
Fuori il cielo si sta aprendo e un azzurro quasi estivo s’affaccia dagli squarci nel grigio solido e disomogeneo della coltre gonfia di pioggia. In cucina Massimo lavora al pc, seduto al tavolo, e dagli auricolari cerulei una musica reggae ne raggiunge il cuore e lo rallegra. Il trillo dello smartphone richiama la mia attenzione. Allora, con dita impazienti digito il codice di sblocco e apro l’applicazione di messaggistica. Leggo: “La prossima settimana hai un day hospital al Nemo!”. Dopo la chiusura preventiva conseguente alla pandemia che ha messo in ginocchio il nostro paese, una timida spaccatura riporta luce dove prima era buio fitto pregno d’angoscia e nostalgia. Resto incredula per un attimo, una frazione di secondo che a una mente disattenta parrebbe troppo breve per esser considerata “tempo”. Sbatto le palpebre. Inspiro. È tutto vero, reale come la stanza immobile al risveglio da un brutto sogno. Il tepore delle lacrime serpeggia sulle guance prima di infilarsi — fastidioso, impertinente — dentro la mascherina nasale della NIV. Massimo si volta di scatto sentendomi singhiozzare. «Tesoro, che succede?»Rubo le parole all’aria frusciante che dal naso passa attraverso la gola prima di ramificare nei polmoni, e senza indugi rispondo: «Sono felice!»