




Quando la porta si apre, ad entrare è un vento freddo che giunge dal nord e porta fuliggine e zaffate di braci fin dentro le ossa. Dai comignoli s’innalza un fumo grigio che subito si fonde al grigio del cielo.
Non tocco un corpo da settimane. E non tocco una penna da un paio di giorni. A venir meno è stata la voglia di dare una forma ai pensieri, sempre sopraffatta dal bisogno – invece, potente – di lasciarli disperdere nell’oblio.
Non che non ne abbia avuto l’esigenza in più di un’occasione. Certi giorni mi devo accucciare in un angolo del letto stringendo forte tra le mani il cuscino per non urlare. La mia non è una rinuncia stoica, no. Semplicemente, è il solo modo che ho trovato per dare al dolore la fisionomia di un volo nel vuoto, senza ali.
«Quando siamo soli, mi capita di tirare il freno…» mi confida lui, esortato ad essere onesto.
Non ho più scritto, sul foglio o sulla carne, poiché non volevo lasciare alcuna eredità alla memoria. Non volevo che qualcuno, leggendo potesse immaginare di conoscermi.
«Ma tu sei così criptica anche quando sei esplicita» si affretta ad aggiungere come a rassicurarmi.
«È che vorrei che certe parole giungessero solo al loro destinatario…» replico con voce ferma mentre mi avvicino al tavolo e allungo una mano per prendere la tazza con il tè verde e un refolo dolciastro sale alle narici dandomi la nausea.
Lui mi siede accanto ed io non desidero altro che quella vicinanza: «Lo sai, un tempo avrei desiderato essere attraente ai tuoi occhi. Anzi, essere più attraente di tutte le altre che consideravi belle» mi soffermo sui suoi occhi che riverberano una tormentata attesa, quindi proseguo con l’intento di liberare con un fendente la sua coscienza dalle carni: «Dimmi, tu la vorresti una così inguaiata, vorresti un amore che è peggio di una cambiale e che ti ricorda a scadenze inesorabili quanto il sogno di una vita normale – lavoro, casa, famiglia, stipendio, mutuo, compleanni, vacanze, amplessi – sia stato fatto a pezzi?»
Mi fissa.
Sta rabbuiando. Restiamo così, ti prego, ad una distanza che non fa male, impercettibili l’una all’altro. Ché già il ventre sta riscaldando un corpo che non è un figlio, e se lo tiene dentro a forza senza riuscire ad espellerlo.
Allungo lo sguardo oltre il vetro. Appena poco più a lato della siepe un passero fruga nell’erba in cerca di cibo. E più in là, davanti al cancello in ferro, una pedana forgiata con assi di legno inchiodate l’una all’altra raccorda il piano della casa con quello del cortile, in un richiamo simbolico delle pendenze irrisolte delle nostre vite.
La mia, di pendenze, ne ha fin troppe. E ciò che mi ha allontanata dal saldarle è sempre stata una tangente d’ombra che alligna di fronte a una soglia. Il debito più grande è quello che ho contratto con la mia natura nascendo inversamente proporzionale alle aspettative genetiche. È un debito di sangue, il mio, un debito inestinguibile per non aver lasciato alcuna eredità cellulare, per non aver portato a compimento il fine ultimo per il quale sono nata: germinare il seme ed accrescerlo.
Lui accenna un sorriso: “Sai, sei delicata anche quando vorresti fingerti coriacea!”
Ma a farmi male è proprio questa delicatezza che arroventa l’epidermide ogni volta che la sfiorano. E allora gli rispondo con uno dei passi più suggestivi della mia adolescenza. Un passaggio dell’epistolario della badessa Eloisa e del filosofo e monaco benedettino Abelardo:
“Dio lo sa, in ogni momento della mia vita, temo ancora di offendere più te che Dio, desidero piacere più a te che a Lui. All’abito religioso mi ha tratto il tuo comando, non l’amore per Dio […] Nulla è, infatti, meno in nostro potere dell’animo e ad esso siamo costretti ad obbedire più di quanto non possiamo comandare. […] Ritrarrò pertanto la mano dallo scrivere, là dove non sono in grado di trattenere la lingua dalle parole. ”