Estate 2020 – 29 luglio

Questa estate ha il sapore della resina succhiata dagli aghi dei pini, all’ombra dei nocciòli. Odora di gelsomino e di bardana cresciuta spontanea sul muricciolo di pietra, lungo la strada che sale la collina.

Questa estate ha le sembianze della roccia sbozzata per liberare la bellezza dalla materia, odora di polveri di gipsoteca.

È tempo di rinascite, di letti di sarmento su cui addormentarsi al tramonto e risvegliarsi all’avvampare dei falò, sotto una luna aguzza metà satellite e metà falce, metà voyeur pallido e innocente e metà lama sporca di sterpi e di carni.

Si avverte che nelle parole c’è qualcosa di impudico. Più che nei gesti.

È un’estate infida, luccica come gemme preziose nascoste dentro tane buie di lupo. È l’estate dell’aria che da fonte di vita è diventata un’arma potentissima fautrice di morte. È l’estate della politica del vivere sul filo del rasoio, tra negazionismi e maschere premute sui volti come una seconda pelle, un filtro per virus mutevoli che abitavano questa terra ben prima dell’arrivo dell’uomo. È l’estate dei divieti che rendono più bella un’ora sotto il sole, in mezzo a un campo da cui non si riesce a scorgere l’orizzonte e nel quale, se vuoi sentirti libera, devi alzare gli occhi al cielo e confidare nello Spazio profondo dove non esistono mura, né soffitti o aria contaminata da assassini ancestrali.

É l’estate della mia rinnovata voglia di scrivere e di respirare senza paure.

Milizie – 14 luglio

Entrare in un campo di girasoli, arrampicandosi sul terreno dissestato, tra l’erba alta e i lunghi fusti irsuti che invitano a sollevare lo sguardo in cerca del capolino rivolto al cielo, è una delle esperienze più suggestive che ho vissuto.

Significa letteralmente essere avvolti dal mistero — che cosa c’è pochi passi più avanti, dove la vista non riesce a oltrepassare il fitto fogliame tra cui vivono in pacifica simbiosi ragni e insetti di varie fogge e molteplici colori? Là in mezzo, c’è una quiete terrifica e al contempo meravigliosa. È un tripudio di giallo, arancione e marrone, con diverse sfumature, e zone d’ombra nascoste dal tetto assolato e abbacinante.

Troppi pensieri mi assillano in questi giorni, dalla recrudescenza della pandemia agli anniversari sanguinosi che affondano le radici nell’anno in cui sono nata e più estesamente in quel decennio noto come “anni di piombo”. Ho bisogno di sentire gli occhi bruciare per il sole che giunge diretto a infiammarli; ho bisogno di sentirmi piccola e protetta da quelle milizie immobili e soverchianti.

Poco distante da dove mi trovo, un cartellone scritto a mano chiede ai visitatori la gentilezza di offrire un euro per ogni girasole che si voglia portare a casa. Caracollando sul suolo accidentato riesco a ritrovare il sentiero. E sollevando lo sguardo sopra un gruppo di giovani girasoli, decisamente più bassi rispetto agli altri, rivedo l’orizzonte.

Lentamente lascio il campo alle mie spalle e passando accanto alla cascina dirimpetto chiedo alla mia assistente di far scivolare due euro dentro la cassetta delle lettere per i due girasoli che, incautamente, ho calpestato durante le maldestre manovre con la carrozzina.