Un autunno magenta – 3 ottobre

No, non mi sono ancora abituata all’autunno! Ad ogni pagliuzza di sole che sbuca dalla coltre bigia del cielo io inizio ad avvertire un formicolio dietro gli occhi, giù nella corteccia cerebrale, fin dentro gli impulsi elettrici delle terminazioni nervose. Voglio uscire! Una manciata di minuti, un quarto d’ora, un pomeriggio intero…

L’eco di morte che nell’ultima settimana ha accompagnato ogni mio spostamento— mentre attraversavo il corridoio per entrare in salotto, nel bel mezzo della cena, nell’istante in cui il timer dello spazzolino elettrico indicava che erano trascorsi i due minuti della pulizia orale — si mette in disparte: all’ombra subentra la luce accecante di una stella che arde, incandescente, come il metallo dentro una fucina. Una luce capace di generare la vita. Allora, il mio umore color piombo si colora di magenta, ravvivando la pelle e lo sguardo.

«Se potessi scegliere in che modo morire, vorrei farlo sotto il sole tiepido di settembre… » confido alla mia silenziosa amica.

Penso, abbassando lo sguardo sul maglione traforato e vivido come il mio sentire, che quel giorno mi piacerebbe indossare un abito dal colore intenso, vivace, allegro come il mio essere più profondo. E intanto mi sale in gola un amore sconfinato per la vita, per questa fulgida esistenza color magenta, per questo cammino che non può e non deve mai anteporre la scelta di vivere a quella di morire, legittimando la prima e ripudiando la seconda. Avverto tra le corde vocali e le mucose umide della laringe un amore incontenibile per la libertà, un diritto che ogni essere umano non deve mai dare per scontato, né credere di aver mai realmente raggiunto.

Vestita di magenta — colore che nasce dalla mescolanza tra il rosso e il blu — non ho più dubbi.

C’è una parte di me in cui regna la dittatura del sangue, una parte che pulsa in sincrono al cuore, che nutre le carni, le infiamma. É la parte rossa che guarda al domani con entusiasmo, che scrive per aver sentito le parole vibrare sotto il costato. Quella che di fronte a una finestra sente l’esigenza di spiccare il volo, lanciarsi verso l’orizzonte per un perentorio desiderio di libertà.

Poi c’è l’altra, quella blu, quella che deve contenere l’enorme pressione di questo flusso continuo e irrefrenabile. È la parte a cui tocca il difficile compito di rallentare la corrente, arginare le dirompenti emozioni. Per tentare di dare il giusto equilibrio a quell’impetuoso sentire in cui ogni slancio emotivo è un salto nel vuoto, un volo in picchiata.

Il magenta non si trova all’interno dello spettro del visibile. Non lo troverete mai tra i colori di un arcobaleno. Eppure proprio come la mia percezione della vita — arbitraria ed empirica — il magenta nasce da un’intima interpretazione visiva della luce. È fuoco e acqua. Come me.

E anela alla vita, dando alla morte il giusto grado di vividezza e di luce, l’equilibrio perfetto tra un colore caldo e uno freddo.

Lo spirito nomade – 19 agosto

Nella vita ho sempre voluto andare via, allontanarmi, e questo spirito nomade mi ha condotta fuori da tanti usci e da molte case, ma ogni volta che mi sono voltata per essere sicura di aver fatto parte di qualcosa — un focolare attorno al quale raccogliersi, una famiglia con cui condividere legami di sangue forti e resistenti come corazze —ogni volta che mi accertavo di essermi lasciata alle spalle un nucleo coeso di elementi, un cuore da cui distaccarsi soltanto opponendo una forza inversamente proporzionale a quella d’attrazione, ho trovato l’ombra ad attendere il mio sguardo. Sempre, ogniqualvolta ho abitato un luogo, un interno che ricacciava al di là dei suoi confini un esterno fatto di muri, di terra, di foglie, di ali, di occhi. Sempre. Non soltanto nella casa torinese.

Lì, però, l’ombra si era fatta maestosa, aveva abbandonato le circonvoluzioni della mente per divenire lunghezza d’onda. Eppure il mio vissuto è sempre stato costellato di ombre, molte sono quelle che ho visto, scorto, creato, disperso… Di alcune ho addirittura goduto, ombre liminari al piacere, distese al suo cospetto in attesa di essere prese. L’ombra che lambiva la casa, tuttavia, aveva in sé l’austerità di una retta, il senso claustrofobico di ciò che è infinito. Il desiderio di andare via era, quindi, tornato a spazzare quel miraggio di stabilità che certe notti dormite per intero, senza risvegli prima dell’alba, avevano mostrato all’orizzonte.

Era riecheggiato, allora, nel silenzio promiscuo di quelle stanze il sentenziare sornione di Wasim: «Noi siamo zingari!» e improvvisamente l’oscuro richiamo di sentina era stato messo a tacere dall’aria fresca degli spazi aperti, dai viaggi forieri di promesse, dall’alchimia del mettere a nuovo lo sfasciume di un’esistenza. 

Di luce e d’ombra – 13 agosto

Sul Monte Tabor, il Colle dell’Infinito

La strada per salire a Recanati s’inerpicava sulla collina, all’ombra delle querce e degli olmi. Via via che lasciavamo dietro di noi la costa assolata, l’abbraccio odoroso del Conero — ginepro rosso, euforbia e gigli selvatici — ci raggiungeva come un commiato. Intorno a noi, soltanto i sovrumani silenzi di leopardiana memoria e un flebile brusio di focolare dietro gli scuri serrati.

Io avevo indosso un abito leggero e sulle spalle il foulard blu notte con i ricami dorati che la sera prima avevi mandato Isabella a comprarmi perché certo che mi sarebbe piaciuto.

Giunti sulla piazza della paese, ad attenderci avevamo trovato lo stesso silenzio che ovattava i portoni, le imposte e perfino gli usci delle osterie. In una di queste siamo entrati (tenendoci la mano, forse, non ricordo) e abbiamo preso posto al tavolo, un pesante fratino in noce con delle sgrossature che ne rendevano la superficie rasposa.

Fuori s’intravedevano le ombre degli alberi mossi dal leggero vento che lì, a quelle altitudini ombrose, sferzava il collo e in un batter di ciglia faceva rabbrividire. «Forse sono gli spiriti cari al Poeta che quassù non vogliono visitatori…» ti era uscito di bocca, quasi a leggere il mio pensiero. La mente era prontamente accorsa ai versi che conoscevo a memoria e con la stessa rapidità era tornata sui volti dei presenti. Su quello di Isabella, talmente armonioso e perfetto da togliere il fiato e su quello di mamma Eliana che ci seguiva ovunque con occhi di civetta, occhi di chi quei luoghi li conosce fin nei minimi dettagli per averli custoditi nel cuore, anno dopo anno, in silenzio. E in ogni volto vi era un lato in ombra, uno luogo nascosto alla luce che ne faceva risaltare le movenze, la sinuosità dei lineamenti.

Il pensiero dell’ombra ci aveva appena sfiorati, ma con il tempo sarebbe tornato a farci visita. Mi ero accorta che l’ombra non sprofondava nel buio perché a reggerla vi era il lato rivolto alla luce. L’uno non poteva esistere senza l’altro.

Dalla tua morte, penso spesso a quei volti e al segreto che ci avevano rivelato: l’ombra non si trasforma in tenebra se a sorreggerla vi è la luce.

Ora tu e io siamo le due facce di una stessa medaglia, una ravvivata dal sole, l’altra rimessa alla penombra. Certo, non darei per scontato di essere io quella in luce.