


Ieri a svegliarmi è stato un incontenibile entusiasmo, un pulsare sordo e incalzante sotto il costato. Mai aprire gli occhi sul soffitto bianco della camera è stato tanto immediato. Ho guardato la finestra. Entrava una luce intensa attraverso le persiane: non avrebbe piovuto. Da quando il clima ha finito per condizionarmi l’umore, confido spesso in una tacita complicità meteorologica. Eppure amo la pioggia. Il ticchettio delle gocce sui vetri dell’auto, lo scroscio dentro la grondaia, lungo la catena di ferro arrugginito che scende tintinnante nel pozzo, e poi l’odore dell’erba fradicia, le pozzanghere in cui saltarci dentro, gli acquitrini su cui beccheggiano foglie e petali strappati al vento. Quell’odore di acqua e d’infanzia, reminiscenza di antri acquosi e muschiati, di abisso e di alghe, è un forte richiamo alla primordiale umidità uterina, quel lento sciabordare di liquidi contro tessuti, dove si accresce il frutto di ancestrali semi: lo schiudersi della notte arcaica. In un balzo temporale millenario, tra viluppi di viscere e filamenti mucillaginosi, restare in silenzio con la fronte contro il vetro a osservare la pioggia è come spingere lo sguardo dentro la genesi della materia dalla materia senza comprenderne appieno le dinamiche sottese.
Più che scrutarla, tuttavia, la pioggia adoro respirarla. Odorarne il timbro terroso e pungente che segue al temporale, l’afrore di stanze rimaste chiuse per anni. Ricorda i viluppi dell’amore carnale. Il sentore di palustre, di primitivo, di batterico. Legame con la propria nascita, il cordone con cui la Madre tieni avvinto a sé ogni figlio. Eternamente.
Eppure ieri la pioggia non l’avrei gradita. Speravo in una giornata assolata, da trascorrere fuori: l’atmosfera ideale per una merenda seduti sotto il patio in giardino. Non ci sarebbe stato alcun imprevisto a sconvolgere i miei piani. Ne ero certa. L’aria fresca del mattino, rapidamente entrata dalle finestre spalancate, si è diffusa nella stanza. Le lenzuola rinfrescate facevano raggricciare le dita tra le lenzuola. Allora, indolente ho afferrato il cuscino poiché la sensazione di soffice sotto i palmi mi è sempre parsa il metodo migliore per iniziare la giornata.
Lui dorme fino a tardi, sicché a me resta il tempo di passeggiare nel quartiere con la gatta che mi segue curiosa, e intrattenermi in lunghe telefonate che possono concludersi in modi imprevedibili. Quando si sveglia di solito è ora di pranzo. Perciò non ci è voluto tanto affinché la giornata declinasse verso il tardo pomeriggio. L’ora più attesa.
«Mi hai promesso una partita a scacchi!» Lui non si è fatto pregare. Accanto alla scacchiera, un vassoio di paste e tre tazze di tè nero. La varietà di dolciumi invitava gli olfatti più sensibili a riconoscere l’aroma della pasta di mandorle, dei pistacchi, del cacao e delle innumerevoli creme, vaniglia o gianduia, catalana o chantilly .
«Io e Clara ti sfidiamo: due contro uno!» So di essere una schiappa a scacchi, perciò ho giocato la subdola carta dell’alleanza femminile per non finire sotto scacco matto alla prima mossa.
«Vuol dire che vincerò più lentamente…» ha replicato lui con un sorriso sornione. Una tale esternazione aveva il sapore dell’anice. Il pensiero è volato, in quell’istante, al mese appena trascorso e all’intimità dei rapporti umani: ero certa che se avessi potuto avvicinarmi all’agosto ormai andato fino ad avere il suo respiro sulle labbra avrei sentito l’odore intenso, dissacrante dell’anice stellato. Ho avvertito il tipico retrogusto dolciastro che evocava visioni di scrigni chiusi da tempo immemore e di parole che anche se taciute non perdono l’aroma fragrante e vivido con cui le ricordiamo, giorno dopo giorno.