


Seduta allo scrittoio, alla fioca luce di una candela, mi soffermo sul contrasto tra la luce e il buio che la circonda. Mi rendo conto, allora, che ad attirare la mia attenzione è quel buio che non permette di distinguere le forme, l’oscurità in cui nascondere e nascondersi. La tenebra riverbera un significato ibrido, a metà tra l’oblio e il mistero.
La radio ripropone un vecchio pezzo blues e mi spinge con la repentinità di un salto quantico verso quel cosiddetto ieri ormai lasciato dietro, distanziato dal percorso lineare, irreversibile, del tempo.
8 ottobre 2019
Abbiamo finito di cenare, restano i piatti svuotati, la bottiglia di Nebbiolo quasi intatta e il tegame con gli avanzi ancora tiepidi. È calata la notte, un catafalco stellato rovesciato sulle case a dare l’addio al giorno. Titillando una briciola di pane, mi sorprendo a lasciar uscire la voce, incapace di contenerla. Ed è una voce calda, sicura, che non teme ripensamenti: «Talvolta vorrei scomparire nell’oblio.»
I commensali sollevano lo sguardo e mi fissano le labbra quasi ad accertarsi che quella appena udita sia una voce scaturita dall’ugola e non un rumore imbarazzante di cloaca. Ma l’ugola si sa, è uno strumento demonico che dà voce alle viscere. Espelle parole con la stessa cadenza di un rigurgito, evacua pensieri con intenzioni di purga officinale. Non si soffermano sugli occhi, no. Fissano la bocca e immediatamente la citano in giudizio.
Massimo, il più ardito tra loro, accenna a chiedere: «Che stai dicendo?»
Silenzio. Diego cerca nel pavimento una crepa da cui fuggire.
Ora che le parole hanno attraversato il tavolo e si sono lasciate dietro i nostri respiri impastati di noce moscata e salvia, altre premono per uscire allo scoperto. Mi tremano le mani. La voce, no. La voce è ferma e dardeggia sul costato dei commensali, mira al cuore.
«Esistono due me.» Ingoio un sorso d’acqua, poi proseguo: «Una è quella dei pixel, dell’identità virtuale. È una “me” mutevole, un dagherrotipo travestito da avanguardia digitale. Nasce e muore dentro una fotografia. La sua fine non vi disturba…»
Incalzo: «L’altra invece è la “me” che avanza, sospinta, tra le sinapsi. È una realtà neurale. Vive nell’inconscio, ma abita la materia. È carne impastata nell’intelletto. L’idea che io possa lasciarla perire vi disorienta. Perché?» domando «Perché la prima può essere fatta a pezzi senza destare il minimo sussulto della coscienza, invece quest’ultima è intoccabile come un paria?»
Diego si porta una mano sulle labbra come a ricacciare in gola la voce. Ha lasciato dietro di sé le rivoluzioni, i tumulti, il rullo di tamburi che richiama alla rivolta. Lui ha scelto la quiete dei vigneti su in collina, la mezza misura che mette tutti d’accordo, rende complici e fratelli. Dissentire è già una ribellione. Perciò tace, mordendosi il labbro.
Li osservo. Massimo ha iniziato a scavare con il pensiero una tana nel pavimento.
«Se la mia libertà fosse misconosciuta, se venisse sfrondata anno dopo anno fino a ridurla a un lumicino e la mia Indipendenza si riducesse a un angolo di luce via via più stretto, vorrei mi fosse concessa almeno un’ultima scelta… »
Dopo un momento di silenzio è Niccolò — l’amico d’infanzia — a prendere la parola, colto da un’intuizione. L’alito febbricitante affatica le parole, le appesantisce: «In ogni caso, morire e amore in fondo si somigliano… ». Intuizione che fa eco alla palese assonanza tra i nomi e a quella più velata tra i significati. «Talvolta, lasciar morire è un gesto da innamorati» mi affretto a suggerire stringendo la mano di Massi nella mia. A sopravvivere stanotte è il mistero non della morte che in fondo è la nostra sola certezza, bensì di che cosa significhi – purgato di ogni maschera romantica e religiosa – l’amore.
Dietro il vetro della finestra il buio attende. Ma sopra il tavolo illuminato a giorno, non osa allungare nemmeno un’ombra.