Rinascite – 18 novembre

Lentamente mi sto riappropriando della mia vita: non è più un trascorrere con indolenza i giorni in quello stato di voluttà priva di forza che altro non è che l’effetto dei sedativi sulla bestia, oggi è tempo di rinascite suggellate dal bronzo dei tramonti canavesani.
Ho imparato a mettere il mio corpo totalmente nelle mani altrui senza più sentirmi spodestata della volontà. Quel confine invisibile tra le mani delle mie assistenti e la mia intimità è rimasto intatto, nonostante più volte io l’abbia avvertito cedere. Il mio corpo è ancora soltanto mio. Nessuno stupro è stato perpetrato. Ho gestito con piglio rapace la loro innocenza di giovani aiutanti; ho insegnato loro a fermarsi un millimetro prima di superare il limite tra il prendersi cura di qualcuno e l’imporgli il proprio volere. Ora ho un rapporto più libero con il mio corpo. Proprio come avvenne nel Rinascimento a seguito dell’epidemia di Peste Nera, i tabù che prima mi incatenavano a una vita di privazioni sono stati scalzati dalla naturalezza e dall’onestà a cui il corpo prima e il cervello poi si sono affidati.

Tuttavia, sento che la strada è ancora lunga e il mio zaino gualcito è già sull’uscio pronto a seguirmi nei miei viaggi randagi. Carne, sangue, strade assolate, vetri solcati dallo stillicidio della pioggia, notti alla fioca luce di una lampada di sale, cieli sempre più vicini e meno silenziosi, il buio delle mani appoggiate sugli occhi, le prime luci dell’alba, i sorrisi… Guardo la soglia che non oso oltrepassare da un mese e un vortice di immagini mi fagocita. E assieme alle visioni giunge una voce a corroborare il flusso di vita tra le sinapsi e gli occhi.

Giunge, infatti, la notizia tanto attesa che a metà dicembre riceverò la prima dose di Risdiplam, il farmaco sintetizzato da Roche e usato come terapia compassionevole per l’Atrofia Muscolare Spinale. Non riesco a contenere l’euforia, perciò la condivido con voi con uno dei tramonti più belli sulla mia pupilla di zingara a dire il vero palesemente commossa.

Nuda – 31 agosto

Era il primo giorno d’estate. Il silenzio, spezzato dal frinire dei grilli, odorava di erba e candele alla lavanda — blando rimedio, quell’anno, all’orda di zanzare che aveva invaso il paese e colpiva con aggressività di demone affamato ogni lembo di pelle scoperta giungendo finanche a martoriare quella nascosta dagli abiti. La canicola, di certo, non aiutava: la sensazione claustrofobica di umidità nell’aria ci rendeva tutti prede appiccicose e sanguigne al cui richiamo non c’era zanzariera, candela o fiamma in grado di difenderci.

Chiusa nella mia camera, raccontavo al mio fidanzato dell’esame di anatomia umana e di come il professore fosse stato simpaticamente scorretto nel chiedermi come prima domanda di identificare e poi descrivere quegli organi a forma di fagiolo che mi aveva posto sotto il naso. Certo, non potevano essere reni, quindi dovevano essere per forza testicoli. “Carino il prof” avevo pensato “che scherza sul mio cognome con subdola autorità di docente!”. Tuttavia, il libro di anatomia lo avevo studiato così a fondo da ricordarne le didascalie e quindi al prof non era rimasto che stampare un bel 30 e lode sul mio libretto universitario, con buona pace dei coglioni (quelli sezionati sulla cattedra e intrisi di formaldeide e quelli che alla cattedra ci stavano seduti).

Parlavamo e intanto — forse complice il caldo — mi era baluginata nella mente l’idea del mio corpo nudo. Come non avevo mai voluto vederlo e come probabilmente non lo avevo mai davvero visto. Essere nata con una patologia muscolare degenerativa aveva modificato la mia fisicità fino a renderla imperfetta, lontana anni luce dai canoni estetici ai quali i nostri occhi e i nostri cervelli erano abituati. Per questo, negli anni difficili dell’adolescenza avevo maturato un vero e proprio ribrezzo per il corpo — poi, fortunatamente, mutato in accettazione e fierezza — tanto che non perdevo occasione di ferirlo e nasconderlo.

Quella sera con il ronzio penetrante delle zanzare nelle orecchie e il fuoco dell’estate che mi rigirava sulla graticola come una pietanza per palati non troppo raffinati, avevo visualizzato la mia nudità e ne ero rimasta attratta.

«Amore» mi ero affrettata a condividere «ho voglia di posare nuda…beh, diciamo seminuda, insomma una cosa artistica…»

Lui aveva annuito dimostrando di aver compreso il mio bisogno. «Se non ora, quando? Ora è perfetto, l’età è dalla mia parte» incalzavo, con un’euforia effervescente e infuocata «ci sono le idee, la voglia, e soprattutto c’è il corpo. Lo voglio fare… chiamo subito Margherita*!».

Basito ma felice aveva lasciato lo congedassi e telefonassi alla mia amica. Con grande sorpresa non ero stato necessario spiegare molto, Meg immaginava da tempo che presto io e lei avremmo collaborato alla mia crescita interiore e sociale. Sì, perché il mio corpo liberato dalle catene non sarebbe rimasto rinchiuso in uno scrigno come qualcosa di cui vergognarsi. Avrebbe respirato a fondo, si sarebbe riempito il ventre di nutrimento, avrebbe parlato anche, con garbo e delicatezza ma con la potenza di un urlo.

L’ho fatto per imparare a vedermi. Per far pace con la ragazzina che voleva mutilarsi e diventare talmente piccola e insignificante da non essere vista. L’ho fatto perché Meg, con la quale all’epoca mi perdevo come scie di fumo in lunghi e abissali simposi filosofici, è stata dalla mia parte fin dalla prima maglietta sfilata e dal primo paio di jeans abbassati. L’ho fatto per far parlare il mio corpo e quanti lo vedevano. E continuo a farlo con la speranza che un peccato di vanità possa contribuire a far luce sugli aspetti meno visibili e talvolta scabrosi della disabilità che attendono, nascosti dal vestiario o da quello più pesante del pregiudizio, di essere visti e capiti.

*Margherita Riccardi, restauratrice, pittrice e donna di inestimabile talento.