
Stasera nella stanza risuona una voce graffiante e ferina che fa affiorare memorie dagli angoli bui e le lascia beccheggiare sul pavimento come petali avvizziti dentro un acquitrino. Lentamente, ma con spinte profonde fin dentro le carni. E in mezzo a questa stanza-palude le mie mani rivivono il tocco gelido del marmo, quel tentativo di dare un senso alla scarsa mobilità inseguendo l’indicazione ieratica e gelida delle statue. “La scultura è la meno carnale delle arti; la sfida che propone deve affidarsi al freddo…” scrive Dario Capello. Oggi so che per dare il giusto significato alle mie mani devo seguire un’altra direzione, quella che la statua non incarna. Quel verso, quella traiettoria che scorre dal gelo inorganico della scultura al calore animale del sangue. Se nella vita avessi seguito ciò che mi veniva suggerito, forse, avrei imparato più in fretta a non confondere il bisogno delle mani altrui con il rimettersi alla loro volontà. Invece, c’è voluto tempo. Ho dovuto confondere la pelle con la pietra sbozzata e abrasa, le ossa con lo scheletro di travertino. Ho dovuto affondarle nella roccia e immaginarle sepolte nelle sue viscere. Ho dovuto abbandonarmi alla morte per comprendere quanto fossi viva.