Il lazzaretto – 7 ottobre

Cerco di buttare giù una bozza della relazione da inviare ai Servizi Socio-Assistenziali per chiedere di rivalutare il mio progetto di Vita Indipendente e mentre mi arrovello su leggi, norme e temi etici dall’aspetto di statue rinascimentali, inavvicinabili e austere, mi imbatto nel Secondo Piano biennale di Azione per la Vita Indipendente. Lo annuso, ci spingo gli occhi dentro, parola dopo parola. Lo mastico assaporandone il retrogusto d’idillio e di favola d’altri tempi. È perfetto! Nulla che svii il lettore da quel concetto semplice eppure da tutti sottovalutato che è l’indipendenza. Leggo e mi vengono le lacrime agli occhi perché se questo piano venisse concretizzato io sarei libera. Libera. Vi suona familiare questo termine?

Libera, non come mi vuole la Costituzione italiana che all’Art. 13 sancisce l’inviolabilità della libertà umana ma che all’Art. 30 stabilisce anche il dovere dei genitori di mantenere i figli, dovere poi trasfigurato dalla decisione della Cassazione di disporre che in presenza di disabilità i genitori DEVONO farsi carico delle esigenze del figlio maggiorenne in quell’ottica di solidarietà che ispira gli obblighi familiari disposti dal nostro ordinamento. Via via che le parole s’affastellano pronte ad essere incendiate dentro un calderone, mi ritrovo a constatare che nessuna libertà mi attende. Dov’è finito il diritto all’autodeterminazione? Dove sono finiti quei principi costituzionali che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini? Sogno l’indipendenza ma vivo in un paese che misconosce il diritto alla libertà di scelta, che sputtana il principio di uguaglianza e il significato di “pari opportunità”, e nel quale tutti gli sforzi compiuti per rivendicare il diritto ad una vita indipendente vengono depennati.

Sogno la libertà ma devo accontentarmi di un’assistenza parziale e lacunosa; devo accettare di rinunciare a “vivere” per fare stancanti colloqui con aspiranti assistenti che all’ultimo mi diranno che non se la sentono; devo rinunciare alla serenità per rivendicare il mio diritto alla libertà.

Sogno la libertà ma con una stoccata da abile manovratore di scacciamosche il legislatore mi ha rispedita nel passato, fuori dalla portata delle rivoluzioni, in quell’epoca buia e controversa in cui a noi storpi (crippled, pardon) era concesso di sopravvivere purché nell’angolo più appartato e silenzioso della casa.

Perché al legislatore piace fare giochi sporchi, sentirsi sudicio, rimestare nel torbido con spirito da proctologo, grufolare fin dentro gli sfinteri. Al legislatore piace annunciare di aver raschiato il fondo del barile, di aver fatto il possibile per salvare capra e cavoli. Al legislatore piace succhiare, sentirsi la bocca piena, misurare la profondità della propria gola. Al legislatore piace ingoiare.

Norme e leggi scorrono sotto i miei occhi producendo lo stesso attrito di una striscia di carta abrasiva sulla pelle e mi riportano nel rinascimento, dove Gregorio Magno s’affretta a segregarmi in appositi lazzaretti sociali (che oggi si chiamerebbero Rsa) con la speranza che Peste (oggi Covid19) mi colga e ponga fine alle mie meritate sofferenze terrene.

L’abilismo – 12 agosto

Oggi voglio parlarvi dell’abilismo. Voglio condurvi per mano in un mondo in cui la discriminazione è spesso sottile, per molti aspetti invisibile. L’abilismo, infatti non è sempre intenzionale e — parafrasando l’aforisma di bosweliana memoria — sovente è lastricato di buone intenzioni.

Tanto per non confondervi le idee… inizio subito col dire che l’abilismo è un cubo di Rubik da risolvere a occhi chiusi, l’equazione di Navier-Stokes, una stanza degli specchi in cui indovinare cosa è reale e cosa invece è semplice riflesso. Il motivo di una tale confusione — che peraltro disorienta pure noi, parte lesa dal modus operandi definito abilismo — è l’essere stato, negli anni, talmente interiorizzato da apparire come un atteggiamento moralmente e socialmente corretto.

Pensate di aver erroneamente appreso, nel corso della vostra vita, che la Terra percorre orbite circolari attorno al Sole, e improvvisamente qualcuno vi fa notare che in verità tali orbite sono ellittiche. All’inizio lo guardereste con aria di sufficienza e poi probabilmente gli chiedereste una dimostrazione. Ecco, l’abilismo è un teorema che va dimostrato — spesso con innumerevoli esempi — perché ad oggi è come la Terra che ruota in cerchio attorno al Sole: un errore colossale.

Chi pensa che l’abilismo abbia a che fare soltanto con le barriere architettoniche è un copernicano 3.0.

Certo, abilismo è garantire l’accessibilità di un edificio senza tuttavia aver conformato l’ascensore alla normativa vigente che prevede tasti in braille, altezza del pulsante d’emergenza adeguata a chi è seduto su una carrozzina e l’emissione di un suono quando si raggiunge il piano desiderato.

Ma abilismo è anche ritenere che una persona con disabilità debba accontentarsi di relazioni sessuali e sentimentali insoddisfacenti e talvolta violente perché non considerata un buon partito. Abilismo è dare per scontato che le persone con disabilità grave possano attrarre unicamente altre persone disabili o disadattate, con la benedizione dell’atavico preconcetto che un individuo “normale” non potrebbe mai sopportare uno stile di vita tanto limitante e costellato di sacrifici.

Abilismo è la pacca sulla spalla e il conseguente ammonimento: «Dai! Pensa a chi sta peggio di te…» quando attraversi un momento difficile e tra i capelli hai nascosto un diavolo che odora di zolfo e carni ustionate.

Abilismo è il cameriere del ristorante che ti riserva un tavolo appartato (che, per carità, da misantropa dichiarata potrebbe certo piacermi) senza prima averti proposto un posto al centro della sala.

Abilismo è un genitore che insiste affinché il/la figlio/a si prodighi in affettati ringraziamenti ogniqualvolta riceve aiuto da qualcuno, perché “se non ti aiutassimo resteresti tutto il giorno a letto.”

Abilismo è quel fine e insidioso pungolare la mia pazienza che giorno dopo giorno, sottoposta a pressione costante e sempre più elevata, gonfia come un rospo delle canne fino ad essere talmente tesa che basta una fibra di cotone a farla esplodere. E a far saltare in aria con me mezzo Canavese.

Abilismo è un soffice giaciglio di bambagia in cui dormire un sonno catartico e lasciare che fuori in strada il mondo viva come se tu non esistessi. È una mela soporifera, un caldo lettuccio in cui dimenticarti.

Le dita affondate nelle carni – 5 agosto

Posato il respiratore sulla credenza indiana, sono uscita con in mente l’idea di andare al torrente. Avevo bisogno di acqua, della corrente che trascina sedimenti e macerie e ripulisce lo spirito. Un bisogno metafisico e tuttavia materiale, corporeo, sanguigno. Scendere in riva al fiume per odorarne le carni, eviscerarlo fino alla spina dorsale, risucchiarlo dentro le narici per portarlo al cuore.

È lì, lungo il suo cammino, sulla riva inselvatichita — un tempo curata e ripulita dagli sterpi — che è nata nonna. Quasi cento anni fa. Se fosse ancora in vita ricorderebbe la casa, le mura che odoravano di muffa, il cimitero in cui seppellivano i suoi fratelli morti durante il parto o poco dopo.

Oggi avevo bisogno di affondare le mie mani di necroforo dentro il cadavere riesumato dell’Orco. Eppure ci sono arrivata solo vicino: a separarci vi era un’alta parete di felci e gramigna e sorgo selvatico e stramonio. L’Orco era protetto dal suo esercito vegetale e da ammassi nauseabondi di rifiuti gettati qua e là come su una fogna a cielo aperto. Non è stato possibile raggiungerlo. Il dover capitolare, seppur temporaneamente, mi ha intristita e ha gettato benzina sul fuoco della discriminazione che — in molteplici casi, tacitamente e ben mascherata da negligenza sociale — ricade su chi vive una disabilità e pertanto non può espugnare la selva a suon di cosce graffiate dai rovi e braccia-falci che aprono varchi e affondano, colpo dopo colpo, dentro la boscaglia.

Tornerò, è certo, per altri sentieri e armata fino ai denti. Tornerò, per raggiungere le spoglie che, in fondo, mi appartengono.