15 luglio 1978

Era l’anno in cui rapirono e uccisero Aldo Moro, l’anno in cui venne meno il compromesso storico stipulato tra lo stesso Moro ed Enrico Berlinguer con l’obiettivo di avvicinare la Democrazia Cristiana al Partito Comunista. Era l’anno in cui venne intensificata la lotta al terrorismo, tuttavia sfociata qualche anno più avanti nell’omicidio del Generale Dalla Chiesa incaricato proprio di coordinarla.

Erano anni roventi quelli in cui ho preso forma. Anni di tumulti, di armi e di sangue.

Sono nata il 15 luglio di un caldo 1978. Da pochi giorni, Sandro Pertini — ex partigiano militante nella Resistenza durante il secondo conflitto mondiale — era stato eletto Presidente della Repubblica. Le radio trasmettevano notizie politiche tra un brano dei Bee Gees e uno di Siouxsie and The Banshees; Disco Music e New Wave si alternavano alle melodie dei cantautori italiani.

Sono nata in un paesino di un migliaio di anime, conficcato come una mina inesplosa nella pianura canavesana. Alla nascita pesavo poco più di due chilogrammi e quando chiesero a mia madre quale nome volesse darmi, lei restò in silenzio qualche istante prima di ammettere di non averne la più pallida idea. Alla fine vinse l’unico nome che non le sembrava abusato in quell’Italia tradizional-avveniristica in cui Sonie, Monie, Sare e Marie spuntavano come funghi nei boschi. Tuttavia, quando giunse il momento di pronunciarlo, Tatiana le parve un nome troppo uso a vezzeggiativi, sicché tagliò corto e — sebbene ignorasse le ferree regole dei patronimici e dei diminutivi russi — all’insistente infermiera che domandava il mio nome rispose: «Tania». Tania era un nome corto, più spiccio di Tatiana. Nessuno lo avrebbe storpiato.

Milizie – 14 luglio

Entrare in un campo di girasoli, arrampicandosi sul terreno dissestato, tra l’erba alta e i lunghi fusti irsuti che invitano a sollevare lo sguardo in cerca del capolino rivolto al cielo, è una delle esperienze più suggestive che ho vissuto.

Significa letteralmente essere avvolti dal mistero — che cosa c’è pochi passi più avanti, dove la vista non riesce a oltrepassare il fitto fogliame tra cui vivono in pacifica simbiosi ragni e insetti di varie fogge e molteplici colori? Là in mezzo, c’è una quiete terrifica e al contempo meravigliosa. È un tripudio di giallo, arancione e marrone, con diverse sfumature, e zone d’ombra nascoste dal tetto assolato e abbacinante.

Troppi pensieri mi assillano in questi giorni, dalla recrudescenza della pandemia agli anniversari sanguinosi che affondano le radici nell’anno in cui sono nata e più estesamente in quel decennio noto come “anni di piombo”. Ho bisogno di sentire gli occhi bruciare per il sole che giunge diretto a infiammarli; ho bisogno di sentirmi piccola e protetta da quelle milizie immobili e soverchianti.

Poco distante da dove mi trovo, un cartellone scritto a mano chiede ai visitatori la gentilezza di offrire un euro per ogni girasole che si voglia portare a casa. Caracollando sul suolo accidentato riesco a ritrovare il sentiero. E sollevando lo sguardo sopra un gruppo di giovani girasoli, decisamente più bassi rispetto agli altri, rivedo l’orizzonte.

Lentamente lascio il campo alle mie spalle e passando accanto alla cascina dirimpetto chiedo alla mia assistente di far scivolare due euro dentro la cassetta delle lettere per i due girasoli che, incautamente, ho calpestato durante le maldestre manovre con la carrozzina.