Lo spirito nomade – 19 agosto

Nella vita ho sempre voluto andare via, allontanarmi, e questo spirito nomade mi ha condotta fuori da tanti usci e da molte case, ma ogni volta che mi sono voltata per essere sicura di aver fatto parte di qualcosa — un focolare attorno al quale raccogliersi, una famiglia con cui condividere legami di sangue forti e resistenti come corazze —ogni volta che mi accertavo di essermi lasciata alle spalle un nucleo coeso di elementi, un cuore da cui distaccarsi soltanto opponendo una forza inversamente proporzionale a quella d’attrazione, ho trovato l’ombra ad attendere il mio sguardo. Sempre, ogniqualvolta ho abitato un luogo, un interno che ricacciava al di là dei suoi confini un esterno fatto di muri, di terra, di foglie, di ali, di occhi. Sempre. Non soltanto nella casa torinese.

Lì, però, l’ombra si era fatta maestosa, aveva abbandonato le circonvoluzioni della mente per divenire lunghezza d’onda. Eppure il mio vissuto è sempre stato costellato di ombre, molte sono quelle che ho visto, scorto, creato, disperso… Di alcune ho addirittura goduto, ombre liminari al piacere, distese al suo cospetto in attesa di essere prese. L’ombra che lambiva la casa, tuttavia, aveva in sé l’austerità di una retta, il senso claustrofobico di ciò che è infinito. Il desiderio di andare via era, quindi, tornato a spazzare quel miraggio di stabilità che certe notti dormite per intero, senza risvegli prima dell’alba, avevano mostrato all’orizzonte.

Era riecheggiato, allora, nel silenzio promiscuo di quelle stanze il sentenziare sornione di Wasim: «Noi siamo zingari!» e improvvisamente l’oscuro richiamo di sentina era stato messo a tacere dall’aria fresca degli spazi aperti, dai viaggi forieri di promesse, dall’alchimia del mettere a nuovo lo sfasciume di un’esistenza.