L’abito bordeaux – 31 luglio

Ieri è stata la mia prima volta dopo due settimane. La prima volta che — con indosso un abito di tulle bordeaux — uscivo dalle mura domestiche. La prima volta che lasciavo a casa il respiratore perché non sentivo mancarmi il respiro. La prima volta che mi truccavo, dopo due lunghissime settimane trascorse in pigiama, e lo facevo da sola, aiutata dalla mia assistente, Clara, a sollevare la mano per poter dipingere autonomamente sul mio viso. Ho maturato negli anni una predisposizione a far quadrare il cerchio, a cercare un modo di fare le cose in modo diverso da come le facevo l’anno prima. La malattia è pur sempre progressiva: occorre stare al passo con i tempi, precedere in astuzia il suo decorso, non fermarsi. E di fermarmi certo non ne ho voglia. Non adesso che il ricordo di ieri mi fa ben sperare. Non ieri che al primo refolo di brezza giunto a sorpresa dal bosco, ho gettato le scarpe sul prato e a piedi nudi ho camminato verso la Cappella della Madonna del Bosco con gli steli d’erba che solleticavano le dita e gli ultimi raggi del sole che sempre più fievoli preannunciavano il tramonto.

Oggi mi riposo. Resto a casa, ma con addosso un costume anziché un pigiama.

La donna con il respiratore – 24 luglio

Ormai le uscite con la NIV sono diventate abitudine. In realtà, avere sempre con me il ventilatore polmonare è più una sicurezza che una necessità da quando il mio polmone ha iniziato a espandersi permettendomi di respirare meglio. Tuttavia, la leggerezza con cui ne gestisco l’utilizzo lo ha reso parte di me, un pezzo in più — pesante, peraltro — da portare appresso,  ma soprattutto ha sancito la vittoria della mia mente sulla malattia. 

All’inizio avevo paura di dover sopportare gli sguardi delle persone, il tacito domandarsi chi fosse quella donna gracile seduta su un carro armato, una guerrigliera con una maschera sul volto attaccata a un lungo tubo in cui passava l’aria sospinta nei polmoni.

In ospedale era facile, tutti portavamo con estrema grazia qualcosa che fuori da quelle mura avrebbe richiamato una morbosa attenzione sui nostri corpi. Ma qui, in mezzo alla fiumana, in questo crocevia di gente che non ha mai oltrepassato la soglia di un ospedale, di vanesi che in una donna con un respiratore vedono una guerriera  pronta a farsi esplodere, di bambini a cui i genitori hanno insegnato a non guardare anziché capire, qui uscire mi metteva addosso un’ansia venefica, asfissiante . 

Tuttavia, di timore non ha mai ostacolato quell’affilato desiderio di sperimentare che fin dall’infanzia ha pungolato il costato nutrendo ogni esplorazione. E stavolta che cosa ho scoperto? La donna seduta su un carro armato e attaccata a un respiratore passa in mezzo alla folla senza destare sguardi, si avvicina con naturalezza ai viandanti per chiedere informazioni e questi le rispondono con altrettanta naturalezza. I bambini le passano accanto con disinvoltura, come se fossero abituati alla diversità. 

Per caso, qualcosa sta cambiando in questo paese che fino a ieri era pronto ad additare e a tenere a distanza e a sognare ghetti in cui confinarci?

**Fotografia dello scorso inverno

La pupilla randagia – 6 giugno

…freme, scalpita, respira.

Un altro giorno di sole, un altro giorno senza respiratore. Per poche ore, certo ma è già tanto. La mia mente, all’istante, cancella il tempo trascorso con la mascherina della NIV sul viso e si focalizza su quel tempo breve in cui la pelle è libera, il volto ritrova la sua identità originaria.

Un altro libro iniziato, un’altra passeggiata con il frinire dei grilli nelle orecchie. Il profumo del gelsomino alle spalle, il lessico familiare di Natalia Ginzburg tra i pensieri. Il volto abbronzato, la primavera che scopre le braccia, i baci rubati al domani per l’irrequietezza che mi distingue e segna la pupilla randagia e scura con quella sua fretta che non fa sconti e che freme, scalpita, respira.

Lettera aperta ai complottisti del 5G – 25 maggio

“Cari lettori — distratti, detrattori, menefreghisti, o qualunquisti — a scrivere questa cornice è una donna con insufficienza respiratoria grave da più di un trentennio, e che nell’ultimo anno si è dovuta abituare all’invadenza claustrofobica della ventilazione assistita (lo so, claustrofobico non è un aggettivo che si addice al sostantivo “ventilazione”, ma vi assicuro che avere 24 ore al giorno una mascherina sul viso può essere fastidioso anche se questa spinge aria dentro le cavità nasali giù fino ai polmoni). Una donna che quando legge di danni permanenti all’apparato respiratorio, seppur su un articolo che gira in rete e tra i notiziari televisivi, inizia ad avvertire come un senso di soffocamento. Tranquilli, è solo panico. Tuttavia, ben sapendo ciò che si prova in taluni frangenti, non riesce a trattenere una certa preoccupazione non per sé — che i danni permanenti li ha già ricevuti in dono dalla patologia neuromuscolare da cui è affetta, bensì per voi. Voi, che pontificate sull’inutilità delle mascherine, voi che vi sentite intoccabili, che guardate con quell’empatia da avvoltoio coloro a cui la vita ha già offerto alla nascita, attaccata al cordone ombelicale, una mascherina con annesso respiratore e ai quali, sospinti da un’arcigna e illusoria sete di onestà intellettuale siete soliti ribadire: «É giusto che le mascherine le indossiate voi che siete più deboli, ma non noi perché a noi non servono!». Voi, che fino all’altro ieri mi camminavate accanto come a percorrere un sentiero di crescita comune e oggi mi mettereste un tenace bavaglio sulla bocca. Voi, che da oggi il rigido girone della prevenzione non riguarda più, sappiate che dal suo interno — dalle sue viscere avviluppate in molteplici anse e zone buie — qualcuno ha un pensiero per voi. Di quale natura esso sia é storia da raccontare altrove.”