Nuda – 31 agosto

Era il primo giorno d’estate. Il silenzio, spezzato dal frinire dei grilli, odorava di erba e candele alla lavanda — blando rimedio, quell’anno, all’orda di zanzare che aveva invaso il paese e colpiva con aggressività di demone affamato ogni lembo di pelle scoperta giungendo finanche a martoriare quella nascosta dagli abiti. La canicola, di certo, non aiutava: la sensazione claustrofobica di umidità nell’aria ci rendeva tutti prede appiccicose e sanguigne al cui richiamo non c’era zanzariera, candela o fiamma in grado di difenderci.

Chiusa nella mia camera, raccontavo al mio fidanzato dell’esame di anatomia umana e di come il professore fosse stato simpaticamente scorretto nel chiedermi come prima domanda di identificare e poi descrivere quegli organi a forma di fagiolo che mi aveva posto sotto il naso. Certo, non potevano essere reni, quindi dovevano essere per forza testicoli. “Carino il prof” avevo pensato “che scherza sul mio cognome con subdola autorità di docente!”. Tuttavia, il libro di anatomia lo avevo studiato così a fondo da ricordarne le didascalie e quindi al prof non era rimasto che stampare un bel 30 e lode sul mio libretto universitario, con buona pace dei coglioni (quelli sezionati sulla cattedra e intrisi di formaldeide e quelli che alla cattedra ci stavano seduti).

Parlavamo e intanto — forse complice il caldo — mi era baluginata nella mente l’idea del mio corpo nudo. Come non avevo mai voluto vederlo e come probabilmente non lo avevo mai davvero visto. Essere nata con una patologia muscolare degenerativa aveva modificato la mia fisicità fino a renderla imperfetta, lontana anni luce dai canoni estetici ai quali i nostri occhi e i nostri cervelli erano abituati. Per questo, negli anni difficili dell’adolescenza avevo maturato un vero e proprio ribrezzo per il corpo — poi, fortunatamente, mutato in accettazione e fierezza — tanto che non perdevo occasione di ferirlo e nasconderlo.

Quella sera con il ronzio penetrante delle zanzare nelle orecchie e il fuoco dell’estate che mi rigirava sulla graticola come una pietanza per palati non troppo raffinati, avevo visualizzato la mia nudità e ne ero rimasta attratta.

«Amore» mi ero affrettata a condividere «ho voglia di posare nuda…beh, diciamo seminuda, insomma una cosa artistica…»

Lui aveva annuito dimostrando di aver compreso il mio bisogno. «Se non ora, quando? Ora è perfetto, l’età è dalla mia parte» incalzavo, con un’euforia effervescente e infuocata «ci sono le idee, la voglia, e soprattutto c’è il corpo. Lo voglio fare… chiamo subito Margherita*!».

Basito ma felice aveva lasciato lo congedassi e telefonassi alla mia amica. Con grande sorpresa non ero stato necessario spiegare molto, Meg immaginava da tempo che presto io e lei avremmo collaborato alla mia crescita interiore e sociale. Sì, perché il mio corpo liberato dalle catene non sarebbe rimasto rinchiuso in uno scrigno come qualcosa di cui vergognarsi. Avrebbe respirato a fondo, si sarebbe riempito il ventre di nutrimento, avrebbe parlato anche, con garbo e delicatezza ma con la potenza di un urlo.

L’ho fatto per imparare a vedermi. Per far pace con la ragazzina che voleva mutilarsi e diventare talmente piccola e insignificante da non essere vista. L’ho fatto perché Meg, con la quale all’epoca mi perdevo come scie di fumo in lunghi e abissali simposi filosofici, è stata dalla mia parte fin dalla prima maglietta sfilata e dal primo paio di jeans abbassati. L’ho fatto per far parlare il mio corpo e quanti lo vedevano. E continuo a farlo con la speranza che un peccato di vanità possa contribuire a far luce sugli aspetti meno visibili e talvolta scabrosi della disabilità che attendono, nascosti dal vestiario o da quello più pesante del pregiudizio, di essere visti e capiti.

*Margherita Riccardi, restauratrice, pittrice e donna di inestimabile talento.

Gypsies – 23 agosto

L’odore della pioggia è un’alchimia sinestetica, il timbro salino ricorda quello degli incontri clandestini, delle stanze rimaste chiuse per troppo tempo, delle lenzuola dimenticate sopra il letto dopo aver raccolto nella trama dell’ordito pianti e umori somiglianti al sapore delle foglie macerate dentro un acquitrino. Quando Torino è sorpresa dalla pioggia non cerca riparo, né si scrolla di dosso il sentore di umidità ventrale che lo stillicidio porta con sé. Torino resta immobile, con una sensualità barocca, ad attendere quella promessa di ritorno primordiale.

Da tre giorni la città era immersa in una liquidità materna che uniformava le percezioni e faceva di una condizione climatica il divieto metafisico ai passaggi di stato. Anche l’effluvio acre degli incensi venduti dagli ambulanti era come annacquato; i portici di piazza Carlo Felice, la piazza su cui s’affacciava la stazione ferroviaria di Porta Nuova, erano un crocevia di viandanti tra le bancarelle di libri usati e chincaglierie dal gusto etnico. Casa nostra, forse, aveva risentito dell’eccesso di umidità di quei giorni. La scala in legno che collegava il piano terreno al soppalco si era rotta: le travi laterali si erano scollate con un crollare di assi sul pavimento. Con i piedi saldi sull’impiantito, Wasim si era voltato con aria indifferente a guardare il relitto sventrato della scala.

«Dev’essere riparata…» gli avevo suggerito.

 «Lo farò…»  era stata la sua risposta. In verità, non lo avrebbe fatto mai e la scala sarebbe rimasta in quell’umiliante condizione di ordigno esploso per più di un mese, finché io non avessi telefonato al proprietario di casa chiedendogli di mandare un falegname a sistemarla. 

Nella casa faceva freddo. Il reticolo fluido della pioggia sui vetri rievocava immagini di segrete, di malsani ricoveri per prigionieri chiusi in un silenzio di tomba, di occhi che cercavano invano la luce dentro una cella buia. 

Wasim aveva gettato la biancheria sul mio letto con un rumore molle di stoffe che si accasciano su stoffe, flaccide carni stanche provate dal martirio della reclusione in un baule di legno tarlato. In un angolo poco illuminato del soffitto, un ragno braccava la notte, la tenebra salvifica, per abbandonare il rifugio e spingersi in cerca di una preda.

«Che cosa dici sempre tu?” aveva domandato Wasim, mentre si toglieva le scarpe e le buttava sotto il termosifone «chi siamo noi?»

«Siamo zingari! Non resteremo mai troppo a lungo in un posto!»  gli avevo risposto prendendo una sigaretta dalla busta di carta verde sopra il davanzale della finestra. 

Avevo ripreso a fumare, non lo facevo da anni. Da quando una brutta broncopolmonite mi aveva strappato dal corpo la giovinezza e il vivere spensierato dei miei diciannove anni. Quando convivi con una malattia degenerativa come la mia devi imparare ad accettare con estrema rapidità e senza fare troppe storie le perdite e i mutamenti. Questo, però, lo impari con il tempo e a tue spese. Da adolescente non immagini quello che ti toccherà in sorte. Non ti aspetti di dover imparare a riprogettare la tua vita decine di volte, ridisegnarla ombra su ombra come a correggere, in modo maldestro, errori di prospettiva. Vivi, semplicemente, il privilegio di un’immaturità che dà alla vita il peso di una piuma. E quando, improvvisamente, sulla piuma grava un carico di piombo precipiti. Un crollo verticale dall’alto di un ideale di bellezza e di immutabilità irraggiungibile. 

A piedi nudi, con indosso un paio di jeans lisi e una t-shirt scolorita e in testa il borsalino color piombo leggermente obliquo, Wasim mi aveva invitata ad andare a letto. Dopo aver infilato la mano sinistra sotto le mie cosce e quella destra dietro il mio collo, mi aveva sollevata e prima di coricarmi aveva ripetuto a gran voce: «We are gypsies!»

Sì, io con l’iride inselvatichita e il destino incerto, e lui con le radici recise in Pakistan, a 7000 chilometri di distanza, e in un angolo della camera lo zaino sempre pronto, eravamo inequivocabilmente zingari.