Le mani – 27 agosto

Quand’è che ho imparato a mettere il mio corpo nelle mani di un altro non lo ricordo. Ciò che è rimasto impresso nella memoria è l’addestramento per riuscire a farlo. Anni di prove e di sconfitte. Dall’adolescenza all’età adulta è stato tutto un susseguirsi di tentativi con il solo fine di diventare brava ad accettare prima e a gestire poi il corpo altrui. Perché non è un’impresa semplice e neppure un atto di pura passività, come si potrebbe pensare superficialmente. Per essere capace di metterti nelle mani di un altro devi cominciare a sentire il suo corpo. Devi entrare in quel corpo, amarlo come fosse il tuo. Chi sostiene che questo debba essere un semplice atto meccanico e che si possa compiere senza implicazioni affettive, con molta probabilità non ha mai dovuto imparare a usare il corpo altrui come fosse il proprio. Affinché si possa dare al proprio la libertà che merita, è indispensabile dare all’altro pazienza, attenzioni, cure. Perché non è facile, per l’altro, imparare a muoverti nel modo in cui tu vorresti essere mossa. Non è facile perché l’equilibrio esige una perfezione millimetrica, un incastro preciso tra l’intento e l’azione. 

Ogni mano che ti tocca trasmette una sensazione mai sperimentata prima. Nessuna mano è mai riuscita a imitarne un’altra. Le ricordo tutte. Le mani che mi hanno aiutata o che hanno preteso di farlo, quelle ho rimpianto e quelle sulle quali ho dormito, le mani che mi hanno vergata e quelle che hanno consolato il dolore, quelle rattrappite, di vecchio, che odoravano di tabacco rancido e di cane, e quelle docili di bambina; le mani che mi hanno sollevata e quelle che hanno inflitto alla mia carne la geometria di una stigmate, le mani che ho amato e quelle che, per quanto piegate alla soddisfazione del mio piacere, non ho mai voluto. 

Le ricordo tutte e ricordo di aver finto che fossero mie, che fossero più vicine di quello che erano, anche se erano già conficcate nella carne o affondate nei miei umori; ho finto che fossero per sempre e che, affrancate dal giogo del tempo, non avrei mai dovuto dimenticarle, né sostituirle. Ho finto di poterle sentire ancora, quando ne avessi avuto voglia. È stato così anche per le mie mani, quando ne ho visto la forza venire meno fino a dissolversi come la pittura dentro il solvente. Ho finto che le avrei ritrovate, che nulla era perso per sempre.

Eppure, quando nostalgica mi volto indietro e ritrovo la giovinezza del mio corpo, l’immaturità dei suoi gesti, l’ansietà dei suoi arti non ancora contaminati dal pensiero che crescita si accompagni a perdita, mi rendo conto che ciò che ho maldestramente fatto in questi anni, in questi veloci e voraci anni, non è stato fingere, bensì prendere coscienza che nulla era perso. In molteplici e fantasiosi modi ho semplicemente compensato le perdite, incubando il seme di un ramo sfiorito e ridandogli vita sotto differenti spoglie.

Lui mi volta su un fianco e mi stringe in un abbraccio come a fermare il tempo: «Conti ancora gli anni al rovescio?»

«No, conto gli anni che non contano…»