Harley Quinn e Joker – 27 settembre

Un weekend insolito, difficile, a tratti insopportabile. Paura, angoscia, rabbia. Oggi un sole caldo riscalda la pietra del pavimento sotto il gazebo e la siepe erubescente del vicino che offre riparo al gatto dal lungo pelo fulvo sotto il suo tetto di foglie.

Lo spirito rinvigorito risucchia quel calore come per osmosi: molecole in movimento per effetto dell’agitazione termica filtrano dall’aria tiepida all’anima. L’anima, qui intesa come psychè che, come la letteratura omerica tramanda, è un elemento freddo pronto ad abbandonare il corpo quando esso muore.

Il sole, tuttavia, oggi ha riportato vita nell’anima gelida che attendeva, muta, sotto l’epidermide, il momento di sfuggire alla carne. Libera finalmente. E con il sole sono giunti i baci, i respiri all’unisono — anemos, per restare in tema classico — la leggerezza dello schernirsi come bambini, quel prendersi in giro frizzante e perfido al contempo…

Papà sta meglio e la nostra anima rifiorita è nuovamente giocosa, vivace, impertinente. Vuole pungolare, rincorrere, ridere di gusto.

«Tu sei la mia Harley Quinn!» dichiara lui festoso.

Mi è stato accanto in questi giorni cupi, tenendomi per mano anche nel sonno. Il minimo che io possa fare è augurare cento giorni come questo al mio amato Joker, folle, imprevedibile e affine stronzetto.

Leggerezza – 17 settembre

Stasera, in onore di quella leggerezza — o imprudenza, sventatezza, storditaggine o follia — che mi contraddistingue, voglio riproporvi un vecchio articolo che scrissi qualche anno fa. Chiedo venia ai cultori del jazz e a tutti i Borsalini che leggeranno.

JAZZ E ALTRI DEMONI

Dico a tutti i miei contatti che sì, io ascolto jazz e frequento i locali dove fanno le jam session. Anche i muri sanno che sul mio iPod ho tutti gli album di John Coltrane, Miles Davis, Wes Montgomery…sanno che li ascolto anche mentre vado di corpo perché il jazz ti fa figa anche se sei seduta sul cesso.
E quando invito gli amici per un cocktail li porto al Jazz Club e ordino un Cosmopolitan — che poi non bevo perché la vodka mi fa schifo — e di quando in quando esco sul terrazzo a fumare una sigaretta, rigorosamente con il bocchino che fa un po’ porca e un po’ intellettuale, e con le gambe accavallate lascio il piede seguire il ritmo sincopato della musica, gesto che mi consacra hipster agli occhi degli altri avventori.�Perché questo è ciò che voglio: dare l’idea di una che sa, una con la collezione di vinili in salotto, una che sa miscelare i tabacchi per la pipa, una in cui scorre sangue negro, selvaggio, che rivendica l’appartenenza ai bordelli di New Orleans e non a questi salotti con la puzza sotto il naso.

Poi una sera indosso il Borsalino grigio (comprato a pochi euro al Balon e con l’etichetta Made in Taiwan sulla tesa) e sentendomi figa dentro, varco la soglia di un noto locale torinese, in quello stato d’animo vagamente erotico che prepara il corpo ad accogliere la musica. E lì, tra i tavoli e il palco incontro un vecchio amico che, guarda caso, ha organizzato il concerto che sta per tenersi. E che appena si spengono le luci, afferra il microfono e punta gli occhi sul mio volto improvvisamente sbiancato.
«Voglio iniziare dedicando un brano alla mia amica, Tania…» (applausi, mentre io deglutisco nervosamente) «Scegli un titolo!» ordina, e l’intera sala si volta verso di me che sto pregando si apra una voragine sotto il mio culo e mi porti dritta all’Inferno.
«Dimmi!» incalza, sorridendo come uno stronzo idiota.
Mi inumidisco le labbra (cazzo, dove ho messo quel cacciavite con la punta a stella che ora sarebbe perfetto dentro le mie ovaie? Dov’è? Dov’è?)
«Uno qualsiasi…» sussurro, mentre lo sguardo si assicura vi siano uscite d’emergenza nelle vicinanze.
Insiste.
«Davvero, uno qualunque…» balbetto, raggelata.
Silenzio.
Allora, mentre tutti, ma proprio tutti, capiscono che di jazz io non ne capisco un benemerito cazzo, il giovane sul palco, forse pentito di avermi accordato la sua amicizia, porta alla bocca il sassofono e dà il via al concerto.

Harley Quinn – 13 settembre

Ho raccontato della mente molotov e del sotterraneo ribollire di emozioni che fanno eco a un principio di vita vivido e incandescente come magma.

Ma ho tralasciato di dirvi della leggerezza capace di liberarmi dal piombo che certi giorni pesa sulla mia testa, costringendola a chinarsi. Il piombo è il metallo degli alchimisti: può essere tramutato in oro. Chi conosce la mia Torino sa di quale processo sto parlando. L’oro di Torino è un pigmento, una sfumatura, uno stato d’animo. Un tramonto. Tuttavia, ci vogliono occhi capaci di vederlo. Occhi che non si soffermano al passato regale della mia città, né agli arredamenti degli antichi palazzi o all’austerità scintillante dei caffè storici, bensì pupille che sprofondano nel bronzo del crepuscolo o nel riverbero aureo sulla superficie quieta del Po.


Nei miei geni sopravvive un principio alchemico simile. Una sorta di serena sventatezza cresciuta con me, anno dopo anno. Prima era l’innocenza creativa di bambina, poi l’indole sognatrice di adolescente, infine si è fatta imprudenza vellutata di adulta. Temerarietà, forse. Insensatezza. La capacità di liberarmi dal peso che certi giorni piega le ossa e schiaccia il pensiero sul pavimento. Leggerezza, appunto.