Feroce – 16 novembre

Ci sono momenti in cui, reclusa tra le mura domestiche, pare che la mia vita non sia tanto diversa da quella vissuta finora. Da molti anni limito le mie uscite alla bella stagione — giorni intensi come stelle giganti rosse da cui origina un forte vento stellare che strappa loro gran parte della massa in breve tempo, consumandole.

Ma poi ci sono giorni in cui mi soffermo a pensare a tutto ciò che prima, pur con notevoli precauzioni, potevo fare. A ciò che fino all’alba dell’autunno ho fatto, complice l’estate e la sensazione riflessa che tutto sarebbe andato bene. Pur in piena pandemia.

E sapete che cosa mi manca più di ogni altra cosa? La carnalità. Quell’impudicizia sanguigna che è sempre stata materia di studio per quella parte di me avida di sensazioni; cibo per quell’altra dal piglio cannibale; oblio, finanche, per quella terza parte che cerca l’amore sotto il frastuono delle guerra per fingere che la morte sia lontana.

Qualche mese fa pensavo che la pandemia assomigliasse a una guerra. Ora so che non è così. In mezzo alle detonazioni degli ordigni bellici, sotto il sibilo dei raid aerei puoi sentire il calore della pelle di uno sconosciuto penetrarti fin dentro le viscere per ricordarti che sei ancora viva. Ora no. Ora sono proibiti gli abbracci, il succhiarsi l’anima l’uno con l’altro, il leccarsi come animali che han bisogno di affetto. Sono proibiti gli incontri alla luce debole del tramonto, le strette di mano, il respiro ferino che odora, riconosce e nutre lo spirito. Non è simile a una guerra. No, non lo è. Questa distanza che, ragionevolmente, ci è stata imposta è un attacco alla bestia che vive in noi. Non vuole ammansirla, bensì ridurla pelle e ossa, affamarla fino a renderla feroce e incontenibile.

Perché un giorno, stremata e con l’unico obiettivo di nutrirsi, getterà via la maschera che la protegge e affonderà le fauci sulla bocca di un estraneo, ne cercherà la lingua insieme all’anima. Un giorno si strapperà di dosso le vesti e aprirà il proprio ventre a carni sconosciute. Quel giorno, il bisogno di sfamarsi sarà più forte della paura del contagio. E questo non verrà punito come colpa, ma rispettato come legge biologica.

COVID19 e la gestione empirica della Non Autosufficienza – 23 ottobre

Non intendo archiviare la questione sollevata quando nutrivo l’ipotesi di una positività al Covid19. Non ho nessuna intenzione di concludere la faccenda con un: «Tutto è bene quel che finisce bene» giacché, di fatto, niente può dirsi letteralmente finito.
Siamo in piena pandemia, ogni giorno aumentano i casi di persone positive, il Governo prende ridicoli provvedimenti in odore di presa per il culo (chiusura dei locali e coprifuoco alle 23.00 può forse avere più efficacia di una corretta informazione circa l’utilizzo delle mascherine e di un ritorno alla DAD?), noi — storpi, inutili, fastidiosi piantagrane non autosufficienti — continuiamo a non essere considerati.

Io voglio pensare positivo, sotto il mio costato un afflato gioioso, sanguigno, catartico, accelera il battito del cuore e lo esorta a non arrendersi. Tuttavia, la situazione attuale non mi permette di abbassare la guardia.
«Che ne è di una persona affetta da una grave patologia pregressa nel malcapitato caso venisse trovata positiva?»
Apparirà sui necrologi in una foto sorridente accanto al consueto: “È mancato all’affetto dei suoi cari…”.
No, non lo voglio accettare.
Da quando sono nata, quarantadue anni fa, ho visto la Scienza fare progressi, dare un nome alla mia malattia, ricercarne una cura e nel frattempo trovare strade alternative per darmi una vita più lunga e dignitosa. Ma soprattutto ho visto le Istituzioni aprire le porte dell’istruzione primaria a bambini come me ai quali era stato vietato l’inserimento nella Scuola Materna perché nessun istruttore era pronto ad occuparsi di una faccenda tanto delicata quanto facilmente risolvibile. Ho visto divenire normalità l’accesso agli studi superiori e agli Atenei di persone con patologie altamente invalidanti. Ho visto nascere strutture cliniche specialistiche che finalmente mi hanno strappata ai reparti di Pneumo-Tisiologia dove ad ogni infezione più tosta venivo ricoverata accanto a pazienti malati di tubercolosi, senza alcuna precauzione. In questi Centri ho visto dare importanza alla malattia rara da cui sono affetta, legittimarne il diritto a essere studiata e trattata con rispetto, liberandola dal calderone delle malattie-cavia sulle quali adottare terapie generiche e troppo spesso soluzioni d’emergenza drastiche coercitive e dolorosissime. Ho visto persone rassegnate alle morte tornare a vivere con una rinnovata serenità e una virginale fiducia nel futuro.
Per cui non posso accettare di tacere, ora che dopo un iniziale smarrimento nazionale — più di dieci mesi fa — ancora nessuno ha realmente preso in considerazione l’idea di trovare al quesito di cui sopra una soluzione meno incivile e barbarica dell’abbandonarci alla nostra sorte.

Il lazzaretto – 7 ottobre

Cerco di buttare giù una bozza della relazione da inviare ai Servizi Socio-Assistenziali per chiedere di rivalutare il mio progetto di Vita Indipendente e mentre mi arrovello su leggi, norme e temi etici dall’aspetto di statue rinascimentali, inavvicinabili e austere, mi imbatto nel Secondo Piano biennale di Azione per la Vita Indipendente. Lo annuso, ci spingo gli occhi dentro, parola dopo parola. Lo mastico assaporandone il retrogusto d’idillio e di favola d’altri tempi. È perfetto! Nulla che svii il lettore da quel concetto semplice eppure da tutti sottovalutato che è l’indipendenza. Leggo e mi vengono le lacrime agli occhi perché se questo piano venisse concretizzato io sarei libera. Libera. Vi suona familiare questo termine?

Libera, non come mi vuole la Costituzione italiana che all’Art. 13 sancisce l’inviolabilità della libertà umana ma che all’Art. 30 stabilisce anche il dovere dei genitori di mantenere i figli, dovere poi trasfigurato dalla decisione della Cassazione di disporre che in presenza di disabilità i genitori DEVONO farsi carico delle esigenze del figlio maggiorenne in quell’ottica di solidarietà che ispira gli obblighi familiari disposti dal nostro ordinamento. Via via che le parole s’affastellano pronte ad essere incendiate dentro un calderone, mi ritrovo a constatare che nessuna libertà mi attende. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti quei principi costituzionali che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini? Sogno l’indipendenza ma vivo in un paese che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, e nel quale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Sogno la libertà ma devo accontentarmi di un’assistenza parziale e lacunosa; devo accettare di rinunciare a “vivere” per fare stancanti colloqui con aspiranti assistenti che all’ultimo mi diranno che non se la sentono; devo rinunciare alla serenità per rivendicare il mio diritto alla libertà.

Sogno la libertà ma con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche il legislatore mi ha rispedita nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi (crippled, pardon) era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

Perché al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Norme e leggi scorrono sotto i miei occhi producendo lo stesso attrito di una striscia di carta abrasiva sulla pelle e mi riportano nel rinascimento, dove Gregorio Magno s’affretta a segregarmi in appositi lazzaretti sociali (che oggi si chiamerebbero Rsa) con la speranza che Peste (oggi Covid19) mi colga e ponga fine alle mie meritate sofferenze terrene.

Un autunno magenta – 3 ottobre

No, non mi sono ancora abituata all’autunno! Ad ogni pagliuzza di sole che sbuca dalla coltre bigia del cielo io inizio ad avvertire un formicolio dietro gli occhi, giù nella corteccia cerebrale, fin dentro gli impulsi elettrici delle terminazioni nervose. Voglio uscire! Una manciata di minuti, un quarto d’ora, un pomeriggio intero…

L’eco di morte che nell’ultima settimana ha accompagnato ogni mio spostamento— mentre attraversavo il corridoio per entrare in salotto, nel bel mezzo della cena, nell’istante in cui il timer dello spazzolino elettrico indicava che erano trascorsi i due minuti della pulizia orale — si mette in disparte: all’ombra subentra la luce accecante di una stella che arde, incandescente, come il metallo dentro una fucina. Una luce capace di generare la vita. Allora, il mio umore color piombo si colora di magenta, ravvivando la pelle e lo sguardo.

«Se potessi scegliere in che modo morire, vorrei farlo sotto il sole tiepido di settembre… » confido alla mia silenziosa amica.

Penso, abbassando lo sguardo sul maglione traforato e vivido come il mio sentire, che quel giorno mi piacerebbe indossare un abito dal colore intenso, vivace, allegro come il mio essere più profondo. E intanto mi sale in gola un amore sconfinato per la vita, per questa fulgida esistenza color magenta, per questo cammino che non può e non deve mai anteporre la scelta di vivere a quella di morire, legittimando la prima e ripudiando la seconda. Avverto tra le corde vocali e le mucose umide della laringe un amore incontenibile per la libertà, un diritto che ogni essere umano non deve mai dare per scontato, né credere di aver mai realmente raggiunto.

Vestita di magenta — colore che nasce dalla mescolanza tra il rosso e il blu — non ho più dubbi.

C’è una parte di me in cui regna la dittatura del sangue, una parte che pulsa in sincrono al cuore, che nutre le carni, le infiamma. É la parte rossa che guarda al domani con entusiasmo, che scrive per aver sentito le parole vibrare sotto il costato. Quella che di fronte a una finestra sente l’esigenza di spiccare il volo, lanciarsi verso l’orizzonte per un perentorio desiderio di libertà.

Poi c’è l’altra, quella blu, quella che deve contenere l’enorme pressione di questo flusso continuo e irrefrenabile. È la parte a cui tocca il difficile compito di rallentare la corrente, arginare le dirompenti emozioni. Per tentare di dare il giusto equilibrio a quell’impetuoso sentire in cui ogni slancio emotivo è un salto nel vuoto, un volo in picchiata.

Il magenta non si trova all’interno dello spettro del visibile. Non lo troverete mai tra i colori di un arcobaleno. Eppure proprio come la mia percezione della vita — arbitraria ed empirica — il magenta nasce da un’intima interpretazione visiva della luce. È fuoco e acqua. Come me.

E anela alla vita, dando alla morte il giusto grado di vividezza e di luce, l’equilibrio perfetto tra un colore caldo e uno freddo.

Fotogrammi – 8 agosto

Sono queste le ore che prediligo: quando il crepuscolo silenzia il paese e il prato deserto riverbera le luci calde del giorno che si spegne.

Le mie ore preferite, anche oggi che non sto bene. Vivere con una malattia neuromuscolare scandisce il mio tempo ed è inutile negarlo. Ci sono giorni di sole da passare all’aperto e giorni di sole da trascorrere chiusa in casa. E poi ci sono giorni in cui bere un cocktail in un locale retrò della mia amata Torino, e giorni in cui dissetarsi da una flebo di soluzione fisiologica. Una semplice influenza può avere lo stesso effetto di uno Tsunami.

Quando non riesco a concentrarmi sulla scrittura mi rivolgo alla musica, ma questa tocca sempre corde troppo profonde e a meno che non abbia il ritmo vivace e malandrino dello swing o la sensualità carnosa e libertina del reggae, mi fa tristezza e devo spegnerla. Perciò passo molto tempo a calcare il perimetro della casa: salone, cucina, camera da letto, corridoio. Vago come se fluttuassi fuori dal corpo. Percorro lo stesso cammino finché le forze mi vengono meno. Muovermi mi aiuta a pensare alle cose belle. E a sentirmi viva. Conosco ogni piastrella, ogni crepa sul muro, le ragnatele dietro i bastoni delle tende, i nascondigli della gatta. E quando mi stanco di vagare o semplicemente quando giunge l’ora della flebo, accendo la tv e cerco un film. Sono cinefila fin dagli anni in cui rimasi affascinata dall’idea che dentro lo schermo potesse esistere un mondo parallelo, una realtà misteriosa e ipotetica come il multiverso.

Guardo e intanto immagino la mia guarigione: un salto in una dimensione in divenire, dove i miei capelli sono puliti, indosso un paio di jeans attillati e una maglietta con uno scollo profondo. Quello scorcio in cui osservo la vita di qualcun altro è un calcolo matematico che approda a un risultato tanto atteso.

Una possibilità. La stessa che ha il mio corpo di incarnare un’identità diversa in un mondo sconosciuto.

Estate 2020 – 29 luglio

Questa estate ha il sapore della resina succhiata dagli aghi dei pini, all’ombra dei nocciòli. Odora di gelsomino e di bardana cresciuta spontanea sul muricciolo di pietra, lungo la strada che sale la collina.

Questa estate ha le sembianze della roccia sbozzata per liberare la bellezza dalla materia, odora di polveri di gipsoteca.

È tempo di rinascite, di letti di sarmento su cui addormentarsi al tramonto e risvegliarsi all’avvampare dei falò, sotto una luna aguzza metà satellite e metà falce, metà voyeur pallido e innocente e metà lama sporca di sterpi e di carni.

Si avverte che nelle parole c’è qualcosa di impudico. Più che nei gesti.

È un’estate infida, luccica come gemme preziose nascoste dentro tane buie di lupo. È l’estate dell’aria che da fonte di vita è diventata un’arma potentissima fautrice di morte. È l’estate della politica del vivere sul filo del rasoio, tra negazionismi e maschere premute sui volti come una seconda pelle, un filtro per virus mutevoli che abitavano questa terra ben prima dell’arrivo dell’uomo. È l’estate dei divieti che rendono più bella un’ora sotto il sole, in mezzo a un campo da cui non si riesce a scorgere l’orizzonte e nel quale, se vuoi sentirti libera, devi alzare gli occhi al cielo e confidare nello Spazio profondo dove non esistono mura, né soffitti o aria contaminata da assassini ancestrali.

É l’estate della mia rinnovata voglia di scrivere e di respirare senza paure.

Il bosco – 16 luglio

Talvolta sento l’esigenza di fuggire, camminare lontano dalla fiumana — che, peraltro, in questo momento di allarme sanitario internazionale è fortemente consigliato.

In questi momenti di inquietudine, camminare è un richiamo imperativo. E alla necessità di passi, segue intimamente quella di bosco. La voglia di farsi sorprendere da un raggio di sole tra il fitto fogliame, di inseguire l’orizzonte consapevole che l’obiettivo non è raggiungerlo bensì continuare a rincorrerlo, il sentore di umidità ancestrale, l’odore di erba e sterpi liberano i pensieri e li purificano in modo analogo a una fumigazione rituale.

Una volta prese le distanze dalla scenografia urbana, la mente ramifica tra le fronde e quel lacerto di cuore che mi porto appresso rattoppato e disilluso. Sicché, nutrito da questa linfa dalla natura ibrida, vegetale e sanguigna, il pensiero ritorna a quel crocevia solcato dai passi dei viandanti che è la mia vita.

La mia storia è fitta di ombre. Ma a produrre l’ombra è sempre una sorgente di luce.

Certo, l’ho appreso con il tempo, anno dopo anno. Per voluttà, ma anche per un desiderio più tiepido di conoscenza. Lasciandomi guidare dal paesaggio verso quell’orizzonte in cui cielo e terra collimano. Con un vagare all’apparenza senza meta.

La bestia – 11 luglio

Ci sono pensieri che ondeggiano in superficie come i rami filiformi dell’equiseto lungo le sponde dei fossati, mossi dalla brezza serotina che in queste terre di confine giunge dalla valle, seguendo il percorso fluviale dell’Orco. “Sto forse uscendo troppo?” domando a me stessa, con una certa frequenza.

Da quando ci è stata ridata la facoltà di decidere i nostri spostamenti geografici, finito il lockdown, ho dapprima esitato sulla soglia di casa. Oltrepassarla poteva essere rischioso per me che convivo con un’insufficienza respiratoria grave. Ho indugiato per qualche settimana, conferendo soltanto al piccolo giardino privato lo status di “spazio aperto”. Un hortus conclusus in cui respirare l’aria primaverile e godere del sole. Poi, con uno slancio coraggioso — dovuto più all’insofferenza che alla temerarietà — ho distanziato i confini del mio spazio sacro. Con diffidenza di animale selvatico mi sono allontanata dalla tana. In principio, una sorta di timidezza frammista a timore conteneva il mio bisogno di esplorare, ma passo dopo passo le due uscite settimanali son diventate tre e poi quattro… E ora che la bestia ha perso il ricordo della catena che la tratteneva, attende l’alba del giorno dopo per tornare fuori. La bestia fiuta l’odore del pericolo, ma la sete di libertà è un bisogno più potente e incontrollabile. Chissà se tra questi spazi sconfinati, tra sentieri e vecchie dimore abbandonate, ella possa dissetarsi fino ad averne abbastanza anche della sete di libertà.

Lettera aperta ai complottisti del 5G – 25 maggio

“Cari lettori — distratti, detrattori, menefreghisti, o qualunquisti — a scrivere questa cornice è una donna con insufficienza respiratoria grave da più di un trentennio, e che nell’ultimo anno si è dovuta abituare all’invadenza claustrofobica della ventilazione assistita (lo so, claustrofobico non è un aggettivo che si addice al sostantivo “ventilazione”, ma vi assicuro che avere 24 ore al giorno una mascherina sul viso può essere fastidioso anche se questa spinge aria dentro le cavità nasali giù fino ai polmoni). Una donna che quando legge di danni permanenti all’apparato respiratorio, seppur su un articolo che gira in rete e tra i notiziari televisivi, inizia ad avvertire come un senso di soffocamento. Tranquilli, è solo panico. Tuttavia, ben sapendo ciò che si prova in taluni frangenti, non riesce a trattenere una certa preoccupazione non per sé — che i danni permanenti li ha già ricevuti in dono dalla patologia neuromuscolare da cui è affetta, bensì per voi. Voi, che pontificate sull’inutilità delle mascherine, voi che vi sentite intoccabili, che guardate con quell’empatia da avvoltoio coloro a cui la vita ha già offerto alla nascita, attaccata al cordone ombelicale, una mascherina con annesso respiratore e ai quali, sospinti da un’arcigna e illusoria sete di onestà intellettuale siete soliti ribadire: «É giusto che le mascherine le indossiate voi che siete più deboli, ma non noi perché a noi non servono!». Voi, che fino all’altro ieri mi camminavate accanto come a percorrere un sentiero di crescita comune e oggi mi mettereste un tenace bavaglio sulla bocca. Voi, che da oggi il rigido girone della prevenzione non riguarda più, sappiate che dal suo interno — dalle sue viscere avviluppate in molteplici anse e zone buie — qualcuno ha un pensiero per voi. Di quale natura esso sia é storia da raccontare altrove.”

La paura – 8 marzo

Tutto rimanda ad un effimero sentore di normalità…

I piatti in lavastoviglie, il tavolo sparecchiato; sul davanzale della finestra il bicchiere con i fiori di pesco del giardino di mio padre. La paura ci coglie improvvisa: avevamo giurato di non aprire i social e invece per curiosità io non ho resistito e ho letto. In un attimo ho ricordato le corse in ospedale con il fiato che non arrivava, l’urgenza delle cure e degli esami diagnostici, il sapere che non mi avrebbero lasciata giorni ad attendere. E mi è risalito in gola un getto caldo di fiele. La paura è amara e serpeggia sulla lingua suggerendo allo stomaco di svuotarsi senza premure, né vergogna. «Prendiamoci le mani gli uni con gli altri.» ordino con inconsapevole risolutezza. Massimo è il primo ad afferrarmi la mano, poi è il turno di Rabia dopo aver indugiato qualche istante come a chiedersene la ragione. «Ora tu prendi la sua mano» incito Massimo che lo fa senza capire. «Prega prima tu» proseguo, rivolgendomi alla mia assistente. Improvvisamente la cucina è pervasa dagli arabeschi della lingua del Profeta e le invocazioni risuonano come un canto a filo di voce: «Allahum ‘abead eanaa altaen wa altaaeun…». Quando la preghiera finisce lei si asciuga gli occhi e aspetta il mio turno. «Ave Maria, piena di grazia…» recito d’istinto, quasi un’usanza a rivolgere le mie preghiere a una donna, madre e sorella. Massimo tace. Lui è ateo, ma ascolta e partecipa stringendomi forte la mano. Tutto sembra esattamente al suo posto: i piatti nella lavastoviglie, i fiori di pesco sul davanzale, noi tre intorno al tavolo sparecchiato a lasciar affiorare le emozioni più intime. Rabia si aggiusta il velo sulla testa e io inspiro profondamente attraverso la mascherina del respiratore. Tutto rimanda a un fugace, attesissimo sentore di normalità.