الحرية 20 نونبر

Oggi va così: allo scrivere prediligo il rileggere. Rivisitare vecchi scritti pregni di memoria. Perciò vi propongo una capitolo del componimento che scrissi per la Scuola Holden di Alessandro Baricco. Lo scritto s’intitola Hurrya – La libertà.

Wasim ed io ci siamo incamminati lungo l’ampio corridoio porticato del quadrilatero tra le sculture di gusto neoclassico e quelle liberty, e poi abbiamo proseguito nei viali, passando per crocicchi e rettilinei accanto alle lapidi. Un gatto sonnecchiava disteso su una tomba, e al nostro passaggio a malapena si è preso la briga di schiudere gli occhi per fissarci con quell’aria di distacco scritta nel DNA felino. A filo di voce ci accompagnava, talvolta confondendosi con lo scalpiccio sulla ghiaia, un sommesso recitare di Scritture: Wasim pregava, non nella lingua natia, ma in quella divina, la lingua del Profeta, e ad ogni verso si soffermava su una qualche parola e la soppesava.

Dopo l’iniziale disappunto per essere venuti a camminare tra le tombe si è adeguato alle circostanze, e siccome rivolgersi unicamente ai morti gli è sembrato irrispettoso per i vivi che gli stavano a fianco, si è messo a tradurre e a spiegare ogni verso, a farne notare la musicalità, ad insegnarne la pronuncia. Reputavo affascinante passeggiare nei cimiteri, a maggior ragione in quel periodo in cui lo studio degli scultori simbolisti infiammava la curiosità spingendomi a visitare gipsoteche, musei e camposanti da nord a sud della penisola, ma farlo in quel modo ibrido, posando gli occhi su quei monumenti alla cristianità e porgendo le orecchie agli arabeschi vocali dell’Islam, mi ha fatta sentire felice.

E quando dico felice intendo letteralmente. Avrei giurato di non essermi sentita così felice da mesi, non ricordavo di essere stata tanto felice nemmeno il giorno in cui ero entrata per la prima volta nella nuova casa con l’intenzione di viverci. Quella casa che avrebbe dovuto assomigliare a una dimora della Torino di inizio Novecento, con i fasti apollinei dell’Art Nouveau a decorarne l’epidermide, e invece è sempre stata un ibrido senza alcuna identità. Una mescolanza di “mio” e “suo” senza che tuttavia esistesse un “nostro”. Ero certa di non sentirmi così eccitata nemmeno nelle notti in cui mi addormentavo sul grande letto che condividevamo, felice di aver raggiunto l’indipendenza da sempre agognata, un traguardo che il mio debole corpo non mi avrebbe mai permesso di tagliare se la volontà non fosse stata più tenace della malattia.

Wasim si è scostato un poco per leggere l’iscrizione su una lapide e poi si èvoltato verso di me e con aria interrogativa ha domandato: «What does this mean?» abbozzando un sorriso come di chi è colto in flagrante. L’italiano era ancora una lingua ostile. Allora l’ho raggiunto e ho letto: “Qui han trovato la pace che non trovarono in vita» e nello scorrere le parole mi sono accorta di aver sete anche io, e voglia di andare al mare. I lividi sulle cosce bruciavano ancora come carne riversa sulla graticola, ma il cuore avvampava di un sentimento fuligginoso, nato sull’onda dell’emozione e ingabbiato nella speranza, offuscando il dolore. Ancora una volta ho creduto di poter perdonare.

«…la pace che non trovarono in vita»leggevo, e intanto mi saliva in gola la voglia di acqua e di sabbia dentro le scarpe, del tuffo tra le braccia altrui. E dimenticavo la violenza della sera prima. Mentre percorrevamo a ritroso il sentiero tra le lapidi gli ho fatto giurare che appena fuori sarebbe corso al chiosco di fronte alla bancarella di fiori a comprare qualcosa per dissetarmi, ma non acqua, no! Avevo voglia di cola, sì, fredda, anzi gelida, da infilarci dentro la cannuccia e bere fino a sentire le tonsille ghiacciate. E lui rideva ed esortava in quell’inglese coloniale indurito dall’inflessione indigena: «Fast!» spostando con i piedi la ghiaia davanti a me affinché le ruote non ci affondassero. Ero felice. Non ero mai stata tanto felice.

Wasim mi aveva condotta lontano, nell’Oriente dei miei sogni di bambina. Ma mentre i sogni ad occhi aperti dell’infanzia erano proiezioni di fiabe e di fantasie, questi serpeggiavano tra i sepolcri e le ombre, finendo con l’incarnare un incubo.

La cena – 9 ottobre

Seduta allo scrittoio, alla fioca luce di una candela, mi soffermo sul contrasto tra la luce e il buio che la circonda. Mi rendo conto, allora, che ad attirare la mia attenzione è quel buio che non permette di distinguere le forme, l’oscurità in cui nascondere e nascondersi. La tenebra riverbera un significato ibrido, a metà tra l’oblio e il mistero.

La radio ripropone un vecchio pezzo blues e mi spinge con la repentinità di un salto quantico verso quel cosiddetto ieri ormai lasciato dietro, distanziato dal percorso lineare, irreversibile, del tempo.

8 ottobre 2019

Abbiamo finito di cenare, restano i piatti svuotati, la bottiglia di Nebbiolo quasi intatta e il tegame con gli avanzi ancora tiepidi. È calata la notte, un catafalco stellato rovesciato sulle case a dare l’addio al giorno.  Titillando una briciola di pane, mi sorprendo a lasciar uscire la voce, incapace di contenerla. Ed è una voce calda, sicura, che non teme ripensamenti: «Talvolta vorrei scomparire nell’oblio.»

I commensali sollevano lo sguardo e mi fissano le labbra quasi ad accertarsi che quella appena udita sia una voce scaturita dall’ugola e non un rumore imbarazzante di cloaca. Ma l’ugola si sa, è uno strumento demonico che dà voce alle viscere. Espelle parole con la stessa cadenza di un rigurgito, evacua pensieri con intenzioni di purga officinale. Non si soffermano sugli occhi, no. Fissano la bocca e immediatamente la citano in giudizio.

Massimo, il più ardito tra loro, accenna a chiedere: «Che stai dicendo?»

Silenzio. Diego cerca nel pavimento una crepa da cui fuggire.

Ora che le parole hanno attraversato il tavolo e si sono lasciate dietro i nostri respiri impastati di noce moscata e salvia, altre premono per uscire allo scoperto. Mi tremano le mani. La voce, no. La voce è ferma e dardeggia sul costato dei commensali, mira al cuore.

«Esistono due me.» Ingoio un sorso d’acqua, poi proseguo: «Una è quella dei pixel, dell’identità virtuale. È una “me” mutevole, un dagherrotipo travestito da avanguardia digitale. Nasce e muore dentro una fotografia. La sua fine non vi disturba…»

Incalzo: «L’altra invece è la “me” che avanza, sospinta, tra le sinapsi. È una realtà neurale. Vive nell’inconscio, ma abita la materia. È carne impastata nell’intelletto. L’idea che io possa lasciarla perire vi disorienta. Perché?» domando «Perché la prima può essere fatta a pezzi senza destare il minimo sussulto della coscienza, invece quest’ultima è intoccabile come un paria?»

Diego si porta una mano sulle labbra come a ricacciare in gola la voce. Ha lasciato dietro di sé le rivoluzioni, i tumulti, il rullo di tamburi che richiama alla rivolta. Lui ha scelto la quiete dei vigneti su in collina, la mezza misura che mette tutti d’accordo, rende complici e fratelli. Dissentire è già una ribellione. Perciò tace, mordendosi il labbro.

Li osservo. Massimo ha iniziato a scavare con il pensiero una tana nel pavimento.

«Se la mia libertà fosse misconosciuta, se venisse sfrondata anno dopo anno fino a ridurla a un lumicino e la mia Indipendenza si riducesse a un angolo di luce via via più stretto, vorrei mi fosse concessa almeno un’ultima scelta… »

Dopo un momento di silenzio è Niccolò — l’amico d’infanzia — a prendere la parola, colto da un’intuizione. L’alito febbricitante affatica le parole, le appesantisce: «In ogni caso, morire e amore in fondo si somigliano… ». Intuizione che fa eco alla palese assonanza tra i nomi e a quella più velata tra i significati. «Talvolta, lasciar morire è un gesto da innamorati» mi affretto a suggerire stringendo la mano di Massi nella mia. A sopravvivere stanotte è il mistero non della morte che in fondo è la nostra sola certezza, bensì di che cosa significhi – purgato di ogni maschera romantica e religiosa – l’amore.

Dietro il vetro della finestra il buio attende. Ma sopra il tavolo illuminato a giorno, non osa allungare nemmeno un’ombra.

Il lazzaretto – 7 ottobre

Cerco di buttare giù una bozza della relazione da inviare ai Servizi Socio-Assistenziali per chiedere di rivalutare il mio progetto di Vita Indipendente e mentre mi arrovello su leggi, norme e temi etici dall’aspetto di statue rinascimentali, inavvicinabili e austere, mi imbatto nel Secondo Piano biennale di Azione per la Vita Indipendente. Lo annuso, ci spingo gli occhi dentro, parola dopo parola. Lo mastico assaporandone il retrogusto d’idillio e di favola d’altri tempi. È perfetto! Nulla che svii il lettore da quel concetto semplice eppure da tutti sottovalutato che è l’indipendenza. Leggo e mi vengono le lacrime agli occhi perché se questo piano venisse concretizzato io sarei libera. Libera. Vi suona familiare questo termine?

Libera, non come mi vuole la Costituzione italiana che all’Art. 13 sancisce l’inviolabilità della libertà umana ma che all’Art. 30 stabilisce anche il dovere dei genitori di mantenere i figli, dovere poi trasfigurato dalla decisione della Cassazione di disporre che in presenza di disabilità i genitori DEVONO farsi carico delle esigenze del figlio maggiorenne in quell’ottica di solidarietà che ispira gli obblighi familiari disposti dal nostro ordinamento. Via via che le parole s’affastellano pronte ad essere incendiate dentro un calderone, mi ritrovo a constatare che nessuna libertà mi attende. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti quei principi costituzionali che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini? Sogno l’indipendenza ma vivo in un paese che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, e nel quale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Sogno la libertà ma devo accontentarmi di un’assistenza parziale e lacunosa; devo accettare di rinunciare a “vivere” per fare stancanti colloqui con aspiranti assistenti che all’ultimo mi diranno che non se la sentono; devo rinunciare alla serenità per rivendicare il mio diritto alla libertà.

Sogno la libertà ma con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche il legislatore mi ha rispedita nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi (crippled, pardon) era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

Perché al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Norme e leggi scorrono sotto i miei occhi producendo lo stesso attrito di una striscia di carta abrasiva sulla pelle e mi riportano nel rinascimento, dove Gregorio Magno s’affretta a segregarmi in appositi lazzaretti sociali (che oggi si chiamerebbero Rsa) con la speranza che Peste (oggi Covid19) mi colga e ponga fine alle mie meritate sofferenze terrene.

Indipendenza – 27 settembre

Da ieri (e fino a oggi pomeriggio) ho vissuto una delle esperienze più brutte della mia vita. Ho temuto per la salute di mio padre. Il pericolo non è del tutto rientrato, ma spero mi darà il tempo di organizzarmi per trovare una totale indipendenza e permettere a papi di affrontare serenamente l’intervento chirurgico in programma.

In queste ore di pianti senza ritegno ho pensato spesso alle parole di stimati caregiver — Sara Bonanno, ad esempio — e il loro eco nella mente mi ha fatto comprendere quanto io non sia mai riuscita a vivere una vita indipendente completa e soddisfacente. Ho spesso sentito dire che nel nostro paese ai caregiver familiari non è permesso ammalarsi… Vero. Mio padre è colui che non mi ha mai negato il suo aiuto nemmeno se in preda a un bruttissimo attacco di lombo-sciatalgia o a una recidiva di ernia inguinale. È colui che quando mi regge tra le braccia trattiene i gemiti di dolore pur di non farmi cadere e sedermi comoda sulla carrozzina. Non esistono ferie per i caregiver familiari. Mio padre sostituisce le mie assistenti quando sono in malattia, in vacanza, a riposo. Le sostituisce perché spesso non si riescono a trovare altri assistenti disposti ad una repentina sostituzione.

Ho riflettuto molto su questo. E sono giunta alla conclusione che le difficoltà riscontrate nel trovare assistenti personali abbia creato un cordone ombelicale tra me e papà, alla stregua di quello che a suo tempo mi ha tenuta legata a mia madre nel tepore del suo grembo.

Papi è l’uomo più importante della mia vita. Il mio faro, la luce in fondo al tunnel. Papi ha dormito diversi mesi su una poltrona durante i miei ricoveri in ospedale, mi ha alzata e coricata innumerevoli volte in un giorno ogni volta che a causa di un’infezione respiratoria non potevo stare troppo tempo seduta perché da seduta io non riesco a tossire. Ma papi è anche un eclettico, un creativo, un saggio, un fantasioso e delicato umorista. Non prende mai la vita troppo sul serio – quando ero bambina ogni mattina mi svegliava con una canzone e se trovava delle briciole sul mio letto di solito mi chiedeva: “Sei andata in cucina stanotte a prepararti un panino?” Naturalmente io non ho mai camminato… Un giorno, qualche tempo fa, gli ho chiesto di tosare il prato e lui ha chiosato: «Per caso inciampi con le ruote nell’erba?» Papi è il mio papi. Mio. Ma devo imparare a essere più indipendente.

Ps. Per fortuna, c’è chi non è geloso… 😁

La prima volta – 17 agosto

Il treno per Firenze era in partenza, una voce imperiosa di donna lo aveva annunciato agli altoparlanti. Soltanto una lunga corsa sulla piattaforma, tentando di schivare i viaggiatori fermi sulla banchina e i bagagli gettati per terra a catafascio mi aveva permesso di raggiungere in tempo la carrozza di testa, quella destinata ad accogliere le sedie a rotelle. Il sole tiepido di quel mattino sul finire dell’estate rampinava le pupille fino a far strizzare gli occhi. C’era odore di cuoio, di carta appena uscita dalla biglietteria, di caffè e di paste dolci. Ricordo le voci, una mescolanza di accenti e di timbri che accompagnava il calpestio disarmonico sull’assito della vecchia stazione. Quel giorno Wasim mi aspettava lì di fronte, sotto la pensilina del binario 6 di Porta Nuova, reggendo sulle spalle, dentro un piccolo zaino, tutto il suo bagaglio. 

Il personale del treno mi aveva aiutata a salire sulla carrozza della prima classe che a quell’ora del mattino, era solitamente silenziosa e vuota. Era stato un buon viaggio, uno di quelli che al ritorno sei contenta di aver affrontato.

Fin dall’arrivo a Santa Maria Novella, quel viaggio aveva risvegliato un bel po’ di nostalgie. Dapprima disorientata dalla zaffata di caldo che si era stretta attorno alle nostre gole appena scesi dal treno, poco alla volta avevo cominciato a ricordare e, lasciando che Wasim mi rincorresse trascinando la mia valigia, a passo svelto mi ero diretta in strada, tra i bottegai dall’aria sorniona sempre pronti a trescare scambi vantaggiosi di merce e di denaro. Non avvertivo la stanchezza, solo un sordido malessere che pungolava il cuore, tant’è che attraversando il Borgo dei Greci per arrivare in Santa Croce qualche lacrima era scivolata giù dagli occhi, proprio all’ora del tramonto, quando il sole di settembre affogava nell’Arno, ancora rovente, con uno sfrigolio a pelo d’acqua. Non c’era un filo di vento, quel giorno, e nei vicoli le inferriate dissotterravano l’odore degli scantinati, una mescolanza di note aspre e fruttate dei vini, ammorbata dall’afrore malsano delle muffe. Nell’aria, di fronte alle botteghe conciarie, stagnava un odore di pellame così intenso da irritare le narici. 

«Wasim, seguimi!» lo avevo esortato e oltrepassando le osterie e i bugigattoli dalla fioca luce che pareva di lanterne, lo avevo condotto in San Lorenzo dove un gruppo di merciaioli stava smantellando il mercato. Al nostro arrivo, un volo di piccioni aveva smosso l’aria spezzando quel sentore di immutabilità che si respirava nella città vecchia, cosicché anche le memorie si erano fatte più vivide, come rinfrescate. In quel momento, mentre una ruota della mia sedia si era incagliata nel porfido facendomi vacillare fino a perdere l’equilibrio, lo sguardo era piombato su un cesto di giunco colmo di vagoni di legno in miniatura, sormontati, ciascuno, da una lettera dell’alfabeto. Era subito apparsa nitida nella mente la visione della lunga locomotiva che il mio primo fidanzato mi aveva regalato, un convoglio mercantile destinato esclusivamente al trasporto dei nostri nomi congiunti da un’inossidabile copula in odore di eternità: Tania e Tommaso. Anche quando il miraggio di infinito era svanito nell’epilogo della nostra relazione e il trenino era stato stivato in una scatola di cartone insieme a vecchi giornali di cui si era persa traccia, quella congiunzione letteraria aveva continuato a tenere uniti i nomi, a inchiavardarli per sempre a quegli anni ormai lontani. La memoria attingeva a ogni rimando sensoriale, vigile, instancabile, selvatica.

Il viaggio a Firenze, tuttavia, era stato indimenticabile più per un altro motivo. Per la prima volta, infatti, avevo messo il mio corpo, completamente e senza maschere, nelle mani di uno sconosciuto. Poiché Wasim a quel tempo non era altro che uno dei tanti candidati al lavoro che offrivo, uno – oltretutto – che nella vita non aveva mai sentito parlare di Atrofia Muscolare Spinale, né aveva ben chiaro che cosa significasse vivere con una disabilità motoria. La prima notte a Firenze, arrabattandoci dentro la stanzetta di una locanda ubicata proprio dietro la Galleria dell’Accademia, ci eravamo studiati, pezzo per pezzo. Distesi sul letto, di fronte ad una grande finestra da cui entrava una luce polverosa di cielo notturno, avevamo parlato, tenendoci la mano, finché le prime luci del mattino si erano allungate sul letto e il frinire dei grilli si era risolto in un silenzio opalescente d’alba. Parlando, Wasim aveva imparato a mettermi il cuscino tra le ginocchia dopo avermi voltata su un fianco, a sollevarmi i capelli alzandomi la testa con una mano e ad aprirli a ventaglio sul cuscino (ché non ho mai sopportato il sentirli appiccicati alle guance e agli occhi), e a distendermi l’orecchio quando, voltando la testa su un lato, si piegava. 

«Tutto bene?» domandava dopo ogni nuova istruzione. 

Aveva imparato ad attendere, dietro la porta chiusa, che la pipì giungesse senza fretta, con la lentezza ostinata di qualcosa che non vuole venire allo scoperto, e aveva imparato a guardarla mentre si disperdeva nel vortice dello scarico fognario. Del resto, nei mesi a seguire, l’avrebbe vista più volte di quelle in cui avrebbe visto uno qualsiasi dei miei vestiti. Aveva imparato a reggere davanti alla mia bocca la bacinella in cui sciacquavo la schiuma del dentifricio dopo essermi lavata i denti, e con lo stesso spirito di intraprendenza aveva imparato – sebbene con risultati meno soddisfacenti – a pettinarmi i capelli e a dipingermi gli occhi con il kajal. In meno di quindici giorni avrei desiderato non tornare più nella mia vecchia casa. Avrei iniziato a cercarne una in città, in quella Torino dove Nietzsche “conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto”. Il viaggio a Firenze aveva aperto la strada al cambiamento.