Il treno per Firenze era in partenza, una voce imperiosa di donna lo aveva annunciato agli altoparlanti. Soltanto una lunga corsa sulla piattaforma, tentando di schivare i viaggiatori fermi sulla banchina e i bagagli gettati per terra a catafascio mi aveva permesso di raggiungere in tempo la carrozza di testa, quella destinata ad accogliere le sedie a rotelle. Il sole tiepido di quel mattino sul finire dell’estate rampinava le pupille fino a far strizzare gli occhi. C’era odore di cuoio, di carta appena uscita dalla biglietteria, di caffè e di paste dolci. Ricordo le voci, una mescolanza di accenti e di timbri che accompagnava il calpestio disarmonico sull’assito della vecchia stazione. Quel giorno Wasim mi aspettava lì di fronte, sotto la pensilina del binario 6 di Porta Nuova, reggendo sulle spalle, dentro un piccolo zaino, tutto il suo bagaglio.
Il personale del treno mi aveva aiutata a salire sulla carrozza della prima classe che a quell’ora del mattino, era solitamente silenziosa e vuota. Era stato un buon viaggio, uno di quelli che al ritorno sei contenta di aver affrontato.
Fin dall’arrivo a Santa Maria Novella, quel viaggio aveva risvegliato un bel po’ di nostalgie. Dapprima disorientata dalla zaffata di caldo che si era stretta attorno alle nostre gole appena scesi dal treno, poco alla volta avevo cominciato a ricordare e, lasciando che Wasim mi rincorresse trascinando la mia valigia, a passo svelto mi ero diretta in strada, tra i bottegai dall’aria sorniona sempre pronti a trescare scambi vantaggiosi di merce e di denaro. Non avvertivo la stanchezza, solo un sordido malessere che pungolava il cuore, tant’è che attraversando il Borgo dei Greci per arrivare in Santa Croce qualche lacrima era scivolata giù dagli occhi, proprio all’ora del tramonto, quando il sole di settembre affogava nell’Arno, ancora rovente, con uno sfrigolio a pelo d’acqua. Non c’era un filo di vento, quel giorno, e nei vicoli le inferriate dissotterravano l’odore degli scantinati, una mescolanza di note aspre e fruttate dei vini, ammorbata dall’afrore malsano delle muffe. Nell’aria, di fronte alle botteghe conciarie, stagnava un odore di pellame così intenso da irritare le narici.
«Wasim, seguimi!» lo avevo esortato e oltrepassando le osterie e i bugigattoli dalla fioca luce che pareva di lanterne, lo avevo condotto in San Lorenzo dove un gruppo di merciaioli stava smantellando il mercato. Al nostro arrivo, un volo di piccioni aveva smosso l’aria spezzando quel sentore di immutabilità che si respirava nella città vecchia, cosicché anche le memorie si erano fatte più vivide, come rinfrescate. In quel momento, mentre una ruota della mia sedia si era incagliata nel porfido facendomi vacillare fino a perdere l’equilibrio, lo sguardo era piombato su un cesto di giunco colmo di vagoni di legno in miniatura, sormontati, ciascuno, da una lettera dell’alfabeto. Era subito apparsa nitida nella mente la visione della lunga locomotiva che il mio primo fidanzato mi aveva regalato, un convoglio mercantile destinato esclusivamente al trasporto dei nostri nomi congiunti da un’inossidabile copula in odore di eternità: Tania e Tommaso. Anche quando il miraggio di infinito era svanito nell’epilogo della nostra relazione e il trenino era stato stivato in una scatola di cartone insieme a vecchi giornali di cui si era persa traccia, quella congiunzione letteraria aveva continuato a tenere uniti i nomi, a inchiavardarli per sempre a quegli anni ormai lontani. La memoria attingeva a ogni rimando sensoriale, vigile, instancabile, selvatica.
Il viaggio a Firenze, tuttavia, era stato indimenticabile più per un altro motivo. Per la prima volta, infatti, avevo messo il mio corpo, completamente e senza maschere, nelle mani di uno sconosciuto. Poiché Wasim a quel tempo non era altro che uno dei tanti candidati al lavoro che offrivo, uno – oltretutto – che nella vita non aveva mai sentito parlare di Atrofia Muscolare Spinale, né aveva ben chiaro che cosa significasse vivere con una disabilità motoria. La prima notte a Firenze, arrabattandoci dentro la stanzetta di una locanda ubicata proprio dietro la Galleria dell’Accademia, ci eravamo studiati, pezzo per pezzo. Distesi sul letto, di fronte ad una grande finestra da cui entrava una luce polverosa di cielo notturno, avevamo parlato, tenendoci la mano, finché le prime luci del mattino si erano allungate sul letto e il frinire dei grilli si era risolto in un silenzio opalescente d’alba. Parlando, Wasim aveva imparato a mettermi il cuscino tra le ginocchia dopo avermi voltata su un fianco, a sollevarmi i capelli alzandomi la testa con una mano e ad aprirli a ventaglio sul cuscino (ché non ho mai sopportato il sentirli appiccicati alle guance e agli occhi), e a distendermi l’orecchio quando, voltando la testa su un lato, si piegava.
«Tutto bene?» domandava dopo ogni nuova istruzione.
Aveva imparato ad attendere, dietro la porta chiusa, che la pipì giungesse senza fretta, con la lentezza ostinata di qualcosa che non vuole venire allo scoperto, e aveva imparato a guardarla mentre si disperdeva nel vortice dello scarico fognario. Del resto, nei mesi a seguire, l’avrebbe vista più volte di quelle in cui avrebbe visto uno qualsiasi dei miei vestiti. Aveva imparato a reggere davanti alla mia bocca la bacinella in cui sciacquavo la schiuma del dentifricio dopo essermi lavata i denti, e con lo stesso spirito di intraprendenza aveva imparato – sebbene con risultati meno soddisfacenti – a pettinarmi i capelli e a dipingermi gli occhi con il kajal. In meno di quindici giorni avrei desiderato non tornare più nella mia vecchia casa. Avrei iniziato a cercarne una in città, in quella Torino dove Nietzsche “conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto”. Il viaggio a Firenze aveva aperto la strada al cambiamento.