COVID19 e la gestione empirica della Non Autosufficienza – 23 ottobre

Non intendo archiviare la questione sollevata quando nutrivo l’ipotesi di una positività al Covid19. Non ho nessuna intenzione di concludere la faccenda con un: «Tutto è bene quel che finisce bene» giacché, di fatto, niente può dirsi letteralmente finito.
Siamo in piena pandemia, ogni giorno aumentano i casi di persone positive, il Governo prende ridicoli provvedimenti in odore di presa per il culo (chiusura dei locali e coprifuoco alle 23.00 può forse avere più efficacia di una corretta informazione circa l’utilizzo delle mascherine e di un ritorno alla DAD?), noi — storpi, inutili, fastidiosi piantagrane non autosufficienti — continuiamo a non essere considerati.

Io voglio pensare positivo, sotto il mio costato un afflato gioioso, sanguigno, catartico, accelera il battito del cuore e lo esorta a non arrendersi. Tuttavia, la situazione attuale non mi permette di abbassare la guardia.
«Che ne è di una persona affetta da una grave patologia pregressa nel malcapitato caso venisse trovata positiva?»
Apparirà sui necrologi in una foto sorridente accanto al consueto: “È mancato all’affetto dei suoi cari…”.
No, non lo voglio accettare.
Da quando sono nata, quarantadue anni fa, ho visto la Scienza fare progressi, dare un nome alla mia malattia, ricercarne una cura e nel frattempo trovare strade alternative per darmi una vita più lunga e dignitosa. Ma soprattutto ho visto le Istituzioni aprire le porte dell’istruzione primaria a bambini come me ai quali era stato vietato l’inserimento nella Scuola Materna perché nessun istruttore era pronto ad occuparsi di una faccenda tanto delicata quanto facilmente risolvibile. Ho visto divenire normalità l’accesso agli studi superiori e agli Atenei di persone con patologie altamente invalidanti. Ho visto nascere strutture cliniche specialistiche che finalmente mi hanno strappata ai reparti di Pneumo-Tisiologia dove ad ogni infezione più tosta venivo ricoverata accanto a pazienti malati di tubercolosi, senza alcuna precauzione. In questi Centri ho visto dare importanza alla malattia rara da cui sono affetta, legittimarne il diritto a essere studiata e trattata con rispetto, liberandola dal calderone delle malattie-cavia sulle quali adottare terapie generiche e troppo spesso soluzioni d’emergenza drastiche coercitive e dolorosissime. Ho visto persone rassegnate alle morte tornare a vivere con una rinnovata serenità e una virginale fiducia nel futuro.
Per cui non posso accettare di tacere, ora che dopo un iniziale smarrimento nazionale — più di dieci mesi fa — ancora nessuno ha realmente preso in considerazione l’idea di trovare al quesito di cui sopra una soluzione meno incivile e barbarica dell’abbandonarci alla nostra sorte.

Simbiosi – 12 ottobre

Sovente nel raccontare di me e della mia vita indipendente dimentico di essere cresciuta con una malattia neuromuscolare e di non essermene mai affrancata in tutti questi anni.

Certo, l’Amiotrofia Spinale è parte di me, tuttavia non l’ho mai vista come un’appendice, né tantomeno come l’integrazione tra corpo e morbo. No, non è mai stata me. L’ho sempre vista più come un alter ego, anziché come l’ideale gemello siamese a cui sono unita dalla nascita. Uno sdoppiamento. 

Perché c‘è una Tania malata e c’è una Tania che dimentica di esserlo. Quest’ultima vive da sola, aiutata da un’assistente personale; progetta, si arrabatta per sbarcare il lunario, scrive per passione e per pagare le spese condominiali, viaggia per sentirsi libera e si getta a capofitto nella fiumana per diletto e per curiosità. L’altra, quella con il gene mutato, trascorre settimane chiusa in casa per guarire da un’infezione respiratoria, usa una macchina per tossire e un’altra per la ginnastica respiratoria; perde peso ad ogni influenza e sa che la vita non è mai un percorso dato per scontato e che tutto può cambiare con la stessa rapidità di uno sbattere di ciglia. A seconda delle circostanze, una è dominante, l’altra recessiva. 

C’è un momento in cui le due s’incontrano. Una frazione di secondo. E non se ne accorgono. Credo succeda perché sono l’una l’immagine speculare dell’altra e quando si osservano, ciascuna crede di vedere se stessa. Per poter conservare memoria dell’altra devono, in qualche modo, opporsi. Pur esistendo contemporaneamente, seguendosi alla stregua di un’ombra. Ci sono momenti, quindi, in cui mi ricordo di avere una compagna di viaggio simbiotica, ma preferisco pensare ad accordi più edificanti: alla pupilla che racchiusa nell’iride dà le giuste sfumature allo sguardo, allo stillicidio della pioggia sul prato; al mio cuore e al mio cervello che si contendono una scelta; alle ciliegie succose dentro un canestro arido di rami di vimine, all’armonia tra la pazzia e la creatività; alle ore della noia ciascuna uguale alle altre, alle mani congiunte…

Mi sovviene allora che alle mie deboli mani son solita attribuire in buona parte la ragione della mia felicità: quando reggo tra le mani una tazza di tè fumante, quando avverto sotto i palmi la barba ispida di Massi, ogniqualvolta le dita scivolano sul ventre soffice della gatta, quando sfogliano le pagine di un libro, quando dipingono il viso; finanche quando si riscaldano dentro le robuste mani di altri o quando i polpastrelli scivolano con leggerezza di piuma su un volto amato.

Qualsiasi felicità è un capolavoro: il minimo errore la falsa, la minima esitazione la incrina, la minima grossolanità la deturpa, la minima insulsaggine la degrada. (Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar)