Corde – 9 settembre

Ci sono mani che han toccato corde profondissime ma poi han scelto la tranquillità radiosa della superficie. E poi ci sono mani che han penetrato l’epidermide e si sono spinte fin dentro il cuore: dita che sono entrate dentro atrii e ventricoli facendosi strada nel sangue, intingendosi in quel rosso porpora di antica e regale memoria, lacerando le carni senza fare male. 

«Due addii in un mese sono troppi per me». Ancora una volta, bellezza e dolore confliggono tra gli occhi e il costato: «Due addii sono troppi per il mio cuore e quel suo destino da puttana».

Ma ci sono mani che sferzano, scuotono, comprimono corde profondissime e il loro è un voler porre l’accento sul fatto che, sì, conoscono il mio cuore e il meretricio che grava tra i ventricoli e gli affetti, e non intendono alimentare l’omertà che gli è ramificata attorno.

In serate come, queste cariche di mestizia, le sole corde che voglio ricordare sono queste, pregnanti, immortali, stonate. Mie.

Il fluido della metamorfosi – 8 settembre

Capita, talvolta, che rivolgere lo sguardo al passato disorienti. Quella che vedi non sei tu. O meglio, non sei più tu.

Era una mattina assolata di agosto, il cielo terso invitava a uscire per cercare refrigerio sotto le robinie dalle ampie fronde, con i capelli raccolti alla buona e indosso un abito leggero che lasciava nuda la schiena affinché anche il più debole alito di vento scivolasse dal collo fino ai fianchi senza incontrare ostacoli. Invece, mi sono svegliata con degli insopportabili dolori al ventre, il respiro affannoso e la febbre. E anziché la fresca ombrosità delle acacie, quella mattina ho respirato l’aria condizionata del pronto soccorso. Non odorava di nettare, né di bosco. Le infermiere dicevano che la mia vescica era troppo piena per contenere altra urina: occorreva svuotarla in fretta. «Potrebbe essere un problema temporaneo…» ha azzardato il medico «facciamo un cateterismo veloce e ti mandiamo a casa!» Il giorno dopo, tuttavia, mi hanno inserito un catetere a permanenza.

Fattene una ragione, questo potrebbe essere il tuo futuro!” La dottoressa, una donna di mezza età con la grazia di un caterpillar, ha scaraventato un pesante punto esclamativo nella stanza e se ne è andata, mentre l’opulenta affermazione cercava, scricchiolando, un equilibrio tra il pavimento e la porta. Se ne è andata lasciandomi in lacrime e senza conforto. La questione che era stata messa a tacere da un perentorio segno di punteggiatura, continuava ad essere una faccenda di tubi che penetravano in profondità, intersecavano il corpo, aprivano e svuotavano. E restava anche una questione di emozioni che, seguendo lo stesso ciclo, penetravano, intersecavano, aprivano e svuotavano. Fica e cuore. Muscolo e cervello.  Quel carosello di mani e di guanti e di gambe aperte mi faceva sentire stuprata. Quel punto esclamativo, poi – un fallo, un’erezione – rafforzava l’idea dell’abuso.

Non lo volevo. Non lo volevo e non lo voglio. È cosa di vecchi, un laccio scorsoio, una sutura dal cuore alla fica. Odora di morte, di poltrone ingiallite di ospizio. Non è cosa di corpi infuocati dal sangue, né di menti incontenibili, abili nello spezzare ogni catena. Non è cosa di carni giovani più inclini alla voluttà che al sacrificio, né di spiriti indomiti, ostili alla rassegnazione. Non è cosa che si possa dimenticare con leggerezza…” ho scritto poco dopo il cambiamento avvenuto nella mia vita. Poiché il cambiamento aveva a che fare con qualcosa che veniva da dentro, come i sentimenti. Con la nostra matrice, l’elemento essenziale alla vita: l’acqua. Il fluido della metamorfosi. 

In quella situazione aggrovigliata di tubi e di emozioni, ho atteso che il tempo cambiasse anche me.

Stamattina è venuta l’infermiera. Viene una volta al mese per sostituire il catetere vescicale. Ha sfilato quello vecchio e introdotto quello nuovo mentre parlavamo del ritocco al naso. Subito dopo mi è salita la febbre. Può capitare. Talvolta basta una sola dose di antibiotico per ritornare a star bene. 

Il mio corpo è cambiato. Ora accetta l’oggetto estraneo che gli viene spinto a forza dentro e lo custodisce come un figlio. Sono cambiata anche io. Ora, quando guardo l’oggetto estraneo che mi entra dentro le viscere, mi pare di vedere un prolungamento del mio corpo. Un pezzo di me. E so che nonostante la febbre, le medicine, le precauzioni quotidiane e quelle più rigorose durante l’attività sessuale, lo posso dimenticare con una limpida e fluente leggerezza. 

L’abilismo vol. 2 – 7 agosto

No, questo non è un comune articolo sull’abilismo — che peraltro io stessa fatico a inquadrare e a circoscrivere entro un significato nitido, senza sbavature.

È una confessione, un bisbiglio che via via si fa voce sicura e fiera. Un parlare sommesso che prende velocità dalla fronte e raggiunge il suo picco sulle linee morbide delle labbra.

Non sono nata con un bel naso — nemmeno con un seno prosperoso, se devo essere onesta — e non sono nemmeno nata forte e determinata. Ho imparato dalla fragilità a farmi strada nella vita, a non abbassare lo sguardo di fronte ai passanti in strada, a esporre le mie ragioni senza avvampare in volto. Ho certamente appreso di essere forte il giorno in cui ho visto nella mia debolezza un punto di forza. Allora, ho finalmente compreso a dare il giusto peso alle convinzioni altrui, a non esserne intimorita. A non sentirmi un pulcino indifeso, ancora invischiato nell’albume, un attimo dopo la schiusa.

Ho accettato di non avere un bel naso. Tuttavia, questo non si è tradotto nel paternalistico “piacersi per ciò che si è”. Ho accettato di non avere un bel naso e di volerlo modificare. La medicina estetica non è mai stata un tabù ai miei occhi, qualcosa da biasimare o peggio da nascondere.

Eppure, prima di conoscere Luca Cravero*, innumerevoli, dotti specialisti alla mia richiesta tentavano in modo maldestro e infelice di dissuadermi. Una lunga sequenza di: «Con i problemi che ha Lei, non vada a prendersene altri!» ancora riecheggia tra le mie sinapsi, ammutolendo ogni altra voce. Tagliandole l’ugola per impedirle di esprimersi. Certo, qualunque altra voce con la facoltà di dire la sua, avrebbe replicato con un volgare benché eloquente gergo di strada, ma appunto quelle affermazioni così ingenue e stupide recidevano le corde vocali come la lama di una sciabola.

Una bella dose di abilismo trasuda dal suddetto pensiero. Ed è più pruriginosa di una carezza sulla testa, più avvilente di un clown in un reparto ospedaliero per adulti, più ingenua di un cantastorie che, con una mano sulla chitarra e una sul cuore, continua a raccontarsela e a credere che la propria musica allieti l’anima altrui anziché la propria.

I moralisti, i feticisti del politicamente corretto si fermino qui. Non leggano oltre.

Perché oggi voglio mostrare, nel mio piccolo, che le loro innocenti certezze abiliste vanno prese, con il massimo rispetto, per ciò che sono: carta da toilette da gettare nel wc dopo l’uso. E con orgoglio intendo confidare che oltre al naso — ritoccato già tre anni fa — oggi ho voluto rivedere anche il profilo delle labbra.

Sì, ho una grave patologia neuromuscolare, un catetere vescicale a permanenza, utilizzo un respiratore praticamente ventiquattro ore al giorno, e ho il naso rifatto e le labbra rimpolpate. E, naturalmente, un bel po’ di carta da toilette da gettar via (dopo averla usata, s’intende).

https://lucacravero.it/

Il sapore dell’anice – 5 settembre

Ieri a svegliarmi è stato un incontenibile entusiasmo, un pulsare sordo e incalzante sotto il costato. Mai aprire gli occhi sul soffitto bianco della camera è stato tanto immediato. Ho guardato la finestra. Entrava una luce intensa attraverso le persiane: non avrebbe piovuto. Da quando il clima ha finito per condizionarmi l’umore, confido spesso in una tacita complicità meteorologica. Eppure amo la pioggia. Il ticchettio delle gocce sui vetri dell’auto, lo scroscio dentro la grondaia, lungo la catena di ferro arrugginito che scende tintinnante nel pozzo, e poi l’odore dell’erba fradicia, le pozzanghere in cui saltarci dentro, gli acquitrini su cui beccheggiano foglie e petali strappati al vento. Quell’odore di acqua e d’infanzia, reminiscenza di antri acquosi e muschiati, di abisso e di alghe, è un forte richiamo alla primordiale umidità uterina, quel lento sciabordare di liquidi contro tessuti, dove si accresce il frutto di ancestrali semi: lo schiudersi della notte arcaica. In un balzo temporale millenario, tra viluppi di viscere e filamenti mucillaginosi, restare in silenzio con la fronte contro il vetro a osservare la pioggia è come spingere lo sguardo dentro la genesi della materia dalla materia senza comprenderne appieno le dinamiche sottese.  

Più che scrutarla, tuttavia, la pioggia adoro respirarla. Odorarne il timbro terroso e pungente che segue al temporale, l’afrore di stanze rimaste chiuse per anni. Ricorda i viluppi dell’amore carnale. Il sentore di palustre, di primitivo, di batterico. Legame con la propria nascita, il cordone con cui la Madre tieni avvinto a sé ogni figlio. Eternamente. 

Eppure ieri la pioggia non l’avrei gradita. Speravo in una giornata assolata, da trascorrere fuori: l’atmosfera ideale per una merenda seduti sotto il patio in giardino. Non ci sarebbe stato alcun imprevisto a sconvolgere i miei piani. Ne ero certa. L’aria fresca del mattino, rapidamente entrata dalle finestre spalancate, si è diffusa nella stanza. Le lenzuola rinfrescate facevano raggricciare le dita tra le lenzuola. Allora, indolente ho afferrato il cuscino poiché la sensazione di soffice sotto i palmi mi è sempre parsa il metodo migliore per iniziare la giornata.

Lui dorme fino a tardi, sicché a me resta il tempo di passeggiare nel quartiere con la gatta che mi segue curiosa, e intrattenermi in lunghe telefonate che possono concludersi in modi imprevedibili. Quando si sveglia di solito è ora di pranzo. Perciò non ci è voluto tanto affinché la giornata declinasse verso il tardo pomeriggio. L’ora più attesa. 

«Mi hai promesso una partita a scacchi!» Lui non si è fatto pregare. Accanto alla scacchiera, un vassoio di paste e tre tazze di tè nero. La varietà di dolciumi invitava gli olfatti più sensibili a riconoscere l’aroma della pasta di mandorle, dei pistacchi, del cacao e delle innumerevoli creme, vaniglia o gianduia, catalana o chantilly . 

«Io e Clara ti sfidiamo: due contro uno!» So di essere una schiappa a scacchi, perciò ho giocato la subdola carta dell’alleanza femminile per non finire sotto scacco matto alla prima mossa.

«Vuol dire che vincerò più lentamente…» ha replicato lui con un sorriso sornione. Una tale esternazione aveva il sapore dell’anice. Il pensiero è volato, in quell’istante, al mese appena trascorso e all’intimità dei rapporti umani: ero certa che se avessi potuto avvicinarmi all’agosto ormai andato fino ad avere il suo respiro sulle labbra avrei sentito l’odore intenso, dissacrante dell’anice stellato. Ho avvertito il tipico retrogusto dolciastro che evocava visioni di scrigni chiusi da tempo immemore e di parole che anche se taciute non perdono l’aroma fragrante e vivido con cui le ricordiamo, giorno dopo giorno.

Il nòcciolo del sole – 3 settembre

L’arrivo dell’autunno a queste latitudini giunge in anticipo. L’aria si fa frizzante, sferza la pelle nuda, fa desiderare il sole.

Eppure è appena iniziato settembre, le scuole sono ancora chiuse — in quest’anno di incertezze politiche e di misure sanitarie estreme pare quasi una leggerezza che lo restino solo fino a metà mese. Le finestre durante il giorno rimangono ancora spalancate. Tuttavia, un sentore di cambiamento striscia in mezzo all’erba alta con furtività di rettile. È un continuo frusciare di squame contro gli steli; sul terriccio umido s’intravedono impronte di serpe e un linguaggio primitivo sfiora l’orecchio, sibila il proprio Sapere con piglio di saggio ma acredine di vipera: «La bella stagione sta morendo…».

Subito il pensiero cade, pesante come piombo, sul significato che questo ha per me. Vivere con una grave insufficienza respiratoria porta inevitabilmente ad attribuire al finire dell’estate un significato più esteso, sebbene non necessariamente più pregnante di quello attribuito da altri.

È giunto il momento, infatti, di congedarsi dagli abiti leggeri, indossandoli un’ultima volta per salutarli come in un rito in cui chiudere simbolicamente un cerchio.

È tempo di riscoprire il piacere di una tazza di tè fumante tra le mani e di quei piccoli sorsi che arroventano il palato e conducono il nòcciolo solare fin dentro le viscere. Così il fuoco può tornare a esercitare il proprio dominio sulla stagione che va raffreddandosi. Nella tazza con l’infuso ambrato è contenuta tutta la potenza primigenia della nostra galassia.

Arriveranno mesi bui, giornate corte come i titoli di coda delle reti televisive pubbliche. Arriveranno le notti compresse dentro stanze troppo strette, i volti di galaverna appiccicati al vetro per potersi sciogliere al sole. E forse arriveranno le febbri e i respiri affannosi.

Arriveranno, è più che probabile. Ma ora sto reggendo il nucleo del sole tra le mani e sento di poter far fiorire i ciliegi a settembre e far ricominciare l’estate un attimo dopo.

Ora mi tengo stretto quel presente che troppe volte ho sottovalutato e guardo al futuro con gli occhi di chi sta bevendo il sole, sorso dopo sorso.

Nuda – 31 agosto

Era il primo giorno d’estate. Il silenzio, spezzato dal frinire dei grilli, odorava di erba e candele alla lavanda — blando rimedio, quell’anno, all’orda di zanzare che aveva invaso il paese e colpiva con aggressività di demone affamato ogni lembo di pelle scoperta giungendo finanche a martoriare quella nascosta dagli abiti. La canicola, di certo, non aiutava: la sensazione claustrofobica di umidità nell’aria ci rendeva tutti prede appiccicose e sanguigne al cui richiamo non c’era zanzariera, candela o fiamma in grado di difenderci.

Chiusa nella mia camera, raccontavo al mio fidanzato dell’esame di anatomia umana e di come il professore fosse stato simpaticamente scorretto nel chiedermi come prima domanda di identificare e poi descrivere quegli organi a forma di fagiolo che mi aveva posto sotto il naso. Certo, non potevano essere reni, quindi dovevano essere per forza testicoli. “Carino il prof” avevo pensato “che scherza sul mio cognome con subdola autorità di docente!”. Tuttavia, il libro di anatomia lo avevo studiato così a fondo da ricordarne le didascalie e quindi al prof non era rimasto che stampare un bel 30 e lode sul mio libretto universitario, con buona pace dei coglioni (quelli sezionati sulla cattedra e intrisi di formaldeide e quelli che alla cattedra ci stavano seduti).

Parlavamo e intanto — forse complice il caldo — mi era baluginata nella mente l’idea del mio corpo nudo. Come non avevo mai voluto vederlo e come probabilmente non lo avevo mai davvero visto. Essere nata con una patologia muscolare degenerativa aveva modificato la mia fisicità fino a renderla imperfetta, lontana anni luce dai canoni estetici ai quali i nostri occhi e i nostri cervelli erano abituati. Per questo, negli anni difficili dell’adolescenza avevo maturato un vero e proprio ribrezzo per il corpo — poi, fortunatamente, mutato in accettazione e fierezza — tanto che non perdevo occasione di ferirlo e nasconderlo.

Quella sera con il ronzio penetrante delle zanzare nelle orecchie e il fuoco dell’estate che mi rigirava sulla graticola come una pietanza per palati non troppo raffinati, avevo visualizzato la mia nudità e ne ero rimasta attratta.

«Amore» mi ero affrettata a condividere «ho voglia di posare nuda…beh, diciamo seminuda, insomma una cosa artistica…»

Lui aveva annuito dimostrando di aver compreso il mio bisogno. «Se non ora, quando? Ora è perfetto, l’età è dalla mia parte» incalzavo, con un’euforia effervescente e infuocata «ci sono le idee, la voglia, e soprattutto c’è il corpo. Lo voglio fare… chiamo subito Margherita*!».

Basito ma felice aveva lasciato lo congedassi e telefonassi alla mia amica. Con grande sorpresa non ero stato necessario spiegare molto, Meg immaginava da tempo che presto io e lei avremmo collaborato alla mia crescita interiore e sociale. Sì, perché il mio corpo liberato dalle catene non sarebbe rimasto rinchiuso in uno scrigno come qualcosa di cui vergognarsi. Avrebbe respirato a fondo, si sarebbe riempito il ventre di nutrimento, avrebbe parlato anche, con garbo e delicatezza ma con la potenza di un urlo.

L’ho fatto per imparare a vedermi. Per far pace con la ragazzina che voleva mutilarsi e diventare talmente piccola e insignificante da non essere vista. L’ho fatto perché Meg, con la quale all’epoca mi perdevo come scie di fumo in lunghi e abissali simposi filosofici, è stata dalla mia parte fin dalla prima maglietta sfilata e dal primo paio di jeans abbassati. L’ho fatto per far parlare il mio corpo e quanti lo vedevano. E continuo a farlo con la speranza che un peccato di vanità possa contribuire a far luce sugli aspetti meno visibili e talvolta scabrosi della disabilità che attendono, nascosti dal vestiario o da quello più pesante del pregiudizio, di essere visti e capiti.

*Margherita Riccardi, restauratrice, pittrice e donna di inestimabile talento.

Le mani – 27 agosto

Quand’è che ho imparato a mettere il mio corpo nelle mani di un altro non lo ricordo. Ciò che è rimasto impresso nella memoria è l’addestramento per riuscire a farlo. Anni di prove e di sconfitte. Dall’adolescenza all’età adulta è stato tutto un susseguirsi di tentativi con il solo fine di diventare brava ad accettare prima e a gestire poi il corpo altrui. Perché non è un’impresa semplice e neppure un atto di pura passività, come si potrebbe pensare superficialmente. Per essere capace di metterti nelle mani di un altro devi cominciare a sentire il suo corpo. Devi entrare in quel corpo, amarlo come fosse il tuo. Chi sostiene che questo debba essere un semplice atto meccanico e che si possa compiere senza implicazioni affettive, con molta probabilità non ha mai dovuto imparare a usare il corpo altrui come fosse il proprio. Affinché si possa dare al proprio la libertà che merita, è indispensabile dare all’altro pazienza, attenzioni, cure. Perché non è facile, per l’altro, imparare a muoverti nel modo in cui tu vorresti essere mossa. Non è facile perché l’equilibrio esige una perfezione millimetrica, un incastro preciso tra l’intento e l’azione. 

Ogni mano che ti tocca trasmette una sensazione mai sperimentata prima. Nessuna mano è mai riuscita a imitarne un’altra. Le ricordo tutte. Le mani che mi hanno aiutata o che hanno preteso di farlo, quelle ho rimpianto e quelle sulle quali ho dormito, le mani che mi hanno vergata e quelle che hanno consolato il dolore, quelle rattrappite, di vecchio, che odoravano di tabacco rancido e di cane, e quelle docili di bambina; le mani che mi hanno sollevata e quelle che hanno inflitto alla mia carne la geometria di una stigmate, le mani che ho amato e quelle che, per quanto piegate alla soddisfazione del mio piacere, non ho mai voluto. 

Le ricordo tutte e ricordo di aver finto che fossero mie, che fossero più vicine di quello che erano, anche se erano già conficcate nella carne o affondate nei miei umori; ho finto che fossero per sempre e che, affrancate dal giogo del tempo, non avrei mai dovuto dimenticarle, né sostituirle. Ho finto di poterle sentire ancora, quando ne avessi avuto voglia. È stato così anche per le mie mani, quando ne ho visto la forza venire meno fino a dissolversi come la pittura dentro il solvente. Ho finto che le avrei ritrovate, che nulla era perso per sempre.

Eppure, quando nostalgica mi volto indietro e ritrovo la giovinezza del mio corpo, l’immaturità dei suoi gesti, l’ansietà dei suoi arti non ancora contaminati dal pensiero che crescita si accompagni a perdita, mi rendo conto che ciò che ho maldestramente fatto in questi anni, in questi veloci e voraci anni, non è stato fingere, bensì prendere coscienza che nulla era perso. In molteplici e fantasiosi modi ho semplicemente compensato le perdite, incubando il seme di un ramo sfiorito e ridandogli vita sotto differenti spoglie.

Lui mi volta su un fianco e mi stringe in un abbraccio come a fermare il tempo: «Conti ancora gli anni al rovescio?»

«No, conto gli anni che non contano…»

Metamorfosi – 25 agosto

Non sono nata nel capoluogo, ci sono andata ad abitare soltanto per essere più comoda ai servizi e per poter usufruire, con più facilità, dei mezzi di trasporto pubblico. Sono nata in un piccolo borgo dell’entroterra canavesano fondato sulla pianura alluvionale dell’Orco. Ho vissuto lì le stagioni della mia infanzia, in quel paese di anime ammonticchiate su uno slargo di terra battuta punteggiato di noccioli e di ciliegi. Un fazzoletto di mondo consacrato al culto cristiano ma profumato di paganesimo, quel paganesimo in odore di eresia che la dottrina cristiana delle origini aveva a malapena ispirato nell’impossibilità di sradicarlo. Il ventre del paese era un susseguirsi di resti medioevali e di umili costruzioni perlopiù ad uso agricolo il cui orizzonte era un conficcarsi tagliente di piani nel verticale della vicina catena montuosa: perpendicolarità che subornava la gelida e ieratica serietà geometrica con velati e allusivi incastri carnali. Negli stretti vicoli si respirava l’odore acre dei cortili, laddove qualche gallina chiocciava nel fienile mentre qualche altra ruzzolava tra i pagliericci e la legnaia, e dai portoni chiusi, insieme all’afrore dell’aia e delle stalle, effondeva un senso di penombra e di colori scuri, blu e grigi, forse anche di viola mischiato al nero. C’era, dalla piazza alle viuzze e finanche ai sentieri tra i campi, un vociare di vecchi e di bambini, un trambusto di mercanti e artigiani che collimava con il frastuono dei macchinari agricoli e lo scampanellio delle biciclette e degli usci dei negozi.

Ovunque si udiva un suono, un verso, una voce, fino all’ora del tramonto quando il sole si spegneva dietro la dorsale alpina e il cielo infuocato metteva a tacere l’animazione chiassosa del paese in un grugare di piccioni che risaliva fino alla cella campanaria del Torrione. Lì i colombi avrebbero atteso l’alba e i rintocchi che annunciavano la prima messa della giornata. Poiché il paese non si era mai affrancato dal terrore del flagello divino che scongiurava con la devozione, non aveva mai abbandonato quel sentimento di paura irrazionale e cieca. Aveva tentato, invece, di arruffianarselo con offerte spirituali e materiali. Di più, naturalmente, con queste ultime. Sicché in paese vi erano cinque chiese, tre cappelle e un numero imprecisato di piloni votivi. Sulla piazza principale troneggiava una chiesa, simbolo del passato storico del paese. In quella chiesa ero stata battezzata, purificata con le fumigazioni dell’incenso, intrattenuta dal baluginio delle candele votive; in quella chiesa avevo recitato le mie preghiere, avevo provato ad usarle per ottenere qualcosa, ma quelle suppliche in odore di prostituzione risuonavano come l’appello dei committenti alla penetranza dell’arte: un chiedere la cui riuscita dipendeva dal talento dell’artista più che dalla persuasione dei mecenati.

Dentro quei luoghi di culto oscuri e odorosi di resine talvolta ci torno con la mente e mi vedo ferma, ad occhi chiusi, in mezzo al nartece, silenziosa e vigile, prima di avanzare — passo dopo passo — lungo la navata fino all’abside. Sento voci che bisbigliano in un idioma a me sconosciuto, e suoni che somigliano al crepitio delle mie ruote sugli sterpi. A quel punto apro gli occhi e intorno a me vedo il bosco. E allora mi rendo conto che non ho mai smesso di cercare, che sto ancora vagando, seppur in luoghi di culto differenti — una chiesa, un letto, un bosco — alla ricerca di qualcosa che mi faccia sentire compiuta. E, finalmente, libera.

Preghiere – 24 agosto

Photographer: Renata Busettini

Qualche giorno dopo il trasferimento nella nuova casa, il fuoco che fino a quel momento era rimasto intrappolato sotto la cenere aveva ritrovato vigore, allargandosi fino a farsi pira incandescente. Il bisogno fisiologico aveva stretto un’alleanza con quello più imperioso di rivendicare il diritto atavico di scegliere quando e con chi scambiare un po’ d’amore. In virtù di ciò, avevo trascorso la notte con un vecchio amico che da quando vivevo da sola era diventato insistente e reclamava di potermi vedere.

Riccardo era venuto a trovarmi con la scusa di vedere la nuova casa. Tuttavia, quando si era accorto che data l’angustia dell’abitazione la visita si sarebbe presto conclusa, mi aveva preso la testa tra le mani e si era chinato per cercare la mia bocca. Questione di qualche istante e poi si era lasciato prendere, ostinandosi nel perseguire l’illusione di essere lui a dettare legge in quell’atto tanto antico e belluino. In pochi minuti aveva soddisfatto il proprio piacere e io —  che nel frattempo avevo estinto il mio in un paio di respiri e stavo cominciando ad avvertirmi troppo stretta in quell’abbraccio — gli ero stata grata di aver risolto tutto in fretta. Da quel momento non c’era stato giorno in cui non mi avesse cercata. Per sapere come stavo, diceva, ma io tagliavo corto e il più delle volte non rispondevo. La settimana prima di Natale, dopo che gli altri amici se n’erano andati, mi aveva trascinata con urgenza in camera e mi aveva penetrata con la mano, da seduta, senza perdere tempo a coricarmi. Era bastato quello affinché lui raggiungesse quel vertice matematico tanto ambito. Sbrigativa e senza troppa premura lo avevo congedato.

Fuori era buio pesto, nel cortile non si vedeva a un passo. Soltanto una fredda luce di luna grondava dagli alti palazzi e si allungava sulle saracinesche grigie che ogni mattina, quando venivano riavvolte stridevano nel silenzio del cortile. Ma, superato il corridoio decorato con lesene liberty, oltrepassato il cancello di metallo, grigio anch’esso, si apriva alla vista lo spettacolo struggente della città sepolta nella notte invernale. Le luci del corso baluginavano sui rami spogli, carichi di neve, e poi si adagiavano sulle auto in sosta, in uno sfumare nell’ombra che era la metafora del mutamento a cui ogni pensiero è vincolato. Vanitas vanitatum et omnia vanitas, il sacrificio inaccettabile di ogni progettualità. Poi, dietro i filari rinsecchiti del controviale, affiorava il richiamo delle insegne luminose dei locali notturni, una luminaria che tracciava linee geometriche a perdita d’occhio.  

Avevo immaginato la sua sagoma risucchiata nel ventre urbano. 

Per pochi istanti, nella camera era vorticato un odore che non vi apparteneva, un accenno di tessuti pregni di note dolciastre, caramellate; note viscose e insinuanti. Avevo chiesto di aprire le finestre per cambiare aria e cancellare ogni residuo di quell’intrusione. La stanza era una chimera, una mescolanza destinata a essere per sempre sterile. Ma era anche un organismo compiuto, la finitezza di un essere vivente. Morfologicamente immodificabile. La stanza rigettava ogni lacerto che volesse penetrarla e fondersi con essa, seppur le restassero impigliati alla trama dei tessuti profumi e olezzi forestieri. 

Mi ero guardata intorno. Un enorme spazio bianco tra il bordeaux dei tendaggi e il nero del mobilio. A quell’epoca i vestiti erano ancora tutti avvoltolati dentro uno scatolone — nei giorni seguenti li avrei appesi con delle grucce di legno nero in uno di quegli espositori in metallo che faceva eco, seppur in veste di simulacro, a quelli utilizzati nelle boutique torinesi. Giungeva fin lì, in questo silenzio ovattato di grembo, un canto a fil di voce che proveniva dalla cucina. Un fluire di omofonie, privo di architetture sonore e di strutturazioni. L’anima che condivideva le sorti della casa innalzava le lodi a dio e, circonfusa dal corpo, si prostrava, inginocchiata su un tappeto, con la fronte appoggiata sul pavimento. Dentro la camera chiusa da una pesante porta di legno, la litania pareva il ninnare di una madre. Wasim stava pregando.

Gypsies – 23 agosto

L’odore della pioggia è un’alchimia sinestetica, il timbro salino ricorda quello degli incontri clandestini, delle stanze rimaste chiuse per troppo tempo, delle lenzuola dimenticate sopra il letto dopo aver raccolto nella trama dell’ordito pianti e umori somiglianti al sapore delle foglie macerate dentro un acquitrino. Quando Torino è sorpresa dalla pioggia non cerca riparo, né si scrolla di dosso il sentore di umidità ventrale che lo stillicidio porta con sé. Torino resta immobile, con una sensualità barocca, ad attendere quella promessa di ritorno primordiale.

Da tre giorni la città era immersa in una liquidità materna che uniformava le percezioni e faceva di una condizione climatica il divieto metafisico ai passaggi di stato. Anche l’effluvio acre degli incensi venduti dagli ambulanti era come annacquato; i portici di piazza Carlo Felice, la piazza su cui s’affacciava la stazione ferroviaria di Porta Nuova, erano un crocevia di viandanti tra le bancarelle di libri usati e chincaglierie dal gusto etnico. Casa nostra, forse, aveva risentito dell’eccesso di umidità di quei giorni. La scala in legno che collegava il piano terreno al soppalco si era rotta: le travi laterali si erano scollate con un crollare di assi sul pavimento. Con i piedi saldi sull’impiantito, Wasim si era voltato con aria indifferente a guardare il relitto sventrato della scala.

«Dev’essere riparata…» gli avevo suggerito.

 «Lo farò…»  era stata la sua risposta. In verità, non lo avrebbe fatto mai e la scala sarebbe rimasta in quell’umiliante condizione di ordigno esploso per più di un mese, finché io non avessi telefonato al proprietario di casa chiedendogli di mandare un falegname a sistemarla. 

Nella casa faceva freddo. Il reticolo fluido della pioggia sui vetri rievocava immagini di segrete, di malsani ricoveri per prigionieri chiusi in un silenzio di tomba, di occhi che cercavano invano la luce dentro una cella buia. 

Wasim aveva gettato la biancheria sul mio letto con un rumore molle di stoffe che si accasciano su stoffe, flaccide carni stanche provate dal martirio della reclusione in un baule di legno tarlato. In un angolo poco illuminato del soffitto, un ragno braccava la notte, la tenebra salvifica, per abbandonare il rifugio e spingersi in cerca di una preda.

«Che cosa dici sempre tu?” aveva domandato Wasim, mentre si toglieva le scarpe e le buttava sotto il termosifone «chi siamo noi?»

«Siamo zingari! Non resteremo mai troppo a lungo in un posto!»  gli avevo risposto prendendo una sigaretta dalla busta di carta verde sopra il davanzale della finestra. 

Avevo ripreso a fumare, non lo facevo da anni. Da quando una brutta broncopolmonite mi aveva strappato dal corpo la giovinezza e il vivere spensierato dei miei diciannove anni. Quando convivi con una malattia degenerativa come la mia devi imparare ad accettare con estrema rapidità e senza fare troppe storie le perdite e i mutamenti. Questo, però, lo impari con il tempo e a tue spese. Da adolescente non immagini quello che ti toccherà in sorte. Non ti aspetti di dover imparare a riprogettare la tua vita decine di volte, ridisegnarla ombra su ombra come a correggere, in modo maldestro, errori di prospettiva. Vivi, semplicemente, il privilegio di un’immaturità che dà alla vita il peso di una piuma. E quando, improvvisamente, sulla piuma grava un carico di piombo precipiti. Un crollo verticale dall’alto di un ideale di bellezza e di immutabilità irraggiungibile. 

A piedi nudi, con indosso un paio di jeans lisi e una t-shirt scolorita e in testa il borsalino color piombo leggermente obliquo, Wasim mi aveva invitata ad andare a letto. Dopo aver infilato la mano sinistra sotto le mie cosce e quella destra dietro il mio collo, mi aveva sollevata e prima di coricarmi aveva ripetuto a gran voce: «We are gypsies!»

Sì, io con l’iride inselvatichita e il destino incerto, e lui con le radici recise in Pakistan, a 7000 chilometri di distanza, e in un angolo della camera lo zaino sempre pronto, eravamo inequivocabilmente zingari.