioni incagliate tra lo stomaco e la gola in attesa di un evento che le liberi. Gioia, euforia, gratitudine sono ordigni pronti a esplodere. Capita, allora, che farli brillare sia al contempo liberatorio e fastidioso. Succede che la troppa gioia, mista alle sorelle cariche di esplosivo, nel risalire dalle viscere alla gola mi provochino la nausea. Quasi fossero materiali, concreti e io ne sentissi la grandezza gonfiarmi il petto e poi raschiarmi l’ugola nel tentativo di uscire.

Ma forse è la sola spiegazione fantasiosa che riesco ad attribuire all’attenuazione dei freni inibitori che l’èrompere di queste emozioni provoca. Il non sentirmi più malata, né avvertire più l’urgenza di prendere precauzioni.

La vista di un prato sconfinato è un richiamo a lasciarmi andare, a correre sull’erba caracollando sulle ruote che tra una buca e un avvallamento riflettono sul mio collo il rollio di un natante in balia dei marosi. Se la razionalità prendesse il sopravvento, mi fermerei in mezzo al prato e con una rapida imbardata svolterei in direzione della strada asfaltata. Ma la ragione è un mare dalla superficie piatta che non può competere con la potenza delle correnti marine profonde. Il mio collo viene scosso, sbattuto avanti, indietro, strattonato a destra e a manca finché non arriva la nausea a risvegliare il desiderio di terraferma. Allora, trattenendo gli spasmi dello stomaco, mi guardo intorno con una sorta di vergogna colposa e, lentamente, torno sulla strada asfaltata. Felice.