Metamorfosi – 25 agosto

Non sono nata nel capoluogo, ci sono andata ad abitare soltanto per essere più comoda ai servizi e per poter usufruire, con più facilità, dei mezzi di trasporto pubblico. Sono nata in un piccolo borgo dell’entroterra canavesano fondato sulla pianura alluvionale dell’Orco. Ho vissuto lì le stagioni della mia infanzia, in quel paese di anime ammonticchiate su uno slargo di terra battuta punteggiato di noccioli e di ciliegi. Un fazzoletto di mondo consacrato al culto cristiano ma profumato di paganesimo, quel paganesimo in odore di eresia che la dottrina cristiana delle origini aveva a malapena ispirato nell’impossibilità di sradicarlo. Il ventre del paese era un susseguirsi di resti medioevali e di umili costruzioni perlopiù ad uso agricolo il cui orizzonte era un conficcarsi tagliente di piani nel verticale della vicina catena montuosa: perpendicolarità che subornava la gelida e ieratica serietà geometrica con velati e allusivi incastri carnali. Negli stretti vicoli si respirava l’odore acre dei cortili, laddove qualche gallina chiocciava nel fienile mentre qualche altra ruzzolava tra i pagliericci e la legnaia, e dai portoni chiusi, insieme all’afrore dell’aia e delle stalle, effondeva un senso di penombra e di colori scuri, blu e grigi, forse anche di viola mischiato al nero. C’era, dalla piazza alle viuzze e finanche ai sentieri tra i campi, un vociare di vecchi e di bambini, un trambusto di mercanti e artigiani che collimava con il frastuono dei macchinari agricoli e lo scampanellio delle biciclette e degli usci dei negozi.

Ovunque si udiva un suono, un verso, una voce, fino all’ora del tramonto quando il sole si spegneva dietro la dorsale alpina e il cielo infuocato metteva a tacere l’animazione chiassosa del paese in un grugare di piccioni che risaliva fino alla cella campanaria del Torrione. Lì i colombi avrebbero atteso l’alba e i rintocchi che annunciavano la prima messa della giornata. Poiché il paese non si era mai affrancato dal terrore del flagello divino che scongiurava con la devozione, non aveva mai abbandonato quel sentimento di paura irrazionale e cieca. Aveva tentato, invece, di arruffianarselo con offerte spirituali e materiali. Di più, naturalmente, con queste ultime. Sicché in paese vi erano cinque chiese, tre cappelle e un numero imprecisato di piloni votivi. Sulla piazza principale troneggiava una chiesa, simbolo del passato storico del paese. In quella chiesa ero stata battezzata, purificata con le fumigazioni dell’incenso, intrattenuta dal baluginio delle candele votive; in quella chiesa avevo recitato le mie preghiere, avevo provato ad usarle per ottenere qualcosa, ma quelle suppliche in odore di prostituzione risuonavano come l’appello dei committenti alla penetranza dell’arte: un chiedere la cui riuscita dipendeva dal talento dell’artista più che dalla persuasione dei mecenati.

Dentro quei luoghi di culto oscuri e odorosi di resine talvolta ci torno con la mente e mi vedo ferma, ad occhi chiusi, in mezzo al nartece, silenziosa e vigile, prima di avanzare — passo dopo passo — lungo la navata fino all’abside. Sento voci che bisbigliano in un idioma a me sconosciuto, e suoni che somigliano al crepitio delle mie ruote sugli sterpi. A quel punto apro gli occhi e intorno a me vedo il bosco. E allora mi rendo conto che non ho mai smesso di cercare, che sto ancora vagando, seppur in luoghi di culto differenti — una chiesa, un letto, un bosco — alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire compiuta. E, finalmente, libera.

Preghiere – 24 agosto

Photographer: Renata Busettini

Qualche giorno dopo il trasferimento nella nuova casa, il fuoco che fino a quel momento era rimasto intrappolato sotto la cenere aveva ritrovato vigore, allargandosi fino a farsi pira incandescente. Il bisogno fisiologico aveva stretto un’alleanza con quello più imperioso di rivendicare il diritto atavico di scegliere quando e con chi scambiare un po’ d’amore. In virtù di ciò, avevo trascorso la notte con un vecchio amico che da quando vivevo da sola era diventato insistente e reclamava di potermi vedere.

Riccardo era venuto a trovarmi con la scusa di vedere la nuova casa. Tuttavia, quando si era accorto che data l’angustia dell’abitazione la visita si sarebbe presto conclusa, mi aveva preso la testa tra le mani e si era chinato per cercare la mia bocca. Questione di qualche istante e poi si era lasciato prendere, ostinandosi nel perseguire l’illusione di essere lui a dettare legge in quell’atto tanto antico e belluino. In pochi minuti aveva soddisfatto il proprio piacere e io —  che nel frattempo avevo estinto il mio in un paio di respiri e stavo cominciando ad avvertirmi troppo stretta in quell’abbraccio — gli ero stata grata di aver risolto tutto in fretta. Da quel momento non c’era stato giorno in cui non mi avesse cercata. Per sapere come stavo, diceva, ma io tagliavo corto e il più delle volte non rispondevo. La settimana prima di Natale, dopo che gli altri amici se n’erano andati, mi aveva trascinata con urgenza in camera e mi aveva penetrata con la mano, da seduta, senza perdere tempo a coricarmi. Era bastato quello affinché lui raggiungesse quel vertice matematico tanto ambito. Sbrigativa e senza troppa premura lo avevo congedato.

Fuori era buio pesto, nel cortile non si vedeva a un passo. Soltanto una fredda luce di luna grondava dagli alti palazzi e si allungava sulle saracinesche grigie che ogni mattina, quando venivano riavvolte stridevano nel silenzio del cortile. Ma, superato il corridoio decorato con lesene liberty, oltrepassato il cancello di metallo, grigio anch’esso, si apriva alla vista lo spettacolo struggente della città sepolta nella notte invernale. Le luci del corso baluginavano sui rami spogli, carichi di neve, e poi si adagiavano sulle auto in sosta, in uno sfumare nell’ombra che era la metafora del mutamento a cui ogni pensiero è vincolato. Vanitas vanitatum et omnia vanitas, il sacrificio inaccettabile di ogni progettualità. Poi, dietro i filari rinsecchiti del controviale, affiorava il richiamo delle insegne luminose dei locali notturni, una luminaria che tracciava linee geometriche a perdita d’occhio.  

Avevo immaginato la sua sagoma risucchiata nel ventre urbano. 

Per pochi istanti, nella camera era vorticato un odore che non vi apparteneva, un accenno di tessuti pregni di note dolciastre, caramellate; note viscose e insinuanti. Avevo chiesto di aprire le finestre per cambiare aria e cancellare ogni residuo di quell’intrusione. La stanza era una chimera, una mescolanza destinata a essere per sempre sterile. Ma era anche un organismo compiuto, la finitezza di un essere vivente. Morfologicamente immodificabile. La stanza rigettava ogni lacerto che volesse penetrarla e fondersi con essa, seppur le restassero impigliati alla trama dei tessuti profumi e olezzi forestieri. 

Mi ero guardata intorno. Un enorme spazio bianco tra il bordeaux dei tendaggi e il nero del mobilio. A quell’epoca i vestiti erano ancora tutti avvoltolati dentro uno scatolone — nei giorni seguenti li avrei appesi con delle grucce di legno nero in uno di quegli espositori in metallo che faceva eco, seppur in veste di simulacro, a quelli utilizzati nelle boutique torinesi. Giungeva fin lì, in questo silenzio ovattato di grembo, un canto a fil di voce che proveniva dalla cucina. Un fluire di omofonie, privo di architetture sonore e di strutturazioni. L’anima che condivideva le sorti della casa innalzava le lodi a dio e, circonfusa dal corpo, si prostrava, inginocchiata su un tappeto, con la fronte appoggiata sul pavimento. Dentro la camera chiusa da una pesante porta di legno, la litania pareva il ninnare di una madre. Wasim stava pregando.

Gypsies – 23 agosto

L’odore della pioggia è un’alchimia sinestetica, il timbro salino ricorda quello degli incontri clandestini, delle stanze rimaste chiuse per troppo tempo, delle lenzuola dimenticate sopra il letto dopo aver raccolto nella trama dell’ordito pianti e umori somiglianti al sapore delle foglie macerate dentro un acquitrino. Quando Torino è sorpresa dalla pioggia non cerca riparo, né si scrolla di dosso il sentore di umidità ventrale che lo stillicidio porta con sé. Torino resta immobile, con una sensualità barocca, ad attendere quella promessa di ritorno primordiale.

Da tre giorni la città era immersa in una liquidità materna che uniformava le percezioni e faceva di una condizione climatica il divieto metafisico ai passaggi di stato. Anche l’effluvio acre degli incensi venduti dagli ambulanti era come annacquato; i portici di piazza Carlo Felice, la piazza su cui s’affacciava la stazione ferroviaria di Porta Nuova, erano un crocevia di viandanti tra le bancarelle di libri usati e chincaglierie dal gusto etnico. Casa nostra, forse, aveva risentito dell’eccesso di umidità di quei giorni. La scala in legno che collegava il piano terreno al soppalco si era rotta: le travi laterali si erano scollate con un crollare di assi sul pavimento. Con i piedi saldi sull’impiantito, Wasim si era voltato con aria indifferente a guardare il relitto sventrato della scala.

«Dev’essere riparata…» gli avevo suggerito.

 «Lo farò…»  era stata la sua risposta. In verità, non lo avrebbe fatto mai e la scala sarebbe rimasta in quell’umiliante condizione di ordigno esploso per più di un mese, finché io non avessi telefonato al proprietario di casa chiedendogli di mandare un falegname a sistemarla. 

Nella casa faceva freddo. Il reticolo fluido della pioggia sui vetri rievocava immagini di segrete, di malsani ricoveri per prigionieri chiusi in un silenzio di tomba, di occhi che cercavano invano la luce dentro una cella buia. 

Wasim aveva gettato la biancheria sul mio letto con un rumore molle di stoffe che si accasciano su stoffe, flaccide carni stanche provate dal martirio della reclusione in un baule di legno tarlato. In un angolo poco illuminato del soffitto, un ragno braccava la notte, la tenebra salvifica, per abbandonare il rifugio e spingersi in cerca di una preda.

«Che cosa dici sempre tu?” aveva domandato Wasim, mentre si toglieva le scarpe e le buttava sotto il termosifone «chi siamo noi?»

«Siamo zingari! Non resteremo mai troppo a lungo in un posto!»  gli avevo risposto prendendo una sigaretta dalla busta di carta verde sopra il davanzale della finestra. 

Avevo ripreso a fumare, non lo facevo da anni. Da quando una brutta broncopolmonite mi aveva strappato dal corpo la giovinezza e il vivere spensierato dei miei diciannove anni. Quando convivi con una malattia degenerativa come la mia devi imparare ad accettare con estrema rapidità e senza fare troppe storie le perdite e i mutamenti. Questo, però, lo impari con il tempo e a tue spese. Da adolescente non immagini quello che ti toccherà in sorte. Non ti aspetti di dover imparare a riprogettare la tua vita decine di volte, ridisegnarla ombra su ombra come a correggere, in modo maldestro, errori di prospettiva. Vivi, semplicemente, il privilegio di un’immaturità che dà alla vita il peso di una piuma. E quando, improvvisamente, sulla piuma grava un carico di piombo precipiti. Un crollo verticale dall’alto di un ideale di bellezza e di immutabilità irraggiungibile. 

A piedi nudi, con indosso un paio di jeans lisi e una t-shirt scolorita e in testa il borsalino color piombo leggermente obliquo, Wasim mi aveva invitata ad andare a letto. Dopo aver infilato la mano sinistra sotto le mie cosce e quella destra dietro il mio collo, mi aveva sollevata e prima di coricarmi aveva ripetuto a gran voce: «We are gypsies!»

Sì, io con l’iride inselvatichita e il destino incerto, e lui con le radici recise in Pakistan, a 7000 chilometri di distanza, e in un angolo della camera lo zaino sempre pronto, eravamo inequivocabilmente zingari.

Lo spirito nomade – 19 agosto

Nella vita ho sempre voluto andare via, allontanarmi, e questo spirito nomade mi ha condotta fuori da tanti usci e da molte case, ma ogni volta che mi sono voltata per essere sicura di aver fatto parte di qualcosa — un focolare attorno al quale raccogliersi, una famiglia con cui condividere legami di sangue forti e resistenti come corazze —ogni volta che mi accertavo di essermi lasciata alle spalle un nucleo coeso di elementi, un cuore da cui distaccarsi soltanto opponendo una forza inversamente proporzionale a quella d’attrazione, ho trovato l’ombra ad attendere il mio sguardo. Sempre, ogniqualvolta ho abitato un luogo, un interno che ricacciava al di là dei suoi confini un esterno fatto di muri, di terra, di foglie, di ali, di occhi. Sempre. Non soltanto nella casa torinese.

Lì, però, l’ombra si era fatta maestosa, aveva abbandonato le circonvoluzioni della mente per divenire lunghezza d’onda. Eppure il mio vissuto è sempre stato costellato di ombre, molte sono quelle che ho visto, scorto, creato, disperso… Di alcune ho addirittura goduto, ombre liminari al piacere, distese al suo cospetto in attesa di essere prese. L’ombra che lambiva la casa, tuttavia, aveva in sé l’austerità di una retta, il senso claustrofobico di ciò che è infinito. Il desiderio di andare via era, quindi, tornato a spazzare quel miraggio di stabilità che certe notti dormite per intero, senza risvegli prima dell’alba, avevano mostrato all’orizzonte.

Era riecheggiato, allora, nel silenzio promiscuo di quelle stanze il sentenziare sornione di Wasim: «Noi siamo zingari!» e improvvisamente l’oscuro richiamo di sentina era stato messo a tacere dall’aria fresca degli spazi aperti, dai viaggi forieri di promesse, dall’alchimia del mettere a nuovo lo sfasciume di un’esistenza. 

La prima volta – 17 agosto

Il treno per Firenze era in partenza, una voce imperiosa di donna lo aveva annunciato agli altoparlanti. Soltanto una lunga corsa sulla piattaforma, tentando di schivare i viaggiatori fermi sulla banchina e i bagagli gettati per terra a catafascio mi aveva permesso di raggiungere in tempo la carrozza di testa, quella destinata ad accogliere le sedie a rotelle. Il sole tiepido di quel mattino sul finire dell’estate rampinava le pupille fino a far strizzare gli occhi. C’era odore di cuoio, di carta appena uscita dalla biglietteria, di caffè e di paste dolci. Ricordo le voci, una mescolanza di accenti e di timbri che accompagnava il calpestio disarmonico sull’assito della vecchia stazione. Quel giorno Wasim mi aspettava lì di fronte, sotto la pensilina del binario 6 di Porta Nuova, reggendo sulle spalle, dentro un piccolo zaino, tutto il suo bagaglio. 

Il personale del treno mi aveva aiutata a salire sulla carrozza della prima classe che a quell’ora del mattino, era solitamente silenziosa e vuota. Era stato un buon viaggio, uno di quelli che al ritorno sei contenta di aver affrontato.

Fin dall’arrivo a Santa Maria Novella, quel viaggio aveva risvegliato un bel po’ di nostalgie. Dapprima disorientata dalla zaffata di caldo che si era stretta attorno alle nostre gole appena scesi dal treno, poco alla volta avevo cominciato a ricordare e, lasciando che Wasim mi rincorresse trascinando la mia valigia, a passo svelto mi ero diretta in strada, tra i bottegai dall’aria sorniona sempre pronti a trescare scambi vantaggiosi di merce e di denaro. Non avvertivo la stanchezza, solo un sordido malessere che pungolava il cuore, tant’è che attraversando il Borgo dei Greci per arrivare in Santa Croce qualche lacrima era scivolata giù dagli occhi, proprio all’ora del tramonto, quando il sole di settembre affogava nell’Arno, ancora rovente, con uno sfrigolio a pelo d’acqua. Non c’era un filo di vento, quel giorno, e nei vicoli le inferriate dissotterravano l’odore degli scantinati, una mescolanza di note aspre e fruttate dei vini, ammorbata dall’afrore malsano delle muffe. Nell’aria, di fronte alle botteghe conciarie, stagnava un odore di pellame così intenso da irritare le narici. 

«Wasim, seguimi!» lo avevo esortato e oltrepassando le osterie e i bugigattoli dalla fioca luce che pareva di lanterne, lo avevo condotto in San Lorenzo dove un gruppo di merciaioli stava smantellando il mercato. Al nostro arrivo, un volo di piccioni aveva smosso l’aria spezzando quel sentore di immutabilità che si respirava nella città vecchia, cosicché anche le memorie si erano fatte più vivide, come rinfrescate. In quel momento, mentre una ruota della mia sedia si era incagliata nel porfido facendomi vacillare fino a perdere l’equilibrio, lo sguardo era piombato su un cesto di giunco colmo di vagoni di legno in miniatura, sormontati, ciascuno, da una lettera dell’alfabeto. Era subito apparsa nitida nella mente la visione della lunga locomotiva che il mio primo fidanzato mi aveva regalato, un convoglio mercantile destinato esclusivamente al trasporto dei nostri nomi congiunti da un’inossidabile copula in odore di eternità: Tania e Tommaso. Anche quando il miraggio di infinito era svanito nell’epilogo della nostra relazione e il trenino era stato stivato in una scatola di cartone insieme a vecchi giornali di cui si era persa traccia, quella congiunzione letteraria aveva continuato a tenere uniti i nomi, a inchiavardarli per sempre a quegli anni ormai lontani. La memoria attingeva a ogni rimando sensoriale, vigile, instancabile, selvatica.

Il viaggio a Firenze, tuttavia, era stato indimenticabile più per un altro motivo. Per la prima volta, infatti, avevo messo il mio corpo, completamente e senza maschere, nelle mani di uno sconosciuto. Poiché Wasim a quel tempo non era altro che uno dei tanti candidati al lavoro che offrivo, uno – oltretutto – che nella vita non aveva mai sentito parlare di Atrofia Muscolare Spinale, né aveva ben chiaro che cosa significasse vivere con una disabilità motoria. La prima notte a Firenze, arrabattandoci dentro la stanzetta di una locanda ubicata proprio dietro la Galleria dell’Accademia, ci eravamo studiati, pezzo per pezzo. Distesi sul letto, di fronte ad una grande finestra da cui entrava una luce polverosa di cielo notturno, avevamo parlato, tenendoci la mano, finché le prime luci del mattino si erano allungate sul letto e il frinire dei grilli si era risolto in un silenzio opalescente d’alba. Parlando, Wasim aveva imparato a mettermi il cuscino tra le ginocchia dopo avermi voltata su un fianco, a sollevarmi i capelli alzandomi la testa con una mano e ad aprirli a ventaglio sul cuscino (ché non ho mai sopportato il sentirli appiccicati alle guance e agli occhi), e a distendermi l’orecchio quando, voltando la testa su un lato, si piegava. 

«Tutto bene?» domandava dopo ogni nuova istruzione. 

Aveva imparato ad attendere, dietro la porta chiusa, che la pipì giungesse senza fretta, con la lentezza ostinata di qualcosa che non vuole venire allo scoperto, e aveva imparato a guardarla mentre si disperdeva nel vortice dello scarico fognario. Del resto, nei mesi a seguire, l’avrebbe vista più volte di quelle in cui avrebbe visto uno qualsiasi dei miei vestiti. Aveva imparato a reggere davanti alla mia bocca la bacinella in cui sciacquavo la schiuma del dentifricio dopo essermi lavata i denti, e con lo stesso spirito di intraprendenza aveva imparato – sebbene con risultati meno soddisfacenti – a pettinarmi i capelli e a dipingermi gli occhi con il kajal. In meno di quindici giorni avrei desiderato non tornare più nella mia vecchia casa. Avrei iniziato a cercarne una in città, in quella Torino dove Nietzsche “conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto”. Il viaggio a Firenze aveva aperto la strada al cambiamento.

Di luce e d’ombra – 13 agosto

Sul Monte Tabor, il Colle dell’Infinito

La strada per salire a Recanati s’inerpicava sulla collina, all’ombra delle querce e degli olmi. Via via che lasciavamo dietro di noi la costa assolata, l’abbraccio odoroso del Conero — ginepro rosso, euforbia e gigli selvatici — ci raggiungeva come un commiato. Intorno a noi, soltanto i sovrumani silenzi di leopardiana memoria e un flebile brusio di focolare dietro gli scuri serrati.

Io avevo indosso un abito leggero e sulle spalle il foulard blu notte con i ricami dorati che la sera prima avevi mandato Isabella a comprarmi perché certo che mi sarebbe piaciuto.

Giunti sulla piazza della paese, ad attenderci avevamo trovato lo stesso silenzio che ovattava i portoni, le imposte e perfino gli usci delle osterie. In una di queste siamo entrati (tenendoci la mano, forse, non ricordo) e abbiamo preso posto al tavolo, un pesante fratino in noce con delle sgrossature che ne rendevano la superficie rasposa.

Fuori s’intravedevano le ombre degli alberi mossi dal leggero vento che lì, a quelle altitudini ombrose, sferzava il collo e in un batter di ciglia faceva rabbrividire. «Forse sono gli spiriti cari al Poeta che quassù non vogliono visitatori…» ti era uscito di bocca, quasi a leggere il mio pensiero. La mente era prontamente accorsa ai versi che conoscevo a memoria e con la stessa rapidità era tornata sui volti dei presenti. Su quello di Isabella, talmente armonioso e perfetto da togliere il fiato e su quello di mamma Eliana che ci seguiva ovunque con occhi di civetta, occhi di chi quei luoghi li conosce fin nei minimi dettagli per averli custoditi nel cuore, anno dopo anno, in silenzio. E in ogni volto vi era un lato in ombra, uno luogo nascosto alla luce che ne faceva risaltare le movenze, la sinuosità dei lineamenti.

Il pensiero dell’ombra ci aveva appena sfiorati, ma con il tempo sarebbe tornato a farci visita. Mi ero accorta che l’ombra non sprofondava nel buio perché a reggerla vi era il lato rivolto alla luce. L’uno non poteva esistere senza l’altro.

Dalla tua morte, penso spesso a quei volti e al segreto che ci avevano rivelato: l’ombra non si trasforma in tenebra se a sorreggerla vi è la luce.

Ora tu e io siamo le due facce di una stessa medaglia, una ravvivata dal sole, l’altra rimessa alla penombra. Certo, non darei per scontato di essere io quella in luce.

L’abilismo – 12 agosto

Oggi voglio parlarvi dell’abilismo. Voglio condurvi per mano in un mondo in cui la discriminazione è spesso sottile, per molti aspetti invisibile. L’abilismo, infatti non è sempre intenzionale e — parafrasando l’aforisma di bosweliana memoria — sovente è lastricato di buone intenzioni.

Tanto per non confondervi le idee… inizio subito col dire che l’abilismo è un cubo di Rubik da risolvere a occhi chiusi, l’equazione di Navier-Stokes, una stanza degli specchi in cui indovinare cosa è reale e cosa invece è semplice riflesso. Il motivo di una tale confusione — che peraltro disorienta pure noi, parte lesa dal modus operandi definito abilismo — è l’essere stato, negli anni, talmente interiorizzato da apparire come un atteggiamento moralmente e socialmente corretto.

Pensate di aver erroneamente appreso, nel corso della vostra vita, che la Terra percorre orbite circolari attorno al Sole, e improvvisamente qualcuno vi fa notare che in verità tali orbite sono ellittiche. All’inizio lo guardereste con aria di sufficienza e poi probabilmente gli chiedereste una dimostrazione. Ecco, l’abilismo è un teorema che va dimostrato — spesso con innumerevoli esempi — perché ad oggi è come la Terra che ruota in cerchio attorno al Sole: un errore colossale.

Chi pensa che l’abilismo abbia a che fare soltanto con le barriere architettoniche è un copernicano 3.0.

Certo, abilismo è garantire l’accessibilità di un edificio senza tuttavia aver conformato l’ascensore alla normativa vigente che prevede tasti in braille, altezza del pulsante d’emergenza adeguata a chi è seduto su una carrozzina e l’emissione di un suono quando si raggiunge il piano desiderato.

Ma abilismo è anche ritenere che una persona con disabilità debba accontentarsi di relazioni sessuali e sentimentali insoddisfacenti e talvolta violente perché non considerata un buon partito. Abilismo è dare per scontato che le persone con disabilità grave possano attrarre unicamente altre persone disabili o disadattate, con la benedizione dell’atavico preconcetto che un individuo “normale” non potrebbe mai sopportare uno stile di vita tanto limitante e costellato di sacrifici.

Abilismo è la pacca sulla spalla e il conseguente ammonimento: «Dai! Pensa a chi sta peggio di te…» quando attraversi un momento difficile e tra i capelli hai nascosto un diavolo che odora di zolfo e carni ustionate.

Abilismo è il cameriere del ristorante che ti riserva un tavolo appartato (che, per carità, da misantropa dichiarata potrebbe certo piacermi) senza prima averti proposto un posto al centro della sala.

Abilismo è un genitore che insiste affinché il/la figlio/a si prodighi in affettati ringraziamenti ogniqualvolta riceve aiuto da qualcuno, perché “se non ti aiutassimo resteresti tutto il giorno a letto.”

Abilismo è quel fine e insidioso pungolare la mia pazienza che giorno dopo giorno, sottoposta a pressione costante e sempre più elevata, gonfia come un rospo delle canne fino ad essere talmente tesa che basta una fibra di cotone a farla esplodere. E a far saltare in aria con me mezzo Canavese.

Abilismo è un soffice giaciglio di bambagia in cui dormire un sonno catartico e lasciare che fuori in strada il mondo viva come se tu non esistessi. È una mela soporifera, un caldo lettuccio in cui dimenticarti.

Un cervello “molotov” – 10 agosto

Si dice che persone sottoposte a forte pressione vadano incontro al burn-out, ossia al fenomeno in cui si va letteralmente in tilt a causa dello stress. Una sorta di campanello che esplode in faccia al visitatore, un lampione che prende fuoco e con effetto domino incendia tutti gli altri finché il quartiere avvampa come un falò estivo.

Ecco, oggi è successo a me: sono deflagrata e ho incenerito i volti costernati dei presenti. Gli impegni incessanti, il caldo afoso, il ronzio del ventilatore, la routine della penombra strategica per tenere fuori il caldo riparandosi dal sole, delle abluzioni rituali per rinfrescare momentaneamente la pelle prima di avvertire un caldo ancor più intenso, e quella dei piatti freddi consumati dentro un forno crematorio con l’illusione di poterne fare una sala da pranzo, sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le radici del malessere son ben più profonde e arcigne come grinfie di suocere pedanti e insidiose. Tuttavia, non ve ne parlerò adesso.

Oggi voglio solo mostrarvi quel lato umano che spesso a noi, individui con gravi disabilità, tocca nascondere dietro un bel sorriso per fare star meglio chi, leggendo, sente di aver trovato chi sta peggio di lui e che tuttavia non perde mai la forza. No, non è onesto darvela a bere (in verità, non ci ho mai nemmeno provato).

Anche io perdo la forza e stasera ci ho rimesso anche una fetta di testa. Capita, tutto qui. Capita a tutti. Anche a noi, creature sfigate eppur piene di voglia di vivere.

Chi non conosce il termine “abilismo” e il significato sotteso, probabilmente si starà grattando la testa con aria paternalistica e penserà tra sé che se la mens è sana in corpore sano, è naturale che in corpore storpio la mente accusi qualche disturbo. Ma chissenefrega! Stasera sono detonata come un ordigno nucleare e ho infranto vetri, sventrato casa, fatto esplodere il tetto — tegola dopo tegola — frantumato ogni piastrella, polverizzato le porte.

E voglio raccontarvelo perché, ben lontana dall’essere perfetta, non sono altro che una donna con una disabilità grave e un cervello frizzante, pieno di idee e, talvolta, gonfio di paturnie ormonali e aneliti d’oblio. Un cervello “molotov” ad alto rischio di innesco.

Fotogrammi – 8 agosto

Sono queste le ore che prediligo: quando il crepuscolo silenzia il paese e il prato deserto riverbera le luci calde del giorno che si spegne.

Le mie ore preferite, anche oggi che non sto bene. Vivere con una malattia neuromuscolare scandisce il mio tempo ed è inutile negarlo. Ci sono giorni di sole da passare all’aperto e giorni di sole da trascorrere chiusa in casa. E poi ci sono giorni in cui bere un cocktail in un locale retrò della mia amata Torino, e giorni in cui dissetarsi da una flebo di soluzione fisiologica. Una semplice influenza può avere lo stesso effetto di uno Tsunami.

Quando non riesco a concentrarmi sulla scrittura mi rivolgo alla musica, ma questa tocca sempre corde troppo profonde e a meno che non abbia il ritmo vivace e malandrino dello swing o la sensualità carnosa e libertina del reggae, mi fa tristezza e devo spegnerla. Perciò passo molto tempo a calcare il perimetro della casa: salone, cucina, camera da letto, corridoio. Vago come se fluttuassi fuori dal corpo. Percorro lo stesso cammino finché le forze mi vengono meno. Muovermi mi aiuta a pensare alle cose belle. E a sentirmi viva. Conosco ogni piastrella, ogni crepa sul muro, le ragnatele dietro i bastoni delle tende, i nascondigli della gatta. E quando mi stanco di vagare o semplicemente quando giunge l’ora della flebo, accendo la tv e cerco un film. Sono cinefila fin dagli anni in cui rimasi affascinata dall’idea che dentro lo schermo potesse esistere un mondo parallelo, una realtà misteriosa e ipotetica come il multiverso.

Guardo e intanto immagino la mia guarigione: un salto in una dimensione in divenire, dove i miei capelli sono puliti, indosso un paio di jeans attillati e una maglietta con uno scollo profondo. Quello scorcio in cui osservo la vita di qualcun altro è un calcolo matematico che approda a un risultato tanto atteso.

Una possibilità. La stessa che ha il mio corpo di incarnare un’identità diversa in un mondo sconosciuto.

Smoothie al mango – 6 agosto

Questa relazione ha il sapore di uno smoothie al mango e di un gelato alla cannella. Ha il sapore di una gelatina alla fragola ma anche di lacrime. Perché dietro la superficie magenta che ravviva le mie giornate c’è un sottobosco di emozioni latenti, scintille capaci di infiammare gli occhi e il cuore in una frazione di secondo.

Non è facile dividere la propria vita con qualcuno. Non è facile sincronizzare i propri ritmi con quelli altrui. Il bagno è sempre occupato quando ti serve lo struccante, lui si accorge di avere un imperante bisogno fisiologico quando la cena è in tavola, e io inizio a mangiare da sola sennò le pietanze si raffreddano (in verità, inizierei ugualmente anche se nel piatto vi fosse lava incandescente, perché sono una che appena vede il cibo deve assaggiarlo, boccone dopo boccone…finché il piatto è vuoto, s’intende!).

Non è facile. Bisogna imparare a rispettare le usanze altrui. A fingere di ascoltare i monologhi pestilenziali con cui lui accompagna ogni pasto; a rivolgergli brevi ma efficaci cenni di approvazione con la testa affinché si senta capito anche se, mentre lui parla, nella mia testa una scimmietta con in testa un cilindro sta suonando dei cimbali. Bisogna scendere a compromessi. Una sera scelgo io il film da vedere insieme e un’altra lo sceglie lui, o almeno ci prova, finché io insceno un malessere improvviso e lui per coccolarmi mi porge il telecomando e pronuncia le parole magiche: «Guarda qualcosa che ti piace, almeno ti rilassi un po’, amore…»

E sì, sono una stronza, però lo è anche lui, solo che io sono una stronza a cui piace tener testa agli stronzi e lui è uno stronzo a cui piace dire di esserlo, ma poi in fondo… Ok, sono una vipera, una Medusa con dei serpenti al posto dei capelli. Eppure lui mi ama. E io amo il suo farmi ridere fino alle lacrime, il viziarmi, il dormirmi appiccicato come un koala su un ramo di Eucalipto. Con lui le ore volano leggere, gli anni non contano più, insieme siamo due adulti consapevoli di poter diventare bambini ogniqualvolta ne sentano il bisogno.

Non è facile. Eppure siamo innamorati.