Ormai le uscite con la NIV sono diventate abitudine. In realtà, avere sempre con me il ventilatore polmonare è più una sicurezza che una necessità da quando il mio polmone ha iniziato a espandersi permettendomi di respirare meglio. Tuttavia, la leggerezza con cui ne gestisco l’utilizzo lo ha reso parte di me, un pezzo in più — pesante, peraltro — da portare appresso, ma soprattutto ha sancito la vittoria della mia mente sulla malattia.
All’inizio avevo paura di dover sopportare gli sguardi delle persone, il tacito domandarsi chi fosse quella donna gracile seduta su un carro armato, una guerrigliera con una maschera sul volto attaccata a un lungo tubo in cui passava l’aria sospinta nei polmoni.
In ospedale era facile, tutti portavamo con estrema grazia qualcosa che fuori da quelle mura avrebbe richiamato una morbosa attenzione sui nostri corpi. Ma qui, in mezzo alla fiumana, in questo crocevia di gente che non ha mai oltrepassato la soglia di un ospedale, di vanesi che in una donna con un respiratore vedono una guerriera pronta a farsi esplodere, di bambini a cui i genitori hanno insegnato a non guardare anziché capire, qui uscire mi metteva addosso un’ansia venefica, asfissiante .
Tuttavia, di timore non ha mai ostacolato quell’affilato desiderio di sperimentare che fin dall’infanzia ha pungolato il costato nutrendo ogni esplorazione. E stavolta che cosa ho scoperto? La donna seduta su un carro armato e attaccata a un respiratore passa in mezzo alla folla senza destare sguardi, si avvicina con naturalezza ai viandanti per chiedere informazioni e questi le rispondono con altrettanta naturalezza. I bambini le passano accanto con disinvoltura, come se fossero abituati alla diversità.
Per caso, qualcosa sta cambiando in questo paese che fino a ieri era pronto ad additare e a tenere a distanza e a sognare ghetti in cui confinarci?
**Fotografia dello scorso inverno