Una sola carne – 12 luglio

In lontananza il cielo si fa imponente. Come un grido di battaglia ci raggiunge il boato del tuono e nell’aria, rinfrescata dalla coltre cupa che ci sovrasta, già si può pregustare l’odore della pioggia.

Su questa terra han posato i passi creature di cui non rimane più memoria. Han vissuto e poi sono scomparse senza lasciare traccia, tante sono le generazioni che ci separano. Sento nella terra sotto di me il loro respiro, un fiato millenario che ancora racconta della loro presenza.

Forse è questo ciò che mi spinge a scrivere: sfuggire all’oblio. Scrivere su ogni centimetro di epidermide, su ogni brandello di carta, sui muri, sui margini delle pagine, sui Testi Sacri, sui delicati incastri delle sinapsi…

Voglio scrivere dello scroscio della pioggia giunto a sorpresa nel tardo pomeriggio subito dopo il bagliore del lampo. E voglio scrivere della mia natura snaturata, spuria e delle sue pendenze, senza vergogna. Con purezza di bambina.
Voglio dare un volto alle voci che giungono dal sottosuolo e voglio dare un’identità ai campi che ho calpestato, un piede dopo l’altro, fino a sentirne grumi di terriccio umido tra le dita.
“Ho viaggiato moltissimo, benché spesso ferma in un luogo” rifletto e subito il pensiero rimanda al mio sguardo, all’iride scura che quando fissa un punto di fronte a sé si spoglia della dolcezza e risveglia una bestia assopita dentro.
“C’è una parte di me cupa come il colore degli occhi e un’altra limpida, rasserenante, così diversa… “ mi sovviene quasi a rispondere a un dissidio interiore.
Voglio scrivere del paese in cui sono nata, della sua meravigliosa antichità che, sì, talvolta è retriva e bigotta ma pullula di storia e continua a dar voce ai morti.

Un’euforia densa e pulsante distoglie la mia attenzione dal temporale che ormai ci ha raggiunti.
Voglio scrivere del giorno che si è spento con un copioso scroscio di pioggia e del cielo che si è fatto cupo come l’iride e ha aizzato la bestia. Le ha fatto conoscere l’odore del sangue e la tenerezza delle carni. Voglio scrivere del canto a fil di voce di una bambina che con la temerarietà degli innocenti ha avvicinato l’animale e si è lasciata azzannare per mischiare il proprio sangue al suo e divenire una sola carne.

L’alcova – 10 luglio

Passeggiata in Canavese

In mezzo a una radura, sotto un cielo gonfio di pioggia, mi ritrovo a cercare il campo di lavanda di cui tutti parlano. Curva dopo curva la strada, si fa sentiero e poi prato a perdita d’occhio. Il cammino è breve. Qualche passo e il profumo inebriante della lavanda penetra le narici. In un attimo ha raggiunto il cuore e si affanna tra atri e ventricoli con operosità di ape in cerca di nettare. Le gambe nude sfiorano gli steli d’erba. Gli insetti volano a fior di pelle ma sembrano non vederla. La magia di quei lunghi filari dal colore inconfondibile attrae più delle mie cosce succose. Un gradito banchetto se non fosse per quelle infiorescenze a spiga che odorano di Provenza e di saponette e che ricordano le nonne e loro petineuse profumate di lavanda. «Corri che il cielo si fa scuro come questo campo!» giunge la voce di Jasmine a richiamare la mia attenzione. Resto ancora un attimo, non voglio allontanarmi da quell’alcova che sa d’infanzia e di armadi dentro cui giocare a nascondino.