
L’estate non mente. Gli abiti si fanno leggeri e poi svaniscono. Ciò che il freddo proteggeva, la canicola getta in pasto agli occhi altrui. Ho sempre temuto l’estate per la sua onestà. Da adolescente ero abituata a raggomitolarmi dentro maglioni oversize per un senso del pudore che assomigliava più a un sentirsi in colpa che a un vergognarsi. Forse frutto di un retaggio culturale che serpeggiava nelle nostre cellule con il ridondante nome di peccato originale, quel pudore mi faceva apparire “sbagliata”. Nata con una patologia che ha plasmato il corpo secondo canoni ben lontani da quelli della perfezione estetica e della salute fisica, e che avrebbe certamente deturpato anche la mente se questa non fosse stata più forte del corpo che la incarna, mi punivo per non essere conforme agli ideali di bellezza e armonia che il mio spirito esteta giudicava come incontestabili. Ma il periodo che ha seguito il lockdown, l’inevitabile introspezione mossa dal disagio della pandemia e da una più intima percezione della vanità umana, hanno fomentato il bisogno di chiudere il pudore dentro uno scrigno e di liberarmi da quelle viscide sovrastrutture che ci rendono tutti giudici e vittime al contempo. Così mi mostro per quella che sono, una donna con il seno piccolo e il ventre morbido e generoso. Una donna con l’Atrofia Muscolare Spinale che indossa un bellissimo, frizzante, vivace costume cosparso di paillettes e un paio di shorts minimalisti e di foggia essenziale a cui non è stato attribuito il pesante compito di nascondere il tubicino del catetere vescicale. E mentre penso di urlare al mondo la mia condanna al body shaming, si rafforza il sentore che questa estate non sarà uguale alle altre.