Lo spirito nomade – 19 agosto

Nella vita ho sempre voluto andare via, allontanarmi, e questo spirito nomade mi ha condotta fuori da tanti usci e da molte case, ma ogni volta che mi sono voltata per essere sicura di aver fatto parte di qualcosa — un focolare attorno al quale raccogliersi, una famiglia con cui condividere legami di sangue forti e resistenti come corazze —ogni volta che mi accertavo di essermi lasciata alle spalle un nucleo coeso di elementi, un cuore da cui distaccarsi soltanto opponendo una forza inversamente proporzionale a quella d’attrazione, ho trovato l’ombra ad attendere il mio sguardo. Sempre, ogniqualvolta ho abitato un luogo, un interno che ricacciava al di là dei suoi confini un esterno fatto di muri, di terra, di foglie, di ali, di occhi. Sempre. Non soltanto nella casa torinese.

Lì, però, l’ombra si era fatta maestosa, aveva abbandonato le circonvoluzioni della mente per divenire lunghezza d’onda. Eppure il mio vissuto è sempre stato costellato di ombre, molte sono quelle che ho visto, scorto, creato, disperso… Di alcune ho addirittura goduto, ombre liminari al piacere, distese al suo cospetto in attesa di essere prese. L’ombra che lambiva la casa, tuttavia, aveva in sé l’austerità di una retta, il senso claustrofobico di ciò che è infinito. Il desiderio di andare via era, quindi, tornato a spazzare quel miraggio di stabilità che certe notti dormite per intero, senza risvegli prima dell’alba, avevano mostrato all’orizzonte.

Era riecheggiato, allora, nel silenzio promiscuo di quelle stanze il sentenziare sornione di Wasim: «Noi siamo zingari!» e improvvisamente l’oscuro richiamo di sentina era stato messo a tacere dall’aria fresca degli spazi aperti, dai viaggi forieri di promesse, dall’alchimia del mettere a nuovo lo sfasciume di un’esistenza. 

L’abilismo – 12 agosto

Oggi voglio parlarvi dell’abilismo. Voglio condurvi per mano in un mondo in cui la discriminazione è spesso sottile, per molti aspetti invisibile. L’abilismo, infatti non è sempre intenzionale e — parafrasando l’aforisma di bosweliana memoria — sovente è lastricato di buone intenzioni.

Tanto per non confondervi le idee… inizio subito col dire che l’abilismo è un cubo di Rubik da risolvere a occhi chiusi, l’equazione di Navier-Stokes, una stanza degli specchi in cui indovinare cosa è reale e cosa invece è semplice riflesso. Il motivo di una tale confusione — che peraltro disorienta pure noi, parte lesa dal modus operandi definito abilismo — è l’essere stato, negli anni, talmente interiorizzato da apparire come un atteggiamento moralmente e socialmente corretto.

Pensate di aver erroneamente appreso, nel corso della vostra vita, che la Terra percorre orbite circolari attorno al Sole, e improvvisamente qualcuno vi fa notare che in verità tali orbite sono ellittiche. All’inizio lo guardereste con aria di sufficienza e poi probabilmente gli chiedereste una dimostrazione. Ecco, l’abilismo è un teorema che va dimostrato — spesso con innumerevoli esempi — perché ad oggi è come la Terra che ruota in cerchio attorno al Sole: un errore colossale.

Chi pensa che l’abilismo abbia a che fare soltanto con le barriere architettoniche è un copernicano 3.0.

Certo, abilismo è garantire l’accessibilità di un edificio senza tuttavia aver conformato l’ascensore alla normativa vigente che prevede tasti in braille, altezza del pulsante d’emergenza adeguata a chi è seduto su una carrozzina e l’emissione di un suono quando si raggiunge il piano desiderato.

Ma abilismo è anche ritenere che una persona con disabilità debba accontentarsi di relazioni sessuali e sentimentali insoddisfacenti e talvolta violente perché non considerata un buon partito. Abilismo è dare per scontato che le persone con disabilità grave possano attrarre unicamente altre persone disabili o disadattate, con la benedizione dell’atavico preconcetto che un individuo “normale” non potrebbe mai sopportare uno stile di vita tanto limitante e costellato di sacrifici.

Abilismo è la pacca sulla spalla e il conseguente ammonimento: «Dai! Pensa a chi sta peggio di te…» quando attraversi un momento difficile e tra i capelli hai nascosto un diavolo che odora di zolfo e carni ustionate.

Abilismo è il cameriere del ristorante che ti riserva un tavolo appartato (che, per carità, da misantropa dichiarata potrebbe certo piacermi) senza prima averti proposto un posto al centro della sala.

Abilismo è un genitore che insiste affinché il/la figlio/a si prodighi in affettati ringraziamenti ogniqualvolta riceve aiuto da qualcuno, perché “se non ti aiutassimo resteresti tutto il giorno a letto.”

Abilismo è quel fine e insidioso pungolare la mia pazienza che giorno dopo giorno, sottoposta a pressione costante e sempre più elevata, gonfia come un rospo delle canne fino ad essere talmente tesa che basta una fibra di cotone a farla esplodere. E a far saltare in aria con me mezzo Canavese.

Abilismo è un soffice giaciglio di bambagia in cui dormire un sonno catartico e lasciare che fuori in strada il mondo viva come se tu non esistessi. È una mela soporifera, un caldo lettuccio in cui dimenticarti.

Un cervello “molotov” – 10 agosto

Si dice che persone sottoposte a forte pressione vadano incontro al burn-out, ossia al fenomeno in cui si va letteralmente in tilt a causa dello stress. Una sorta di campanello che esplode in faccia al visitatore, un lampione che prende fuoco e con effetto domino incendia tutti gli altri finché il quartiere avvampa come un falò estivo.

Ecco, oggi è successo a me: sono deflagrata e ho incenerito i volti costernati dei presenti. Gli impegni incessanti, il caldo afoso, il ronzio del ventilatore, la routine della penombra strategica per tenere fuori il caldo riparandosi dal sole, delle abluzioni rituali per rinfrescare momentaneamente la pelle prima di avvertire un caldo ancor più intenso, e quella dei piatti freddi consumati dentro un forno crematorio con l’illusione di poterne fare una sala da pranzo, sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le radici del malessere son ben più profonde e arcigne come grinfie di suocere pedanti e insidiose. Tuttavia, non ve ne parlerò adesso.

Oggi voglio solo mostrarvi quel lato umano che spesso a noi, individui con gravi disabilità, tocca nascondere dietro un bel sorriso per fare star meglio chi, leggendo, sente di aver trovato chi sta peggio di lui e che tuttavia non perde mai la forza. No, non è onesto darvela a bere (in verità, non ci ho mai nemmeno provato).

Anche io perdo la forza e stasera ci ho rimesso anche una fetta di testa. Capita, tutto qui. Capita a tutti. Anche a noi, creature sfigate eppur piene di voglia di vivere.

Chi non conosce il termine “abilismo” e il significato sotteso, probabilmente si starà grattando la testa con aria paternalistica e penserà tra sé che se la mens è sana in corpore sano, è naturale che in corpore storpio la mente accusi qualche disturbo. Ma chissenefrega! Stasera sono detonata come un ordigno nucleare e ho infranto vetri, sventrato casa, fatto esplodere il tetto — tegola dopo tegola — frantumato ogni piastrella, polverizzato le porte.

E voglio raccontarvelo perché, ben lontana dall’essere perfetta, non sono altro che una donna con una disabilità grave e un cervello frizzante, pieno di idee e, talvolta, gonfio di paturnie ormonali e aneliti d’oblio. Un cervello “molotov” ad alto rischio di innesco.

Fotogrammi – 8 agosto

Sono queste le ore che prediligo: quando il crepuscolo silenzia il paese e il prato deserto riverbera le luci calde del giorno che si spegne.

Le mie ore preferite, anche oggi che non sto bene. Vivere con una malattia neuromuscolare scandisce il mio tempo ed è inutile negarlo. Ci sono giorni di sole da passare all’aperto e giorni di sole da trascorrere chiusa in casa. E poi ci sono giorni in cui bere un cocktail in un locale retrò della mia amata Torino, e giorni in cui dissetarsi da una flebo di soluzione fisiologica. Una semplice influenza può avere lo stesso effetto di uno Tsunami.

Quando non riesco a concentrarmi sulla scrittura mi rivolgo alla musica, ma questa tocca sempre corde troppo profonde e a meno che non abbia il ritmo vivace e malandrino dello swing o la sensualità carnosa e libertina del reggae, mi fa tristezza e devo spegnerla. Perciò passo molto tempo a calcare il perimetro della casa: salone, cucina, camera da letto, corridoio. Vago come se fluttuassi fuori dal corpo. Percorro lo stesso cammino finché le forze mi vengono meno. Muovermi mi aiuta a pensare alle cose belle. E a sentirmi viva. Conosco ogni piastrella, ogni crepa sul muro, le ragnatele dietro i bastoni delle tende, i nascondigli della gatta. E quando mi stanco di vagare o semplicemente quando giunge l’ora della flebo, accendo la tv e cerco un film. Sono cinefila fin dagli anni in cui rimasi affascinata dall’idea che dentro lo schermo potesse esistere un mondo parallelo, una realtà misteriosa e ipotetica come il multiverso.

Guardo e intanto immagino la mia guarigione: un salto in una dimensione in divenire, dove i miei capelli sono puliti, indosso un paio di jeans attillati e una maglietta con uno scollo profondo. Quello scorcio in cui osservo la vita di qualcun altro è un calcolo matematico che approda a un risultato tanto atteso.

Una possibilità. La stessa che ha il mio corpo di incarnare un’identità diversa in un mondo sconosciuto.

Smoothie al mango – 6 agosto

Questa relazione ha il sapore di uno smoothie al mango e di un gelato alla cannella. Ha il sapore di una gelatina alla fragola ma anche di lacrime. Perché dietro la superficie magenta che ravviva le mie giornate c’è un sottobosco di emozioni latenti, scintille capaci di infiammare gli occhi e il cuore in una frazione di secondo.

Non è facile dividere la propria vita con qualcuno. Non è facile sincronizzare i propri ritmi con quelli altrui. Il bagno è sempre occupato quando ti serve lo struccante, lui si accorge di avere un imperante bisogno fisiologico quando la cena è in tavola, e io inizio a mangiare da sola sennò le pietanze si raffreddano (in verità, inizierei ugualmente anche se nel piatto vi fosse lava incandescente, perché sono una che appena vede il cibo deve assaggiarlo, boccone dopo boccone…finché il piatto è vuoto, s’intende!).

Non è facile. Bisogna imparare a rispettare le usanze altrui. A fingere di ascoltare i monologhi pestilenziali con cui lui accompagna ogni pasto; a rivolgergli brevi ma efficaci cenni di approvazione con la testa affinché si senta capito anche se, mentre lui parla, nella mia testa una scimmietta con in testa un cilindro sta suonando dei cimbali. Bisogna scendere a compromessi. Una sera scelgo io il film da vedere insieme e un’altra lo sceglie lui, o almeno ci prova, finché io insceno un malessere improvviso e lui per coccolarmi mi porge il telecomando e pronuncia le parole magiche: «Guarda qualcosa che ti piace, almeno ti rilassi un po’, amore…»

E sì, sono una stronza, però lo è anche lui, solo che io sono una stronza a cui piace tener testa agli stronzi e lui è uno stronzo a cui piace dire di esserlo, ma poi in fondo… Ok, sono una vipera, una Medusa con dei serpenti al posto dei capelli. Eppure lui mi ama. E io amo il suo farmi ridere fino alle lacrime, il viziarmi, il dormirmi appiccicato come un koala su un ramo di Eucalipto. Con lui le ore volano leggere, gli anni non contano più, insieme siamo due adulti consapevoli di poter diventare bambini ogniqualvolta ne sentano il bisogno.

Non è facile. Eppure siamo innamorati.

Le dita affondate nelle carni – 5 agosto

Posato il respiratore sulla credenza indiana, sono uscita con in mente l’idea di andare al torrente. Avevo bisogno di acqua, della corrente che trascina sedimenti e macerie e ripulisce lo spirito. Un bisogno metafisico e tuttavia materiale, corporeo, sanguigno. Scendere in riva al fiume per odorarne le carni, eviscerarlo fino alla spina dorsale, risucchiarlo dentro le narici per portarlo al cuore.

È lì, lungo il suo cammino, sulla riva inselvatichita — un tempo curata e ripulita dagli sterpi — che è nata nonna. Quasi cento anni fa. Se fosse ancora in vita ricorderebbe la casa, le mura che odoravano di muffa, il cimitero in cui seppellivano i suoi fratelli morti durante il parto o poco dopo.

Oggi avevo bisogno di affondare le mie mani di necroforo dentro il cadavere riesumato dell’Orco. Eppure ci sono arrivata solo vicino: a separarci vi era un’alta parete di felci e gramigna e sorgo selvatico e stramonio. L’Orco era protetto dal suo esercito vegetale e da ammassi nauseabondi di rifiuti gettati qua e là come su una fogna a cielo aperto. Non è stato possibile raggiungerlo. Il dover capitolare, seppur temporaneamente, mi ha intristita e ha gettato benzina sul fuoco della discriminazione che — in molteplici casi, tacitamente e ben mascherata da negligenza sociale — ricade su chi vive una disabilità e pertanto non può espugnare la selva a suon di cosce graffiate dai rovi e braccia-falci che aprono varchi e affondano, colpo dopo colpo, dentro la boscaglia.

Tornerò, è certo, per altri sentieri e armata fino ai denti. Tornerò, per raggiungere le spoglie che, in fondo, mi appartengono.

Gusci – 3 agosto

In questi giorni di caldo afoso, il corpo stremato dalla canicola si rivolge alla mente nel tentativo di rivivere la frescura del tramonto nel bosco.

Affiorano, come bolle d’aria sulla superficie liscia di una pozza d’acqua, visioni pregne di ombre e lunghi fasci di luce che bucano il fogliame per allungarsi sul prato: dita di luce che sembrano aggrapparsi alla terra prima che la notte le ingoi. Rivedo le scarpe gettate sull’erba e i miei piedi solleticati dagli alti steli e dai minuscoli insetti a cui ho disturbato il sonno. Rivedo me stessa, in cerca di risposte: «Perché della ragazzina timida e vulnerabile che ero un tempo non è rimasto che un guscio vuoto di noce?» Non sono la sola a domandarlo, spesso anche chi mi conosce da tempo se lo chiede. Le esperienze vissute, mi dico, han segnato la mia crescita, quel passaggio da seme acerbo a gheriglio carnoso dal sapore lievemente amarognolo, di corteccia e di midolla.

Si è vulnerabili finché la vita te lo concede, finché la vulnerabilità non diventa una caratteristica venefica, una cellula mutata che aggredisce le cellule sane di un corpo. Un cancro. Allora, devi cercare di estirparla, strapparne le radici con mani rapaci, aggressive come artigli, grosse come sarchiatori.

«E che resta della persona dopo questo barbaro atto di ripulitura?»

Resta la carne. Quella sopravvissuta, indurita dal tempo e scurita dal sole. Quella che dà vita al pensiero nel labirinto cerebrale, quella dei circuiti riverberanti. Quella che cerca linfa dal terreno dissodato e nuovamente fertile.

Quella meno vulnerabile e meno fragile, ma pur sempre materiale organico. Carne.

L’abito bordeaux – 31 luglio

Ieri è stata la mia prima volta dopo due settimane. La prima volta che — con indosso un abito di tulle bordeaux — uscivo dalle mura domestiche. La prima volta che lasciavo a casa il respiratore perché non sentivo mancarmi il respiro. La prima volta che mi truccavo, dopo due lunghissime settimane trascorse in pigiama, e lo facevo da sola, aiutata dalla mia assistente, Clara, a sollevare la mano per poter dipingere autonomamente sul mio viso. Ho maturato negli anni una predisposizione a far quadrare il cerchio, a cercare un modo di fare le cose in modo diverso da come le facevo l’anno prima. La malattia è pur sempre progressiva: occorre stare al passo con i tempi, precedere in astuzia il suo decorso, non fermarsi. E di fermarmi certo non ne ho voglia. Non adesso che il ricordo di ieri mi fa ben sperare. Non ieri che al primo refolo di brezza giunto a sorpresa dal bosco, ho gettato le scarpe sul prato e a piedi nudi ho camminato verso la Cappella della Madonna del Bosco con gli steli d’erba che solleticavano le dita e gli ultimi raggi del sole che sempre più fievoli preannunciavano il tramonto.

Oggi mi riposo. Resto a casa, ma con addosso un costume anziché un pigiama.

Estate 2020 – 29 luglio

Questa estate ha il sapore della resina succhiata dagli aghi dei pini, all’ombra dei nocciòli. Odora di gelsomino e di bardana cresciuta spontanea sul muricciolo di pietra, lungo la strada che sale la collina.

Questa estate ha le sembianze della roccia sbozzata per liberare la bellezza dalla materia, odora di polveri di gipsoteca.

È tempo di rinascite, di letti di sarmento su cui addormentarsi al tramonto e risvegliarsi all’avvampare dei falò, sotto una luna aguzza metà satellite e metà falce, metà voyeur pallido e innocente e metà lama sporca di sterpi e di carni.

Si avverte che nelle parole c’è qualcosa di impudico. Più che nei gesti.

È un’estate infida, luccica come gemme preziose nascoste dentro tane buie di lupo. È l’estate dell’aria che da fonte di vita è diventata un’arma potentissima fautrice di morte. È l’estate della politica del vivere sul filo del rasoio, tra negazionismi e maschere premute sui volti come una seconda pelle, un filtro per virus mutevoli che abitavano questa terra ben prima dell’arrivo dell’uomo. È l’estate dei divieti che rendono più bella un’ora sotto il sole, in mezzo a un campo da cui non si riesce a scorgere l’orizzonte e nel quale, se vuoi sentirti libera, devi alzare gli occhi al cielo e confidare nello Spazio profondo dove non esistono mura, né soffitti o aria contaminata da assassini ancestrali.

É l’estate della mia rinnovata voglia di scrivere e di respirare senza paure.

Il desiderio s’incarna – 28 luglio

Ecco: il desiderio s’incarna. È un fascio di nervi che contrae le carni, un’idea che percuote la mente, la sfinisce sotto i colpi.

Dalla cucina giunge l’odore familiare del caffè che gorgoglia sulla piastra elettrica del piano cottura. Non abbiamo voluto una di quelle macchine per il caffè espresso, quegli ingombranti marchingegni che spremono nettare da futuristiche capsule. A noi piace macinare il chicco e farne polvere per infusi alchemici. Odorarne manciate generose prima di interrarlo dentro il filtro della moka. Il fuoco ne estrarrà la linfa.

«Amore, dove ho messo la maglietta blu con Homer Simpson che divora una ciambella?»

Sono le 7.00 del mattino e io riesco ad aprire solo mezzo occhio sulla sua faccia curiosa, di animale in attesa di un segno.

«Nell’armadio…» bofonchio con la voce impastata di sogni.

«Ma dove?» incalza mentre allunga una carezza sui miei capelli.

Mugugno che non ricordo, voglio dormire, ho sonno. Ma ormai sono sveglia, la camera è pregna dell’aroma color ebano dei miei risvegli con lui.

«Dopo cerco meglio» conclude «forse è dentro un cassetto». Tace, poi riprende a parlare: «Dobbiamo comprare delle ciambelle!» Mettere in parole il primo pensiero che s’affaccia alla mente è il suo modo di rivendicare il proprio essere al mondo. E di frangere le palle altrui, anche.

Sono sveglia, talmente sveglia da notare i raggi giallognoli che filtrano dalle fessure tra le stecche delle persiane chiuse. È una giornata assolata, con il cielo terso, capace di ingannare gli animi in attesa dell’estate. Improvvisamente mi avverto felice. Ho fame e non vedo l’ora di stringere tra le mani la mia tazza di tè nero con una nuvola di latte e di affogarci i frollìni al miele, seduta al tavolo di fronte alla grande finestra che s’affaccia sul giardino. Tuttavia, il sonno è duro da scacciare e allora mi stringo nelle coperte, strofinando i piedi sulle lenzuola tiepide e lisce. Sbadiglio.

«Amore, io vado. Ci vediamo giovedì!» annuncia, infilandosi le scarpe.

La valigia è già pronta ai piedi del letto.

Ho voglia di alzarmi e iniziare una nuova giornata, riappropriarmi delle carte abbandonate sullo scrittoio la sera prima, accendere il notebook e dare la pappa alla gatta che attende pacificamente sulla soglia della camera. Il desiderio è un seme pronto per la tostatura, un piccolo nocciolo in cerca di calore.