Indipendenza – 27 settembre

Da ieri (e fino a oggi pomeriggio) ho vissuto una delle esperienze più brutte della mia vita. Ho temuto per la salute di mio padre. Il pericolo non è del tutto rientrato, ma spero mi darà il tempo di organizzarmi per trovare una totale indipendenza e permettere a papi di affrontare serenamente l’intervento chirurgico in programma.

In queste ore di pianti senza ritegno ho pensato spesso alle parole di stimati caregiver — Sara Bonanno, ad esempio — e il loro eco nella mente mi ha fatto comprendere quanto io non sia mai riuscita a vivere una vita indipendente completa e soddisfacente. Ho spesso sentito dire che nel nostro paese ai caregiver familiari non è permesso ammalarsi… Vero. Mio padre è colui che non mi ha mai negato il suo aiuto nemmeno se in preda a un bruttissimo attacco di lombo-sciatalgia o a una recidiva di ernia inguinale. È colui che quando mi regge tra le braccia trattiene i gemiti di dolore pur di non farmi cadere e sedermi comoda sulla carrozzina. Non esistono ferie per i caregiver familiari. Mio padre sostituisce le mie assistenti quando sono in malattia, in vacanza, a riposo. Le sostituisce perché spesso non si riescono a trovare altri assistenti disposti ad una repentina sostituzione.

Ho riflettuto molto su questo. E sono giunta alla conclusione che le difficoltà riscontrate nel trovare assistenti personali abbia creato un cordone ombelicale tra me e papà, alla stregua di quello che a suo tempo mi ha tenuta legata a mia madre nel tepore del suo grembo.

Papi è l’uomo più importante della mia vita. Il mio faro, la luce in fondo al tunnel. Papi ha dormito diversi mesi su una poltrona durante i miei ricoveri in ospedale, mi ha alzata e coricata innumerevoli volte in un giorno ogni volta che a causa di un’infezione respiratoria non potevo stare troppo tempo seduta perché da seduta io non riesco a tossire. Ma papi è anche un eclettico, un creativo, un saggio, un fantasioso e delicato umorista. Non prende mai la vita troppo sul serio – quando ero bambina ogni mattina mi svegliava con una canzone e se trovava delle briciole sul mio letto di solito mi chiedeva: “Sei andata in cucina stanotte a prepararti un panino?” Naturalmente io non ho mai camminato… Un giorno, qualche tempo fa, gli ho chiesto di tosare il prato e lui ha chiosato: «Per caso inciampi con le ruote nell’erba?» Papi è il mio papi. Mio. Ma devo imparare a essere più indipendente.

Ps. Per fortuna, c’è chi non è geloso… 😁

Il sapore dell’anice – 5 settembre

Ieri a svegliarmi è stato un incontenibile entusiasmo, un pulsare sordo e incalzante sotto il costato. Mai aprire gli occhi sul soffitto bianco della camera è stato tanto immediato. Ho guardato la finestra. Entrava una luce intensa attraverso le persiane: non avrebbe piovuto. Da quando il clima ha finito per condizionarmi l’umore, confido spesso in una tacita complicità meteorologica. Eppure amo la pioggia. Il ticchettio delle gocce sui vetri dell’auto, lo scroscio dentro la grondaia, lungo la catena di ferro arrugginito che scende tintinnante nel pozzo, e poi l’odore dell’erba fradicia, le pozzanghere in cui saltarci dentro, gli acquitrini su cui beccheggiano foglie e petali strappati al vento. Quell’odore di acqua e d’infanzia, reminiscenza di antri acquosi e muschiati, di abisso e di alghe, è un forte richiamo alla primordiale umidità uterina, quel lento sciabordare di liquidi contro tessuti, dove si accresce il frutto di ancestrali semi: lo schiudersi della notte arcaica. In un balzo temporale millenario, tra viluppi di viscere e filamenti mucillaginosi, restare in silenzio con la fronte contro il vetro a osservare la pioggia è come spingere lo sguardo dentro la genesi della materia dalla materia senza comprenderne appieno le dinamiche sottese.  

Più che scrutarla, tuttavia, la pioggia adoro respirarla. Odorarne il timbro terroso e pungente che segue al temporale, l’afrore di stanze rimaste chiuse per anni. Ricorda i viluppi dell’amore carnale. Il sentore di palustre, di primitivo, di batterico. Legame con la propria nascita, il cordone con cui la Madre tieni avvinto a sé ogni figlio. Eternamente. 

Eppure ieri la pioggia non l’avrei gradita. Speravo in una giornata assolata, da trascorrere fuori: l’atmosfera ideale per una merenda seduti sotto il patio in giardino. Non ci sarebbe stato alcun imprevisto a sconvolgere i miei piani. Ne ero certa. L’aria fresca del mattino, rapidamente entrata dalle finestre spalancate, si è diffusa nella stanza. Le lenzuola rinfrescate facevano raggricciare le dita tra le lenzuola. Allora, indolente ho afferrato il cuscino poiché la sensazione di soffice sotto i palmi mi è sempre parsa il metodo migliore per iniziare la giornata.

Lui dorme fino a tardi, sicché a me resta il tempo di passeggiare nel quartiere con la gatta che mi segue curiosa, e intrattenermi in lunghe telefonate che possono concludersi in modi imprevedibili. Quando si sveglia di solito è ora di pranzo. Perciò non ci è voluto tanto affinché la giornata declinasse verso il tardo pomeriggio. L’ora più attesa. 

«Mi hai promesso una partita a scacchi!» Lui non si è fatto pregare. Accanto alla scacchiera, un vassoio di paste e tre tazze di tè nero. La varietà di dolciumi invitava gli olfatti più sensibili a riconoscere l’aroma della pasta di mandorle, dei pistacchi, del cacao e delle innumerevoli creme, vaniglia o gianduia, catalana o chantilly . 

«Io e Clara ti sfidiamo: due contro uno!» So di essere una schiappa a scacchi, perciò ho giocato la subdola carta dell’alleanza femminile per non finire sotto scacco matto alla prima mossa.

«Vuol dire che vincerò più lentamente…» ha replicato lui con un sorriso sornione. Una tale esternazione aveva il sapore dell’anice. Il pensiero è volato, in quell’istante, al mese appena trascorso e all’intimità dei rapporti umani: ero certa che se avessi potuto avvicinarmi all’agosto ormai andato fino ad avere il suo respiro sulle labbra avrei sentito l’odore intenso, dissacrante dell’anice stellato. Ho avvertito il tipico retrogusto dolciastro che evocava visioni di scrigni chiusi da tempo immemore e di parole che anche se taciute non perdono l’aroma fragrante e vivido con cui le ricordiamo, giorno dopo giorno.

Le mani – 27 agosto

Quand’è che ho imparato a mettere il mio corpo nelle mani di un altro non lo ricordo. Ciò che è rimasto impresso nella memoria è l’addestramento per riuscire a farlo. Anni di prove e di sconfitte. Dall’adolescenza all’età adulta è stato tutto un susseguirsi di tentativi con il solo fine di diventare brava ad accettare prima e a gestire poi il corpo altrui. Perché non è un’impresa semplice e neppure un atto di pura passività, come si potrebbe pensare superficialmente. Per essere capace di metterti nelle mani di un altro devi cominciare a sentire il suo corpo. Devi entrare in quel corpo, amarlo come fosse il tuo. Chi sostiene che questo debba essere un semplice atto meccanico e che si possa compiere senza implicazioni affettive, con molta probabilità non ha mai dovuto imparare a usare il corpo altrui come fosse il proprio. Affinché si possa dare al proprio la libertà che merita, è indispensabile dare all’altro pazienza, attenzioni, cure. Perché non è facile, per l’altro, imparare a muoverti nel modo in cui tu vorresti essere mossa. Non è facile perché l’equilibrio esige una perfezione millimetrica, un incastro preciso tra l’intento e l’azione. 

Ogni mano che ti tocca trasmette una sensazione mai sperimentata prima. Nessuna mano è mai riuscita a imitarne un’altra. Le ricordo tutte. Le mani che mi hanno aiutata o che hanno preteso di farlo, quelle ho rimpianto e quelle sulle quali ho dormito, le mani che mi hanno vergata e quelle che hanno consolato il dolore, quelle rattrappite, di vecchio, che odoravano di tabacco rancido e di cane, e quelle docili di bambina; le mani che mi hanno sollevata e quelle che hanno inflitto alla mia carne la geometria di una stigmate, le mani che ho amato e quelle che, per quanto piegate alla soddisfazione del mio piacere, non ho mai voluto. 

Le ricordo tutte e ricordo di aver finto che fossero mie, che fossero più vicine di quello che erano, anche se erano già conficcate nella carne o affondate nei miei umori; ho finto che fossero per sempre e che, affrancate dal giogo del tempo, non avrei mai dovuto dimenticarle, né sostituirle. Ho finto di poterle sentire ancora, quando ne avessi avuto voglia. È stato così anche per le mie mani, quando ne ho visto la forza venire meno fino a dissolversi come la pittura dentro il solvente. Ho finto che le avrei ritrovate, che nulla era perso per sempre.

Eppure, quando nostalgica mi volto indietro e ritrovo la giovinezza del mio corpo, l’immaturità dei suoi gesti, l’ansietà dei suoi arti non ancora contaminati dal pensiero che crescita si accompagni a perdita, mi rendo conto che ciò che ho maldestramente fatto in questi anni, in questi veloci e voraci anni, non è stato fingere, bensì prendere coscienza che nulla era perso. In molteplici e fantasiosi modi ho semplicemente compensato le perdite, incubando il seme di un ramo sfiorito e ridandogli vita sotto differenti spoglie.

Lui mi volta su un fianco e mi stringe in un abbraccio come a fermare il tempo: «Conti ancora gli anni al rovescio?»

«No, conto gli anni che non contano…»

Metamorfosi – 25 agosto

Non sono nata nel capoluogo, ci sono andata ad abitare soltanto per essere più comoda ai servizi e per poter usufruire, con più facilità, dei mezzi di trasporto pubblico. Sono nata in un piccolo borgo dell’entroterra canavesano fondato sulla pianura alluvionale dell’Orco. Ho vissuto lì le stagioni della mia infanzia, in quel paese di anime ammonticchiate su uno slargo di terra battuta punteggiato di noccioli e di ciliegi. Un fazzoletto di mondo consacrato al culto cristiano ma profumato di paganesimo, quel paganesimo in odore di eresia che la dottrina cristiana delle origini aveva a malapena ispirato nell’impossibilità di sradicarlo. Il ventre del paese era un susseguirsi di resti medioevali e di umili costruzioni perlopiù ad uso agricolo il cui orizzonte era un conficcarsi tagliente di piani nel verticale della vicina catena montuosa: perpendicolarità che subornava la gelida e ieratica serietà geometrica con velati e allusivi incastri carnali. Negli stretti vicoli si respirava l’odore acre dei cortili, laddove qualche gallina chiocciava nel fienile mentre qualche altra ruzzolava tra i pagliericci e la legnaia, e dai portoni chiusi, insieme all’afrore dell’aia e delle stalle, effondeva un senso di penombra e di colori scuri, blu e grigi, forse anche di viola mischiato al nero. C’era, dalla piazza alle viuzze e finanche ai sentieri tra i campi, un vociare di vecchi e di bambini, un trambusto di mercanti e artigiani che collimava con il frastuono dei macchinari agricoli e lo scampanellio delle biciclette e degli usci dei negozi.

Ovunque si udiva un suono, un verso, una voce, fino all’ora del tramonto quando il sole si spegneva dietro la dorsale alpina e il cielo infuocato metteva a tacere l’animazione chiassosa del paese in un grugare di piccioni che risaliva fino alla cella campanaria del Torrione. Lì i colombi avrebbero atteso l’alba e i rintocchi che annunciavano la prima messa della giornata. Poiché il paese non si era mai affrancato dal terrore del flagello divino che scongiurava con la devozione, non aveva mai abbandonato quel sentimento di paura irrazionale e cieca. Aveva tentato, invece, di arruffianarselo con offerte spirituali e materiali. Di più, naturalmente, con queste ultime. Sicché in paese vi erano cinque chiese, tre cappelle e un numero imprecisato di piloni votivi. Sulla piazza principale troneggiava una chiesa, simbolo del passato storico del paese. In quella chiesa ero stata battezzata, purificata con le fumigazioni dell’incenso, intrattenuta dal baluginio delle candele votive; in quella chiesa avevo recitato le mie preghiere, avevo provato ad usarle per ottenere qualcosa, ma quelle suppliche in odore di prostituzione risuonavano come l’appello dei committenti alla penetranza dell’arte: un chiedere la cui riuscita dipendeva dal talento dell’artista più che dalla persuasione dei mecenati.

Dentro quei luoghi di culto oscuri e odorosi di resine talvolta ci torno con la mente e mi vedo ferma, ad occhi chiusi, in mezzo al nartece, silenziosa e vigile, prima di avanzare — passo dopo passo — lungo la navata fino all’abside. Sento voci che bisbigliano in un idioma a me sconosciuto, e suoni che somigliano al crepitio delle mie ruote sugli sterpi. A quel punto apro gli occhi e intorno a me vedo il bosco. E allora mi rendo conto che non ho mai smesso di cercare, che sto ancora vagando, seppur in luoghi di culto differenti — una chiesa, un letto, un bosco — alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire compiuta. E, finalmente, libera.

La prima volta – 17 agosto

Il treno per Firenze era in partenza, una voce imperiosa di donna lo aveva annunciato agli altoparlanti. Soltanto una lunga corsa sulla piattaforma, tentando di schivare i viaggiatori fermi sulla banchina e i bagagli gettati per terra a catafascio mi aveva permesso di raggiungere in tempo la carrozza di testa, quella destinata ad accogliere le sedie a rotelle. Il sole tiepido di quel mattino sul finire dell’estate rampinava le pupille fino a far strizzare gli occhi. C’era odore di cuoio, di carta appena uscita dalla biglietteria, di caffè e di paste dolci. Ricordo le voci, una mescolanza di accenti e di timbri che accompagnava il calpestio disarmonico sull’assito della vecchia stazione. Quel giorno Wasim mi aspettava lì di fronte, sotto la pensilina del binario 6 di Porta Nuova, reggendo sulle spalle, dentro un piccolo zaino, tutto il suo bagaglio. 

Il personale del treno mi aveva aiutata a salire sulla carrozza della prima classe che a quell’ora del mattino, era solitamente silenziosa e vuota. Era stato un buon viaggio, uno di quelli che al ritorno sei contenta di aver affrontato.

Fin dall’arrivo a Santa Maria Novella, quel viaggio aveva risvegliato un bel po’ di nostalgie. Dapprima disorientata dalla zaffata di caldo che si era stretta attorno alle nostre gole appena scesi dal treno, poco alla volta avevo cominciato a ricordare e, lasciando che Wasim mi rincorresse trascinando la mia valigia, a passo svelto mi ero diretta in strada, tra i bottegai dall’aria sorniona sempre pronti a trescare scambi vantaggiosi di merce e di denaro. Non avvertivo la stanchezza, solo un sordido malessere che pungolava il cuore, tant’è che attraversando il Borgo dei Greci per arrivare in Santa Croce qualche lacrima era scivolata giù dagli occhi, proprio all’ora del tramonto, quando il sole di settembre affogava nell’Arno, ancora rovente, con uno sfrigolio a pelo d’acqua. Non c’era un filo di vento, quel giorno, e nei vicoli le inferriate dissotterravano l’odore degli scantinati, una mescolanza di note aspre e fruttate dei vini, ammorbata dall’afrore malsano delle muffe. Nell’aria, di fronte alle botteghe conciarie, stagnava un odore di pellame così intenso da irritare le narici. 

«Wasim, seguimi!» lo avevo esortato e oltrepassando le osterie e i bugigattoli dalla fioca luce che pareva di lanterne, lo avevo condotto in San Lorenzo dove un gruppo di merciaioli stava smantellando il mercato. Al nostro arrivo, un volo di piccioni aveva smosso l’aria spezzando quel sentore di immutabilità che si respirava nella città vecchia, cosicché anche le memorie si erano fatte più vivide, come rinfrescate. In quel momento, mentre una ruota della mia sedia si era incagliata nel porfido facendomi vacillare fino a perdere l’equilibrio, lo sguardo era piombato su un cesto di giunco colmo di vagoni di legno in miniatura, sormontati, ciascuno, da una lettera dell’alfabeto. Era subito apparsa nitida nella mente la visione della lunga locomotiva che il mio primo fidanzato mi aveva regalato, un convoglio mercantile destinato esclusivamente al trasporto dei nostri nomi congiunti da un’inossidabile copula in odore di eternità: Tania e Tommaso. Anche quando il miraggio di infinito era svanito nell’epilogo della nostra relazione e il trenino era stato stivato in una scatola di cartone insieme a vecchi giornali di cui si era persa traccia, quella congiunzione letteraria aveva continuato a tenere uniti i nomi, a inchiavardarli per sempre a quegli anni ormai lontani. La memoria attingeva a ogni rimando sensoriale, vigile, instancabile, selvatica.

Il viaggio a Firenze, tuttavia, era stato indimenticabile più per un altro motivo. Per la prima volta, infatti, avevo messo il mio corpo, completamente e senza maschere, nelle mani di uno sconosciuto. Poiché Wasim a quel tempo non era altro che uno dei tanti candidati al lavoro che offrivo, uno – oltretutto – che nella vita non aveva mai sentito parlare di Atrofia Muscolare Spinale, né aveva ben chiaro che cosa significasse vivere con una disabilità motoria. La prima notte a Firenze, arrabattandoci dentro la stanzetta di una locanda ubicata proprio dietro la Galleria dell’Accademia, ci eravamo studiati, pezzo per pezzo. Distesi sul letto, di fronte ad una grande finestra da cui entrava una luce polverosa di cielo notturno, avevamo parlato, tenendoci la mano, finché le prime luci del mattino si erano allungate sul letto e il frinire dei grilli si era risolto in un silenzio opalescente d’alba. Parlando, Wasim aveva imparato a mettermi il cuscino tra le ginocchia dopo avermi voltata su un fianco, a sollevarmi i capelli alzandomi la testa con una mano e ad aprirli a ventaglio sul cuscino (ché non ho mai sopportato il sentirli appiccicati alle guance e agli occhi), e a distendermi l’orecchio quando, voltando la testa su un lato, si piegava. 

«Tutto bene?» domandava dopo ogni nuova istruzione. 

Aveva imparato ad attendere, dietro la porta chiusa, che la pipì giungesse senza fretta, con la lentezza ostinata di qualcosa che non vuole venire allo scoperto, e aveva imparato a guardarla mentre si disperdeva nel vortice dello scarico fognario. Del resto, nei mesi a seguire, l’avrebbe vista più volte di quelle in cui avrebbe visto uno qualsiasi dei miei vestiti. Aveva imparato a reggere davanti alla mia bocca la bacinella in cui sciacquavo la schiuma del dentifricio dopo essermi lavata i denti, e con lo stesso spirito di intraprendenza aveva imparato – sebbene con risultati meno soddisfacenti – a pettinarmi i capelli e a dipingermi gli occhi con il kajal. In meno di quindici giorni avrei desiderato non tornare più nella mia vecchia casa. Avrei iniziato a cercarne una in città, in quella Torino dove Nietzsche “conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto”. Il viaggio a Firenze aveva aperto la strada al cambiamento.

Il desiderio s’incarna – 28 luglio

Ecco: il desiderio s’incarna. È un fascio di nervi che contrae le carni, un’idea che percuote la mente, la sfinisce sotto i colpi.

Dalla cucina giunge l’odore familiare del caffè che gorgoglia sulla piastra elettrica del piano cottura. Non abbiamo voluto una di quelle macchine per il caffè espresso, quegli ingombranti marchingegni che spremono nettare da futuristiche capsule. A noi piace macinare il chicco e farne polvere per infusi alchemici. Odorarne manciate generose prima di interrarlo dentro il filtro della moka. Il fuoco ne estrarrà la linfa.

«Amore, dove ho messo la maglietta blu con Homer Simpson che divora una ciambella?»

Sono le 7.00 del mattino e io riesco ad aprire solo mezzo occhio sulla sua faccia curiosa, di animale in attesa di un segno.

«Nell’armadio…» bofonchio con la voce impastata di sogni.

«Ma dove?» incalza mentre allunga una carezza sui miei capelli.

Mugugno che non ricordo, voglio dormire, ho sonno. Ma ormai sono sveglia, la camera è pregna dell’aroma color ebano dei miei risvegli con lui.

«Dopo cerco meglio» conclude «forse è dentro un cassetto». Tace, poi riprende a parlare: «Dobbiamo comprare delle ciambelle!» Mettere in parole il primo pensiero che s’affaccia alla mente è il suo modo di rivendicare il proprio essere al mondo. E di frangere le palle altrui, anche.

Sono sveglia, talmente sveglia da notare i raggi giallognoli che filtrano dalle fessure tra le stecche delle persiane chiuse. È una giornata assolata, con il cielo terso, capace di ingannare gli animi in attesa dell’estate. Improvvisamente mi avverto felice. Ho fame e non vedo l’ora di stringere tra le mani la mia tazza di tè nero con una nuvola di latte e di affogarci i frollìni al miele, seduta al tavolo di fronte alla grande finestra che s’affaccia sul giardino. Tuttavia, il sonno è duro da scacciare e allora mi stringo nelle coperte, strofinando i piedi sulle lenzuola tiepide e lisce. Sbadiglio.

«Amore, io vado. Ci vediamo giovedì!» annuncia, infilandosi le scarpe.

La valigia è già pronta ai piedi del letto.

Ho voglia di alzarmi e iniziare una nuova giornata, riappropriarmi delle carte abbandonate sullo scrittoio la sera prima, accendere il notebook e dare la pappa alla gatta che attende pacificamente sulla soglia della camera. Il desiderio è un seme pronto per la tostatura, un piccolo nocciolo in cerca di calore.

Il respiro di un pesce – 4 luglio

Finita la pioggia — da cui hai cercato riparo —giunge imponente il desiderio di acqua e il solo modo in cui riesci a spiegartelo è quel mistero atavico che la pioggia ti ha aiutato a far riaffiorare. Il senso originario della nostra vita di embrioni-pesce, il ricordo di un rapido e traumatico passaggio da una vita in apnea ad una anfibia e poi, con un salto evolutivo vertiginoso, a quella di mammifero. «Andiamo al lago!» ho proposto, ben consapevole che l’iniziativa avrebbe accolto il favore di tutti. Il fragore della pioggia dei giorni scorsi ha maturato nei miei occhi la voglia dello sciabordio che incanta, della matrice liquida arginata da sponde terrose, del beccheggio silenzioso delle anatre sulla superficie del lago. La giornata era serena e calda, mossa appena da una leggera brezza che scomponeva i capelli raccolti in una coda alla buona, fatta in fretta per non sprecare tempo e uscir di casa al volo. Appena arrivati ho cercato il pontile dove il sole del tardo pomeriggio accecava ancora con caldi riflessi dorati. Tutto era perfetto. Ho respirato senza aver bisogno della NIV. Ho respirato e mi è parso che il mio fosse il respiro di un pesce.

Il riparo – 3 luglio

Al riparo dalla pioggia…

Cercare un riparo è forse uno dei gesti più antichi e al contempo intimi che mi sovviene ogni volta che penso alla pioggia. Sia una casa, un albero dalle spesse fronde, una capanna fatta di lenzuola. Un riparo è un momento di tenerezza, un abbraccio stretto e prolungato, un focolare che attende di riscaldarci. Certo è che la mia indole mi spingerebbe sotto l’acquazzone a infradiciare i capelli e gli abiti, a sentire pizzicare la lingua dalla gragnola fredda e pungente; a immergermi nella matrice-Madre da cui ho avuto vita. Purtroppo, per ovvi motivi, mi tratterrò dal farlo. Ma continuerò a godere della bellezza dei luoghi che ci ospitano offrendoci un riparo. Magari accanto a una lampada dalla luce calda e rassicurante.